Valzer con Bashir mostra come chi sia stato coinvolto militarmente, fisicamente, in una guerra e ne sia uscito più o meno indenne – ma mai davvero indenne, diciamo sopravvissuto – sia prima di tutto travolto da una scarica di rimozione tesa a cancellare ogni immagine del sangue, dei corpi tumefatti, dei brandelli di carne sparsi dappertutto, del terrore della morte che tutti provano e dell’orrore della morte che a tanti si è inferta. La banalità del male dal punto di vista della torretta di un carro armato, dalla quale si spara non mirando ad un bersaglio preciso e senza alcuna traccia di odio, tirando e basta perché è così che si fa. Non odio e non rabbia. Solo tanta paura.

Essere sopravvissuti a un conflitto armato, magari massacrando per non essere massacrati, porta alla rimozione come se questa fosse una necessità biologicamente imposta e alla quale segue, negli anni, uno sforzo di rielaborazione che altro non è che il cercare di riafferrare quel che si è dovuto espellere da sé. Certi uomini possono risultare talmente devastati da essere costretti a una censura del loro passato. Altri magari no. Penso a quelli che sono esclusivamente vittime o a quelli che non possono celebrare vittorie ma solo piangere vittime, oggetto di sopraffazione di altri uomini; questi uomini forse hanno una necessità più rabbiosa e impellente di raccontare (come è andata davvero), manifestano cioè l’importanza della testimonianza. Ma tra quelli che sono stati ad un tempo vittime e carnefici vi è una sottocategoria, di soldati semplici per lo più, che ‘deve’ praticare l’espulsione per non permettere a quella cosa agghiacciante che ci si porta dentro di rovinarti la vita; per non farsi schiacciare e guastare, per permettersi, infine, di continuare a vivere. E però poi vivere non si può più. L’incubo ritorna sotto forma di ventisei cani accecati dalla rabbia: ti braccano, ti aspettano, ti inseguono, ti ringhiano sotto la finestra di casa. C’è sempre qualcosa, un oggetto, un evento, una persona o una bestia, magari senza una relazione diretta con la guerra o con il passato o con la storia personale di un individuo, che cadendo del tutto imprevista è capace di spezzare l’incantesimo.

Cartone animato di fumetti, sagome macchinose che le senti parlare ma le vedi a mala pena muovere le labbra, siamo dalle parti, come scelta estetica, dei cartoni degli anni ‘70. Eppure una potenza evocativa, di quelle stesse immagini, formidabile. Nell’insieme un linguaggio nuovo, credo, ‘psicanalitico per immagini’, fotogrammi caricaturalmente essenziali per l’introspezione di chi deve risolversi i buchi neri della propria memoria.

Tre ragazzi fanno il bagno di notte in un mare sbalorditivamente calmo di fronte alla città illuminata dalle scie rossastre dei razzi al fosforo. Completamente nudi escono dall’acqua, lentamente si rivestono delle loro divise militari di fronte a uno spettacolo che sarebbe pirotecnico se a guardare non fossero quei loro occhi spenti, già ottenebrati dall’ottusità della guerra.

Questo è quanto racconta il film di Ari Folman, ed anche con una apprezzabile onestà intellettuale – detesto questa espressione tipica dei politici ‘piccoli’. Accusarlo si contraffazione della Storia per aver scaricato le responsabilità degli eccidi di Sabra e Chatila interamente sui cristiani falangisti è da stronzi che non hanno visto il film o non l’hanno visto bene. Anche se non fosse filologicamente corretto, come invece è, certi critici cinematografici dovrebbero sapere dell’impossibilità di fare bei film ‘a tesi’. Ma in certe redazioni non hanno ancora capito dell’impossibilità di stendere buone (utili) recensioni ‘a tesi’.