Mi sono presa tre giorni di malattia. Alzandomi la mattina scopro che la nuova tappa del dolore che colpisce il mio bambino stamane aveva in serbo che la carne si richiudesse sopra il suo occhietto fanciullo. Nel silenzio dell’alba, quando già una debole luce comincia a filtrare attraverso i doppi vetri del mio appartamento, sono stata svegliata da un rumore minimo. Un suono spaventoso a pensarci adesso. Lì per lì non sapevo a cosa attribuire questo rumore, ero nel dormiveglia, ma poi Piero si deve essere svegliato, deve aver capito a modo suo cosa gli era appena successo e ha cominciato a piangere. Piangere? Erano urla disperate. Mi sono alzata di soprassalto, mi sono curvata sulla sua culla e l’ho preso in braccio e nel frattempo scoprivo quello scempio che il Signore gli ha riservato. E capivo atterrita, terrorizzata, che cosa era stato quel rumorino agghiacciante. La carne che dopo impercettibili ma progressivi spostamenti si richiudeva con un ultimo scatto sul suo occhietto chiuso di fanciullino addormentato. Ho sentito una brutta fitta nella bocca, una lima strisciata sui denti.

Adesso rivedo quest’uomo davanti a me. Questo bastardo, lo rivedo dopo vent’anni e proprio non me ne faccio una ragione. Sono tante le cose di cui ho imparato a farmi una ragione. Nel Nuovo Testamento Paolo dice che il dolore non è altro che “il sovrabbondare della gloria in tutte le tribolazioni”, ma io adesso non ce la faccio più.

La lingua è nata per celebrare il mistero del corpo glorioso.