la questione delle brioscine
Il percorso è quello coperto normalmente dalle calabrolucane. Si sfreccia lungo uno stradone che sprigiona svincoli per la circonvallazione. Le tangenziali la menano schizoidi e le puoi vedere tra riflessi di arancio stinto avviticchiarsi sopra e sotto la nostra carreggiata. A viaggiare su degli spasmi. Scivolare tra gorghi. Oddio, la nostra pista è abbastanza regolare ma le strade slinguano sudicie torno a torno, sorvegliate da interminabili serie dinoccolate di fari dalla luce sbiadita, la nostra invece è buia perché dopo un po’ si tuffa nella campagna.
Evitiamo accuratamente di segnarci allorché appare per qualche attimo il santuario della madonna dei cunicoli per essere pronti a reggere lo stomaco quando il tracciato si produrrà in una brusca depressione. L’auto è ad alta velocità. Andare così non si può, per esempio sul tratto autostradale tra Candela e Venosa, dove sempre fracassa la furia degli elementi. Nessuno mi chiede di rallentare e io d’altronde in questo punto non l’ho mai fatto. Dovrei però, così magari la millefoglie di peperoni se ne resta al proprio posto: a ranghi compatti con i beveraggi alcolici, e che l’apparato digerente li voglia benedire. Poi comincia l’ascesa che si lascia alle spalle questa specie di sottovia e pian piano si scopre quel monumentale latrinone issatosi nel bel mezzo della campagna a vigne, uliveti e mandorleti a perdita d’occhio. È lo stadio sannicola, che si ingigantisce a poco a poco sul parabrezza e scopre il suo culo polveroso come un puttanone astronautico. Sesquipedale, la battona laterizia. Enorme. Nella sua panza può contenere sessantamila teste. È il catino che ammattona i nostri vent’anni e gli altri venti di chi rincoglionisce con i caratteri runici dello stampo italiano da spalto. Io, come sempre e per pigrizia (per non dover raggiungere una rotatoria e starvi a girare intorno) opero in quel punto una manovra decisamente pericolosa: a destra c’è l’ingresso numero nove della curva nord, a sinistra il senso contrario di marcia; ebbene, superato il dosso che conclude la rampa e comprime la tua duodenale angoscia nelle tube incaricate del lavoro sporco, guardo nel retrovisore per accertarmi che nessuno sopraggiunga e mi impadronisco della corsia di sorpasso. Rallento… inchiodo quasi, lascio che la mia tipo millessei sbatta bene le terga e completo un’inversione di marcia degna del peggio avanzo di galera.
16 Feb 2010 Nicola