la dura legge del post
Quando la nostra discussione, partendo da Il delitto dei giusti, è approdata al tema della giustizia mi sono chiesto ed ho chiesto a Giuseppe Giglio se questo totem, la giustizia appunto, potesse avere corso, e se non proprio un presidio costante, che almeno si lasciasse recuperare talvolta nella nostra disperante attualità almeno come memento, cioè come coscienza che non solo nello spazio (ci dovrà pur essere un giudice a Berlino) ma anche nel tempo avrà pure da venire l’ora in cui un congegno teso a ristabilire equilibrio tra individui offesi e oppressi fino a perdere ogni vestigio di dignità ed altri individui oppressori, ai quali la vita sembra aver dischiuso ogni possibilità fino ad apparire, la loro vita, come una perenne, beneaugurante aurora; avrà pure da venire, dicevo, l’ora in cui questo congegno di giustizia possa trovare concreta applicazione.
Da ciò è nato, a mio parere, quel che dovrebbe essere un vero e proprio dibattito: Ripristino di giustizia? Quale giustizia?
Io credo che, se è vero che esiste la sofferenza umana, se è vero che esiste un mondo chiuso e “serrato nel dolore” (Carlo Levi), giustizia sarebbe allora prevedere un ordinamento sociale che sappia farsene carico ed un orientamento culturale, sotteso al primo, che conosca la partecipazione al dolore degli ultimi.
Tutto questo oggi non c’è, o viene a mancare quel poco che se ne era faticosamente costruito, per varie ragioni. Queste le hanno bene illustrate i media con Nanni Moretti che dice: “questo paese non ha più il senso della legalità”; Marco Travaglio che scrive per meglio acconciare, e con maggior humour, il pensiero di Di Pietro; i magistrati che sono costretti in prima linea, ritengo non per protagonismo ma per riempire un vuoto normativo spesso figlio di un vuoto politico se non proprio di un vuoto di pensiero di chi certi problemi non sa neanche da che parte cominciare a gestirli, e gli scivolano dalle mani, gli sfuggono la complessità, le sfumature, i nessi più elementari di causa ed effetto. E poi c’è l’individualismo di tutti noi, l’indifferenzismo dilagante, la deriva morale, la mancanza di rispetto, il si salvi chi può, il suv in doppia fila, il cuba libre e il mojito, la legittima rincorsa al paradiso in terra e la meschina illusione secondo la quale ciascuno di noi, pur vivendo in un villaggio di poche anime, se c’è qualcuno che prepara cuba libre e mojito e te li vende a quindici euro l’uno, pensa di essere felicemente intruppato anche lui in una capitale dell’edonismo.
Se oggi fustighi codesti costumi ti appioppano un moralismo rozzo e da destra e da sinistra. Da destra lo sappiamo. Ma da sinistra, dai comunisti duri e puri, quelli che io credevo uomini dalle mani pulite, sentir strologare di regole, costituzione e diritto come sovrastrutture, come emanazione o riflesso del cerbero imperialista … mah, c’è francamente da trasecolare. Una concezione che non riesce a misurare l’abisso che ci separa dalla piena applicazione, per esempio, della carta costituzionale. Un approccio secondo il quale viene prima di tutto il migliore dei mondi possibili e dopo tutto il resto, e fino a quel momento il rispetto delle regole può anche andare a farsi benedire così come a cacare ci può andare l’avversione nei confronti di chi ci calpesta e ci devasta, noi poveri fessi che ancora crediamo che la cultura propizi la civiltà e esorcizzi la violazione dei diritti. Allo stesso modo fu fatta l’Italia: con gli italiani ancora da fare. E se gli italiani nel frattempo si sono fatti, che spettacolo, signori, questi italiani!
20 Nov 2008 Nicola
Mi viene in mente un angoscioso aforisma, che Vincenzo Consolo mette in bocca al protagonista di un suo romanzo (Lo spasimo di Palermo, 1999), a proposito della condizione di questo nostro Paese: l’Italia è una sorta di materno confessionale di assolvenza, dove tutti fanno peccato, ma nessuno è colpevole.