La materializzazione di quell’essere umano in fila allo sportello della stazione mi stava strappando sciami d’odio. L’avevo visto il giorno prima, per un istante ma tanto è bastato perché quegli occhi, quel capello, quel giaccone di renna si piantassero in croce nella testa. Legno marcio e scheggiato con un giaccone di renna appeso ad esso per i peduncoli cerebrali. Mi sentivo stampelle di legno nella testa. Una corrente densa e oleosa convogliata interamente dentro all’immagine di quell’uomo: un odio che se ne andava da me e che in me tornava accresciuto del valore aggiunto di quel volto sereno. E se scartavo caramelle il crepitare dell’involucro cartaceo tra le dita mi procurava una fitta dal dolore insostenibile. Poi passava ma mi restava il sistema nervoso crocefisso.

Fiona.

Eh?

Dio sa che stai soffrendo.

Piero quella mattina mandava strilli lancinanti a frantumarsi contro i muri maestri della sua oscurità. Era un buio portante, monumentale. Possente buio del pianto che i medici ancora non si spiegavano. Piangeva fino ad asfissiarsi.

Piero.

‘nghu!

Dio sa che stai soffrendo.

Non sapevo cosa fare. O forse non avevo voglia di fare. M diressi verso il bagno. Ma con lentezza. Poi feci calare la mano brutalmente sulla maniglia e aprii la porta del bagno scaraventando il battente contro la parete laterale. Ci fu in rinculo e sempre fracassando, con una nuova manata, rifissai la porta alla parete. Mi guardava sconcertato, seduto sulla tazza, col Focus tra le mani e i tappi nelle orecchie.

Giovanni.

Sì.

Dio sa che stai soffrendo.

Sì.