da Racconti a vita bassa
La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste.
IL PICCOLO PRINCIPE, ANTOINE DE SAINTE-EXUPÉRY
PASSAGGI
1.
L’acqua la portava Ciccillo. E pure il rombo. Cioè Ciccillo portava l’autocisterna e portava l’acqua. Le galline svolazzavano strepitanti che sennò le investiva l’autobotte in arrivo, per poi tornare a comporre il loro quadretto comunitario nel polverone alzato dalla corsa dell’autocarro. Quando le galline, e altri pennuti in gran parte malaticci, si mettevano improvvisamente a svolazzare voleva dire che stava arrivando l’acqua. E quelle non poche volte che c’era stata una grande morìa delle galline voleva dire che l’acqua non arrivava e non sarebbe arrivata per lunghi tempi. E neanche Ciccillo. Sarebbe arrivato. Va da sé che Ciccillo non sarebbe arrivato anche nel caso in cui fosse morto lui. Mah! Comunque…
2.
Carmen aveva fatto tutto da sé. Il cassone di eternit che fungeva da cisterna dell’acqua se l’era sistemato tutto da sola sul soppalco che poggiava sopra la piccola costruzione in acciaio laccato bianco.
Alle sei del mattino la prima cosa da fare era tirare giù la veranda di plastica trasparente per ricavarne la zona giorno. Estrarre il cartone del latte dalla borsa-frigo rubata in un supermercato. Apparecchiare per la colazione. Lo zucchero è in un boccaccio. Aprire lo stipite e scoprire a fianco allo zucchero la bottiglia di whisky. Ricordarsi ogni mattina che ha smesso di bere, Carmen, e che in quella bottiglia ci ha messo il succo di amarena. Riscoprire ogni nuovo giorno di vivere in una voliera il cui proprietario può decidere di spostare, in un qualunque momento e secondo un suo capriccio, in altro punto del suo personale universo.
Qui Dàniel consumava la sua colazione di pane raffermo affogato nel latte bollente scaldato sul fornelletto. Dàniel aveva gambe lunghe e magre, e il busto troppo corto in proporzione. Con ogni probabilità l’adolescenza gli avrebbe restituito più armonia nelle forme. Ma adesso era che tutte le mattine si ritrovava inerpicato, in equilibrio precario, allo stretto e, per lui, ancora un po’ troppo alto tavolo, avvitato alla base della roulotte, per affogare lunghe fette di pane di Altamura, nero e vecchio almeno di tre giorni, nello zuppone. Così, puntualmente, finiva per insudiciarsi un pigiamino già talmente incrostato da offrire un significativo profilo altimetrico: tutta una geografia di spuntoni e faraglioni che si era panificata sugli straccetti nomadi delle tenute notturne e di quelle eucaristie mattutine. In definitiva, sul frittellato a presa rapida del pigiamino ci si poteva anche comporre dei presepi di cartapesta e fissarci statuine.
La veranda pieghevole si apriva e si chiudeva con un curioso meccanismo a organetto. La zona notte, sul lato opposto della roulotte, veniva infatti smantellata più o meno nello stesso momento della giornata, con la stessa plastica opaca di prima che si richiudeva tutta sulla propria intelaiatura. Osservate da una certa distanza, queste evoluzioni mattiniere evocavano un gigantesco organetto suonato da invisibili, ventose braccia orientali.
Il villaggio finiva lì. Oltre la roulotte, oltre il punto in cui si erano stanziati Carmen e suo figlio Dàniel, c’era solo terra bruciata, rottami di ferro, carcasse di automobili mezze affondate nella radura incolta, elettrodomestici assortiti. E nella terra bruciata si diceva ci fossero le mine. Era terra bruciata. Un cartello segnaletico tutto storto, posto proprio sul limitare di questa zona, lo diceva a chiare lettere: TERRA BRUCIATA.
AUTOMOBILI TELEFONI TIVU’
NELLA SCATOLA DEL MONDO IO E TU.
Per cui la quale, com’era e come non era, Michelino, a via di cicale, aveva finito per innamorarsi di Heather Parisi. Per tutto l’inverno, ogni sabato sera questo sogno si era frantumato sulla sigla di chiusura di quella benedetta trasmissione televisiva. “Adesso è ora di andare a letto” gli veniva intimato subito dopo.
C’è da restare sgomenti a vedere che razza di trimona è diventata oggi quella ballerina americana.
Ma la domenica mattina finalmente si tornava a sognare con la radio che riproponeva quella canzonetta così fresca e briosa. Era estate adesso e quel brano ancora folleggiava per le radio. Michelino cantava e aspettava. Fuori impazzava lo scampanìo delle due chiese del villaggio.
Dàniel esce dal camper per andare alla messa. Passa a chiamare Michelino.
A funzione finita li aspettano fuori dei ragazzetti, amici di scuola. Dàniel però aveva paura di uscire con loro.
“Dài”, aveva protestato Michelino, “perché non devi venire?”
“Non posso.”
“Come non posso? Che altro hai da fare?”
“Niente di particolare.”
“E allora?”
“Allora che cosa?”
“Dove te ne vai mo’?”
“A casa. Dove me ne devo andare secondo te?”
“Secondo me te ne puoi venire appresso a noi.”
“Non esiste proprio.”
Usciti dalla chiesa fresca si ritrovavano sul sagrato già infuocato, abbacinati dalla luce improvvisa e violenta che faceva rimpicciolire gli occhi, e poi su uno spiazzo inondato da quell’afa che costringeva all’istante due dita a spiccicare la maglietta dall’addome copiosamente solcato da slavine di sudore.
“Oh, ma davvero stai a dire?”
Dàniel si smorzava in un silenzio senza risposta. In realtà, preferiva tornare a casa a vedersi un vecchio cartone che trasmettevano la domenica mattina, con la pellicola tutta crepitante come la riproduzione di dischi in vinile rovinatissimi, nel suo malandato phonola dieci pollici. E poi magari farsi un giro su quella sua biciclettona che oramai squittiva dal tanto che si ritrovava sconocchiata; in genere, tutte le loro biciclette erano perennemente sul punto di sbiellarsi e se si riusciva a tenerle insieme era solo grazie a quella torrida estate, nella quale lo sputo veniva fuori con un bel coefficiente di collosità.
Michelino oggi non saprebbe dire quale fosse quel cartone; riesce soltanto a ricordare come fosse già allora un cartone molto vecchio, con le immagini avvizzite, dai colori appannati e asfissiate da densi chiaroscuri.
“Dài, Dàniel, ma perché tutte queste storie?”
“Senti, non ci voglio venire, quelli mi sfottono.”
“Oh, fai come vuoi. Io ci vado” replicò Michelino seccato.
“Dove vai?”
Dàniel sembrava non credere alle sue orecchie.
“A fare un giro con loro.”
“No! Non ci puoi andare!” disse Dàniel inaspettatamente e con occhi stravolti.
“Come?” fece Michelino sbalordito a sua volta.
“Non ci vai nemmeno tu!” Le labbra si tirarono leggermente sui denti di Dàniel.
“Dài, non fare il bambino.”
Guarda che siamo dei bambini. Da quel giorno Dàniel è venuto a fargli visita ogni notte per ricordarglielo.
“Michelì, non ci puoi andare!”
“Tu sei scemo! Ciao!”
“Oh, Michi!” gridò Dàniel.
“Che vuoi?”
“Oh, Michi, no!” Stava avendo una crisi isterica. Una reazione smisurata. Anche se camuffata da quegli occhiali da sole. Un modello assurdo per un ragazzino della sua età: un paio di lenti a specchio con tutta un’intelaiatura rossa indescrivibilmente barocca. Gli conferivano, però, un’aria di felice insolenza.
“Sei uno stronzo!” prese a insultare. “Preferisci sempre gli altri a me!”
“Stronzo a me? Uagliò, sciacquati la bocca prima di parlare con me!”
“Ah sì? E con che cosa me la sciacquo? Con l’acqua di casa tua?”
Michelino ricorda di essersi incazzato, che litigarono così disperatamente che oggi ancora non si capacita di tanta esasperazione in tempi che avrebbero dovuto essere più innocenti. Eppure ci avrebbe tenuto a convincere Dàniel che lui non faceva discriminazioni. Nella distanza temporale che lo separa da quell’episodio è un cruccio per lui non riuscire a focalizzare a quale altezza della stradina verso casa Dàniel decise di voltargli le spalle per tornarsene là dove un televisorino stava gracchiando con ansia. Può darsi che Michelino avesse uno sguardo dolente nel vederlo allontanarsi, nell’osservare le sue gambe lunghe e magre che evitavano qualche fangosa pozzanghera in rapido prosciugamento dopo il violento temporale notturno, in una saloppetta che se lo portava via più triste che mai attraverso quell’assolamento spietato che sferzava barberie e pescherie barricate dietro le saracinesche abbassate. Di aperti c’erano soltanto banchetti di mandorlari e olivari protetti da lacere incerate turchesi o verdastre. Michelino guardava Dàniel allontanarsi di spalle e rimpicciolirsi progressivamente, vedeva scomparire la sua nuca, la sua sagoma, e nel frattempo non riusciva a distinguere cos’era più da quattro soldi, se la sua vita (sua madre si era bevuta tanto dei suoi turni di lavoro d’infermiera) oppure la sua saloppetta, fatta non del più comune tessuto di jeans ma di tela dozzinale.
Più tardi la luce che spiombava dal cielo si fece più lieve, come d’acqua sporca. Come di succo di provolina.
Michelino le aveva appena prese da sua madre perché si era permesso di scaricare lo sciacquone del gabinetto. Tumifaraimorireamme! “Quante volte te lo devo dire?” Ed era calato giù un ceffone. “Non farlo più!” Ceffone. “Mai più!” Ceffone. Non doveva permettersi di farlo solo per aver pisciato. Poiché acqua non ce n’era. Solo a ogni cacata.
Ho capito, pensava Michelino, per mo’ Ciccillo non passa. C’era da accendere un cero a San Ciccillo, c’era da pregare che arrivasse il più presto possibile, fare un fioretto alla madonna delle autobotti sperando che si decidesse a insufflare il rombo. Dentro le autobotti.
Dopo averlo battuto la mamma lo aveva anche minacciato. “Guarda che se continui così dai nonni ti porto.”
“No!” si ribellava Michelino ritrovando una verve inaspettata.
“Altro che no. Sì, invece! E lì ti lascio. Per mesi!”
I nonni che abitavano a Centanime. Un villaggio malamente in piedi, accollato all’argilla refrattaria di un gruppo collinare color terracotta; pochi vecchi abitavano il borgo antico ma a ridosso di questo torreggiavano dei gran caseggiati popolari. Tra questi, un’area sterrata dove stazionava abitualmente un ciuccio senza padrone e quindi appesantito di alcunché. Centanime finiva lì. Oltre le case popolari, oltre il punto in cui si erano stanziati i nonni di Michelino, c’era solo terra bruciata, rottami di ferro, carcasse di automobili mezze affondate nello sterro, elettrodomestici assortiti, un tronco di calcinaccio che faceva da basamento a una statuina. Un tronco di calcinaccio contorto che avrebbe potuto dare l’idea di un gigantesco torsolo di mela, tutto guasto come un grande dente guasto guasto. Faceva da basamento a una madonna di gesso azzurro. La madonna sul dente guasto.
Nella terra bruciata si diceva ci fossero le mine. Era terra bruciata. Un cartello segnaletico tutto storto, posto proprio sul limitare di questa zona, recava esattamente quella scritta: TERRA BRUCIATA.
Al settimo piano di uno di questi palazzi stavano i nonni, che ammazzavano il loro tempo intrattenendosi sul balcone, allentati dentro a quelle sedie a sdraio con spessi fili di plastica legati tutti intorno, rossi per il nonno e azzurri per la nonna.
“Nonna!” la importunava Michelino.
“Oh, dì, che c’è?” faceva la nonna apatica. Sotto un ampio camicione punteggiato di minuscoli fiorellini celesti le si indovinavano le mammelle floscie a riposo sul ventre dilatato.
“Ma tutte quelle mosche non ti danno fastidio?”
“E che fastidio mi devono dare?”
“Mò!… io non le sopporto.”
“Perché? Che ti fanno a te?”
“Non le sopporto proprio. Come si posano io le devo scacciare, mi dànno ai nervi.”
“Eh… quanda storie!… cammine vattinne!” E le mosche le si trattenevano sul volto rugoso: una le camminava sulla fronte, un’altra ancora trafficava intorno a un occhio, tra il sopraciglio e lo zigomo, e il meninno proprio non si capacitava di come potesse restare così insensibile. Pensava che solo le carcasse, solo gli animali morti potevano trovarsi nella condizione di non poter avvertire la molestia di quegli insetti.
“Ancora non l’hai capito che è maleducazione parlare all’orecchio di tuo fratello davanti a due persone anziane?” prorompeva severamente il nonno alzando il tono della voce. Ma Michelino non aveva mai avuto un fratello.
Dopo le botte e le minacce, Michelino si stava prendendo in faccia l’aria smossa a fatica da un ventilatore in alluminio degli anni trenta mentre sua madre aveva bevuto un caffè a temperatura ambiente servendosi direttamente dal bricco dove vi conservava quello che avanzava dalla mattina, s’era accesa e fumata una sigaretta e quindi s’era messa a rammendare una borsa di tela sulla quale erano ricamati fichi enormi. Osceni. Alla veranda del suo piano rialzato risuonarono dei timidi colpi. La madre andò a vedere.
“Era Dàniel” disse richiudendo il pannello scorrevole.
“Che ha detto?” s’informò svogliatamente Michelino, senza neanche guardare negli occhi sua madre.
“Ha portato questi.” Erano i dischetti del Commodore Sessantaquattro che Michelino gli aveva prestato. “Te li rende.”
“E che ha detto?”
“Niente. Non sapeva cosa dire.”
Lunedì mattina Michelino si alza, si lava e si prepara per andare a scuola. Uscendo di casa comincia a ripassarsi la memoria di una poesia di Gianni Rodari sulla quale sarà sicuramente sentito. Nella mente occupata da questo esercizio si incunea un dettaglio che però lui non mette subito a fuoco; il suo è uno sguardo distratto sulle cose d’intorno e sul profilo di case basse, apparentemente consueto, casamenti radi e muti nel fresco mattino, assordati anzi, dal guaire affamato di qualche macilento bastardino. C’è puzza acida di letame. I pali dell’elettricità stendono i loro cavi al di sopra dell’abitato, cavi percorsi dalla tensione a tenere insieme la borgata. Ma i fili elettrici scorrono a un altro livello di altezza e la comunità risulterà sempre troppo disunita.
Scorrendo il proprio sguardo sul registro la maestra è arrivata a Paletta.
“Presente” ha risposto Paletta Vito.
“Policangelo.”
“Presente” ha risposto Policangelo Annamaria.
“Romita.”
“Assente” ha risposto Spizzico Valentina per Romita Gaetano.
La maestra ha un moto di sospetto.
“E come mai oggi non c’è Romita?” chiede sardonica.
“Sta malato.”
“Paletta!”
“Sì, maestra.”
“È malato!”
“E io che ho detto? Sta ucciso proprio!”
“Ieri sera stava bene al catechismo” dice la Policangelo.
“Al catechismo?”
Ecco che i bambini si confondono… stava bene al catechismo… ah, c’era al catechismo?… sì, c’era al catechismo…
Michelino, invece, il vuoto lo realizza proprio quando, seduto nel proprio banco, la maestra sta scandendo il suo nome.
“Schiralli.”
“Sì?”
L’organetto non c’era.
“Hai imparato la poesia?” si intrometteva la voce della maestra.
“Sì.”
L’organetto non ha musicato il suo mattino.
“Faccela sentire. Vieni qui.”
E con ogni probabilità non lo avrebbe più fatto per tutte le mattine a venire. Quell’organetto scomparso dal suo cortile attonito.
3.
Le unghie non crescono più sane e le pellicine muoiono sempre prima di quanto ti aspetti. Dalle suore si mangiava pasta ascitutta in brodo. Sempre la solita zuppa per tutta la settimana. Non a chiacchiera. Non era solo la ricetta a restare immutabile per giorni. Erano la pasta e la broda proprio. Sempre quelle sin dal momento che erano state cucinate il primo giorno. Il brodo primordiale de al principio era il Verbo. Le corna della cuciniera! Suor Benigna.
Fuori, nel cortile del convento delle Mantellate, c’erano due giostrine. Durante quelle giornate torride i gol di Cabrini, Tardelli e Paolo Rossi avevano condotto l’Italia alla finale di España 82. I bambini ne commentavano le gesta e poi si sfrenavano, sudando troppo, senza la capacità di esercitare una minima forma di controllo sulla propria idratazione sotto quel sole spietato. All’improvviso si ritrovavano assetati. Maledettamente assetati. Dovresti andare al gabinetto ma non puoi. Hanno stabilito che il portone resta chiuso finché non sono passate le tre ore d’aria. Puoi provare a vedere che ti dice la suora se le dici che non ce la fai più, che hai bisogno di andare al bagno, che non ti senti tanto bene. Può anche darsi che un permessino te lo accorda.
“Mo’ ti arrangi!”
Allora vedevi i bambini spostarsi in massa verso uno smilzo albero di limoni, sopraffatto dal rachitismo. Cominciare a farsi una guerra. C’era chi riusciva ad arrampicarsi e ad affondare la lingua nel frutto appena spaccato da dieci ditini divenuti rabbiosi. Mentre le braccia di chi restava giù si levavano bramose, tra le urla e le preghiere di poter averne almeno un po’.
Reclusi là dentro i bambini sognavano di come sarebbe stato bello qualche ora più tardi, quando le mamme sarebbero venute a prenderli. Sarebbe arrivato il momento, finalmente, del gelato col cartuccio. Oppure della spremitura maliziosa del calippo. Dell’orologio al quarzo per cronometrare le corse in infinite sfide di velocità. Dei pantaloncini corti di tela chiara, così corti a pari gamba da sembrare delle mutandine. Tanto poi arrivava Ciccillo con le sue acquette, acque fonde e scure, acque silenziose, acque morte. A ristorare tutti quanti. Sperando che Ciccillo non morisse proprio quella volta.
“Che cos’è quel muso appeso?” chiese la mamma a Michelino. Lei era nella cinquecento col motore acceso mentre Michelino ci stava salendo dopo aver richiuso alle sue spalle il cancello del convento.
“Che non arrivi mai, mà!”
“E purtroppo… ho fatto tardi al lavoro.”
“Ma fai sempre tardi. Quelle, le suore si scocciano. Anzi si arrabbiano proprio.”
“Esagerato!”
“No, mà, devi vedere quante te ne dicono che non arrivi mai in orario.”
La prima volta che, a causa del ritardo della mamma, fu portato nella cappella, non senza aver prima tirato giù una raffica di bestemmioni da far impallidire i matti del locale manicomio (internati per la loro proverbiale empietà), perché le stesse suore avevano da dire il rosario, Michelino, al fianco delle mantellate che non la finivano più di snocciolare parole sempre uguali, fu colto da un turbamento angoscioso. Che significato poteva avere tutto questo? Era assurdo. Non si poteva non rincoglionire a fare così. Poi passa l’angelo e dice ammèn. E pensare che questo era un ammonimento tipico e frequente delle stesse suore all’indirizzo dei bambini che s’incantavano a ripetere per gioco sempre una stessa parola o uno stesso movimento del corpo.
“Mà?”
“Dì.”
“Andiamo a comprare un pallone?”
“Perché? Quello che hai non va bene?”
“Il supersantos?!” faceva Michelino incredulo. “Ma stai scherzando? Io voglio un pallone di cuoio.” Che ne poteva capire lei della differenza, soprattutto in quell’estate poi che l’Italia pallonara andava diventando fanatica per via degli sfracelli che stava a fare la nazionale.
“Voglio, voglio, voglio. E i soldi dove stanno? E poi te lo meriti?”
“Sì, me lo merito.”
“Non te lo meriti. Te lo dico io che non te lo meriti.”
Silenzio.
Quello della mamma era un rigore mal riposto.
Era un RIGORE SBAGLIATO.
“Mà?”
“Oh, che c’è?”
“Vedi che oggi le suore mi hanno dato mazzate.”
GOL!
“Vedi di non dire fesserie.”
“E’ vero. Con le ciabatte me le hanno date.”
“Non dire fesserie” ripeteva la mamma come spazientendosi.
“E non ci credere. Che me ne frega a me?”
“Ennò che non ci credo.”
“Pensa che un altro bambino, Fedele, con la mazza da scopa le ha prese da suora Benedetta.”
GOL!
“E perché le ha prese? Sentiamo.”
“Perché si è fatto la cacca addosso.”
“E ha fatto bene suor Benedetta.”
“Ma quello voleva andare al gabinetto, era la suora che non voleva. Non era l’orario per il gabinetto grande.”
La mamma di Michelino era scettica.
“Oh, ma perché non ci devi credere?”
Silenzio. Quel silenzio era come un gol dell’avversario con la palla che dopo aver preso tutti in controtempo s’insaccava con una traiettoria e una lentezza beffarde. Ma era ininfluente ai fini del risultato finale.
“Mà?”
“Che c’è?”
“Suor Benedetta non è suor Benedetta. Quella è una suora maledetta.”
GOLLAZZO!!!
ITALIA TRE GERMANIA UNO.
Ovunque fosse Dàniel in quel momento, Michelino era sicuro che per colpa delle urla dei grandi si stava spaventando a morte. Quella notte per ben tre volte gli ululati di milioni di concittadini si levarono arroventando un cielo buio che dio solo sa quanto altro caldo teneva in serbo di sprigionare per il resto dell’estate. Ed era pressoché scontato che Dàniel non capisse tutto quel furore. Molti bambini quella notte, di quel fragore umano recepirono solo spavento, e piansero. La sfumatura gioiosa di tutto la poterono comprendere solo un po’ più tardi, trascinati anche loro dalla gente del paese che si riversava in strada a festeggiare.
Gli anni si schiacciano su nudi materassi chiazzati di piscio dove ci si coricano due bambini, uno a capo e l’altro a piedi. È il dormitorio, uno degli stanzoni del convento delle Mantellate. Le tapparelle abbassate per tenerne rigorosamente fuori la luce pomeridiana. Suor Benedetta si aggira tra i letti della camerata ricoprendo il ruolo dell’occhiuta sorvegliante. Essa vigila. Tutti i bambini devono dormire. Sennò mazzate. Ovviamente non ci si può addormentare a comando se non si ha sonno, e allora, se non riesci quantomeno a fingere, devi aspettarti di essere colpito sul muso a tradimento dalla monaca. Qualche scapaccione è già toccato in sorte ad alcuni dei finti dormienti, cosicché, ragiona la moglie del Signore, se non li vince il sonno li seda la violenza.
Ora suor Benedetta ha raggiunto il letto di Michelino. Lui si sforza di fingere il meglio che può. Gli occhi tendono istintivamente ad aprirsi per controllare che fa la suora ed eventualmente scansarsi o ripararsi se sta partendo il jab. Le palpebre tremano. Adesso è proprio sopra Michelino e ispeziona accuratamente il lurido giaciglio. Sta cercando di capire se il bambino è sveglio. Se la mantellata avvicinasse la sua faccia a quella di Michelino lo smaschererebbe molto facilmente.
Tud!
Un rumore sordo.
La vecchia ha colpito Giada, che dormiva lungo il suo fianco con la testa dall’altra parte del letto. Con un manrovescio sul muso.
“E citte!” l’ha terrorizzata la suora.
In questo modo Giada sa che non deve lasciarsi scappare un solo lamento. Non si può certo consentire che il suo frigno interrompa il sonno della camerata. Ingoiare le lacrime e il dolore.
Suora scorrotta, convento infetto. A parole. Poi magari nei fatti “col vento in poppa”, il convento. Altrochè. Se si deve giudicare dai quattrini che l’istituto intasca direttamente dalle mani dei genitori…
E la suora dal ceffone facile a quale genio del male deve essersi vocata? Con quale spaventoso divoratore di assennatezza deve aver scelto di fare “corpo mistico”, se il suo compito di sposa del San Signore è ridotto all’esercizio ottuso di continue angherie su creature totalmente in balia del vuoto mantellato, delle bestemmie orsoline, delle coglionerie carmelitane e tutto il registro cariato degli ordini monacali e di tutta quella gran piaga che è il monachesimo in generale, che si mangia il cervello dei bambini e ne compromette il futuro facendone dei possibili psicopatici? Se si pensa che il pensiero occidentale è in debito con i centri monastici ed episcopali per aver funzionato, in tempi remoti, come preziosi custodi della cultura, dell’arte della parola scritta, della retorica latina e della filosofia greca, quando tutto questo rischiava di andare perduto per sempre, viene voglia di fucilarsi nelle palle di fronte a queste donne incartapecorite.
NON VOGLIO FARE L’ALTALENA SU E GIU’ IO STO BENE DOVE CI SEI TU E QUESTO È BRUTTO E QUESTO È BELLO CHI LO SA.
Giada era quella che gli aveva fatto imparare a memoria UN CUORE MATTO, ma soprattutto ITALIANO. Se n’era venuta un giorno con il testo della canzone scritto su un foglio di carta a quadretti, e frase dopo frase, ciascuna ripetuta almeno tre volte, gliel’aveva ficcata tutta nella testa, e a Michelino ora non gli difettavano né il partigiano come presidente né le canzoni con amore con il cuore con più donne sempre meno suore. Michelino e Giada cantavano buongiorno l’Italia che non si spaventa.
4.
Finalmente il rombo. Le preghiere sono state ascoltate. La madonna è viva e lotta insieme a noi. Ce l’ha voluta fare la grazia. Ha rivitalizzato quel decrepito motore nell’autocarro e lo ha sospinto sulle nostre strade perché ci portasse in dono la sua acqua. Ciccillo non è morto, perché sta venendo un’altra volta qui da noi. Accorrere adesso! Accorrere con tutte quante le bottiglie, le taniche e i secchi che si possiedono in casa! Oppure concedere mollemente i propri vasconi, pozzi e serbatoi, come una puttanella farebbe con le sue, di cisterne, al passaggio dell’uomo che sta bramando dalla notte dei tempi.
Dio c’è, la madonna c’è, l’acqua c’è. Altro che chiacchiere! Bingo!
L’avremmo gridata ai quattro venti questa verità se quel rombo non fosse stato dell’autospurgo.
16 Apr 2009 Nicola