Se deve mettere una sua creatura di fronte a un muro di dolore, Colm Tòibìn non sceglie mai la scompostezza, mai il lamento sguaiato. Anzi, attua e fa attuare, ai suoi Madri e Figli, manovre diversive, i famigerati scarti laterali, di cui questo autore irlandese si dimostra maestro.

Non succedeva da troppo tempo alla narrativa che mi capita tra le mani questa capacità di sospendere il tempo, di dilatarlo e di divagare (apparentemente), allo scopo di raccontare quello che si perde man mano che si vive. La persona cara che scompare o l’adolescente costretto a scoprire a cosa deve rinunciare mentre si fa adulto. I silenzi dei molti personaggi, refrattari a dirci qualcosa di loro, non tengono a lungo, sono come gli strati di ghiaccio dell’ultimo racconto, Un lungo inverno: custodiscono l’amaro calice nell’attesa di rivelarlo col disgelo. Ma sempre questo disgelo porta altro da quel che si credeva. Porta cioè quella piccola illusione che serve per stordirsi ancora un po’ e per negare il dolore ancora un po’. E più lo nega il dolore, questo libro, più efficacemente lo descrive: tacendolo ma non potendo controllare quello che sotto la pelle si muove, tumultua e preme per uscire. Un prete in famiglia è, di questi, il racconto di cui più si è parlato. A ragione. Non per la scabrosità dell’argomento, d’altra parte ci sono frati e cazzi anche nel primo racconto. Bensì per la presenza dell’anziana madre del prete che sembrerebbe ostinarsi a non vedere - hanno scritto alcuni - temendo di dovere affrontare il giudizio di un’intera comunità. Le sue figlie vorrebbero che si allontanasse per una vacanza in modo che le venga risparmiata l’umiliazione del processo a cui verrà sottoposto l’altro suo figlio, prete, per essere implicato in uno scandalo sessuale con adolescenti. Con tutti i dettagli che usciranno poi sui giornali. Immaginarsi la vergogna per un genitore. Ma lei, Molly, decide di restare; guardando negli occhi il suo ragazzo prima che venga arrestato gli dice: “Faremo del nostro meglio per te, Frank”.

Semplicemente. E mi viene da aggiungere: grandiosamente.

Se dovessi fare dei paragoni accosterei le suggestioni in lettura di Tre amici  (altro racconto di questo libro) a quelle provate a venti anni leggendo Ballo di Famiglia e La lingua perduta delle gru di David Leavitt. Mentre in Famous Blue Raincoat fa smarrire la percezione del tempo e dello spazio a una donna che dall’Irlanda si mette in aereo per andare a riconoscere in un obitorio dell’America più profonda e insignificante il cadavere di sua sorella. La protagonista, e noi con lei, finisce per non trovarsi più da nessuna parte. Al massimo in un cimitero armeno.

Un lungo inverno completa questa attraversata tra i legami di sangue e le reti affettive fissando da vicino il dolore e facendoci sospettare che certi legami affettivi sarebbe meglio non averli affatto. Eppure quello che non si riesce ad eludere davvero è un certo desiderio carnale, un calore della pelle sempre consolatorio. Un eros che mai come in queste pagine diventa, appunto, una cieca rincorsa a tanatos.