A prendere vita in queste pagine di Fattacci (di Vicenzo Cerami) sono i lugubri conducenti di una vettura vocata allo schianto. Ex pugili, canari, nani, plebei, marchesi e bon vivants che covano “una sperimentata vocazione al disfacimento”. Entrare per caso nel loro raggio d’azione è una sciagura terribile, significa varcare i cancelli di una depravazione che, consumate tutte le sue estreme esperienze, non ha niente altro da offrire, al finale, se non tragedia. Vite intrecciate da legami tanto fragili quanto totalizzanti per la loro natura morbosa quando non sadomasochistica. I soggetti terzi che intervengono a rompere questi delicati equilibri, questi ordini ipocriti e degeneri, altro non fanno che imboccare, senza saperlo, una via buia alla fine della quale vi è invariabilmente morte.

Scandagliando epoche in cui la società muta profondamente è possibile osservare come sia proprio in quel clima di disperato inseguimento ai miti più disgraziati (ne abbiam parlato in Violence) che è possibile osservare all’opera una folla che si dibatte tra due sole possibilità: mirare a un “benessere brutale” oppure sgomitare nel si salvi chi può. È in questa limacciosa zona dell’esistenza che fioriscono i rapporti tra vittime e carnefici, crescono, s’ingrossano, cuori di tenebra che varcano tutte le linee d’ombra, fino a immaginare la morte non più così spaventosa come si è sempre creduto, fino ad arrivare all’assurdo apparente della “vittima che convoca il carnefice”, fino all’esplosione.