Giustizia /3
La giustizia umana e quella divina
di Giuseppe Giglio
(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 di “Stilos“)
«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».
Giuseppe Giglio
01 Giu 2009 Nicola
Sconcertante anche, e soprattutto, l’attualità di questa ‘Giustizia’ alla spasmodica ricerca di senso nel nostro momento storico. E sì che da questo libro si ricavano preziose illuminazioni sull’oggi…
- Sembri deluso.
- Deluso, sì, sono deluso. E’ che non sono più sicuro che legge e giustizia siano la stessa cosa.
Enrico Brignano in FRATELLI DETECTIVE
Non so, mi sembra che Durrenmatt non ne sia venuto a capo. Ma d’altra parte non era chiamato a farlo. Distinguere, cioè, tra le varie declinazioni del concetto di Giustizia: un totem, un ‘masso erratico’ o un pertugio appannaggio della politichetta. Nel primo caso avremmo a che fare con una divinità nei confronti della quale sarebbe vano indagare i capricciosi e imperscrutabili disegni. Nel secondo saremmo al cospetto di un sistema di valori isolato, considerato come corpo estraneo in una vallata in fiore prodiga di colori stupendi dove ogni uomo-pennuto si reca per identificarsi narcisisticamente con un fiore per poi tornarsene credendo di avergli carpito la tinta migliore per le sue piume. E a presidio di quel masso ci può stare solo un “inflessibile procuratore”, il rocciatore Di Pietro per esempio, facilmente e pannellianamente spedibile all’ammasso. Anche in questo caso è inutile sperarVi: sarebbe considerato sempre troppo rozzo attenderVi.
Dalla Giustizia come pertugio della politichetta, invece sarebbe opprtuno guardarsi, va da sé. Sarebbe un concetto sbandierato solo in un senso puramente dialettico e propagandistico, fintamente altro e ‘alto’ quando nella sostanza è lo stesso sportello intercambiabile della politica: “In realtà la giustizia (barra la politica) opera per lo più dietro le quinte, ma anche dietro le quinte le competenze stabilite all’esterno con tanta apparente chiarezza si cancellano, i ruoli si scambano e si distribuiscono in modo diverso, si svolgono colloqui tra persone che in pubblico si comportano come nemici inconciliabili, soprattutto c’è un tono diverso. Non tutto viene registrato e messo agli atti. Le informazioni si trasmettono oppure si sopprimono.”
A dura prova, in definitiva, e in perenne scommessa con se stessa è sempre la nostra capacità di discernimento, sempre impegolata nello ‘gnommero da sdipanare, dentro il quale si dibatte con l’unica arma possibile: l’atto nichilista del pensare che “mette in dubbio i valori”.
Che nervi però: qua si fanno tortuosi safari tra libri e pensieri di autori per arrivare alla stssa conclusione di un vincitore di Sanremo-giovani: “Pensa! Prima di parlare, pensa, etc., etc….”
Le inquietanti domande finali, «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?», mi hanno fatto sobbalzare per la loro natura ‘pinteriana’. A quelle domande, a mio parere, si associano repentinamente una tra le più imponenti delle non-immagini del teatro pinteriano: la Minaccia. La quale, da essere dietro le quinte dei personaggi, finisce per essere fuori dal teatro, all’esterno, in un altrove che non riusciamo a cogliere ma nondimeno presente, insidia sempiterna, pronta a dispiegare furia e violenza.
L’associazione ha un impatto sconcertante per la diversità che corre tra Durrenmatt e Pinter: “cesellatore di quadri dalla meccanica precisione” il primo, creatore di reticenze al limite della comunicabilità il secondo. Eppure ce li si ritrova quanto mai vicini non solo nel disvelamento di una “irredenta umanità” ma anche sul terreno della scrittura civile.
La letteratura, ancora una volta. Quel <>. Così Sciascia in Nero su Nero. Ed eccoli, due oggetti eterni: Durrenmatt e Pinter. Tanto diversi, eppure somiglianti. E ci mostrano il loro “specchio portato lungo la strada”, per dirla con Stendhal.
Quel sistema di “oggetti eterni” […] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare