Se l’era andata a cercare lo stronzone.

Ninì e l’autobus definivano insieme un grumo di dolore a quattro ruote che viaggiava su e giù, avanti e indietro, per strade provinciali.

Voleva solo parlare a qualcuno di suo fratello.

Quella volta una signora ben permanentata e vestita di cotone leggero era salita sul pullman, s’era seduta subito dietro di lui, il conducente, ed era bastata qualche sua parola di cortesia, un buongiorno detto cristianamente e, più tardi, un complimento per la guida così pacata e ferma, e ancora: “vuole due tarallini?”, per risvegliare in Ninì quella dolorosa paura della vita che, come un cane stuzzicato mentre dorme, si metteva a tumultuare nella cassa toracica e lo rendeva impossibilmente avido di un sorriso. Di un abbraccio magari.

Quella donna esibiva una tale espressione di benignità che, fatta la sua conoscenza, Ninì non poteva non ritenere giunta la volta buona per parlare finalmente del suo Beppe.

La donna, vedi il caso, s’era sempre gloriata d’essere una specie di missionaria e per questo se ne andava in giro per la città a fare del bene (o credendo di farlo!) facendosi ostinatamente carico dei problemi altrui. Detto più chiaramente: non sapeva farsi i cazzi suoi.

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Lei si accorse che l’autista, tra una sterzata e l’altra, si girava spesso a guardarla. Voleva chiaramente dirle qualcosa ma da quella boccastrozza non gli usciva nulla. E quando finalmente l’autista mosse le labbra, ancora non ne uscirono che sbuffi bavosi.

“Ma che cosa c’è?” chiese pietosa Gerardina.

Ninì storse la bocca in un sorriso impacciato e tese la trachea.

“C’è che mi è morto mio fratello proprio la settimana scorsa.”

“Naaah, madonna sande! Sia fatta la volontà del Signore” rispose la passeggera con la prontezza di una prefica bitontina. Dopodiché riprese a masticare rumorosamente i suoi tarallini.

Ninì, impegnato a guardare la strada, non potette cogliere la sua espressione che cumulava mistica passione e cupo fondamentalismo, tessuti in una sublime indifferenza, il che avrebbe già dovuto metterlo in allarme, mentre briciole belluine si sparpagliavano incontrollabili sul suo vestito di cotone leggero stampato a motivi floreali di polloni eretti, duri e turgidi, decorati con bacche purpuree; coccardine di farina di biscotto continuavano a rotolarvi sopra e sul sedile vuoto a fianco. Perciò, finito il tratto di raccordo anulare aveva già sbobinato tutto, convinto che quella dietro lo stesse ascoltando con partecipazione.

Solo più tardi, quando era ormai impegolato fino ai passatelli della sua capigliatura, dovette rendersi conto che questa donna sacramentava con piglio anche troppo professionale; da scafata bracciante della luce perpetua continuava a dire: “Tutti moriremo. Ringraziamo e lodiamo l’onnipotente che ci ha regalato la vita e accontentiamoci d’aver vissuto piuttosto che di non esser mai nati”.

Il frasario era ormai favellato come fosse masticatissimo, come una poltiglia arcaica di taralli che sempre sboccava e chiedeva di essere ruminata in quel rostro belante preghiere, per cui, a lungo andare, appariva chiaro che vi facesse ricorso più che altro per liquidare in due parole l’argomento che Ninì avrebbe voluto, con chiunque, in qualunque situazione, portare per le lunghe: Beppe Beppe e Beppe.

Dal primo incontro che avevano avuto era passato del tempo, e questa signora aveva saputo esercitare una certa attrazione su Ninì, lo aveva invitato a prendere il tè una volta, i biscottini un’altra, centellinando le sue offerte ma come tenendolo avvinto in un incantesimo. E aveva finito col rimpinzarlo come avrebbe fatto una qualunque strega ultracentenaria con la creatura da frollare e poi bollire e poi ingollarsi avidamente. Sughetti e intingoli e focacce materane vieppiù imponenti, densi stufati di cicorielle, formaggini podolici e bisteccazze belle tumide e vinaegrette. Poi all’improvviso la strega dava un assaggio di come sapesse frenare il proprio empito nutritivo, lo teneva a distanza, si mostrava distaccata. Dopo un po’ che lo affamava, perché Ninì mangiava bene e sano solo da lei, riprendeva piano piano a strafocarlo con la mite e tenace pazienza della brava allevatrice. Ninì si ritrovava spesso a riflettere su questa sua sapienza, questa sua arte fattucchiera. Questa abilità di darsi piaceri dai tempi lunghi, questa capacità di differirlo, accrescendolo, questo suo piacere, controllando quell’istinto che altrimenti ti avrebbe spinto ad avventarti con tutte le sue sgrinfie sulla preda da divorare.

Un’altra volta che Gerardina invece sul pullman non c’è, succede che il torpedone di Ninì, subito dopo aver superato quel cimitero strabocchevole di loculi che tutti sanno, dove dai rami dei cipressi cadono le zoccole sui cappellini e sugli scialli e sulle tinture delle vedove e delle orfane e delle donne che hanno perso i fratelli, dove tra l’altro ci sta Pierino, becchino del camposanto che ci ha un loculo tutto suo dove ci tiene le birre e i nocini, nonché un mazzo di carte napoletane e se gli chiedi più accuratezza nel lavoro e di non lasciare troppe crepe nella tumulazione o sgraffiature sulla lapide, quello ti risponde: “Nooo, signò, la tumbazione è lavore dei frabicatori, non le tengo fatte io le tumbazioni”… ebbene, succede che il pullman, subito dopo la cittadella della morte, occhieggiato un tracciato più consono nella periferia barese, si lancia come un missile slam, di quelli che una volta partiti sanno da soli dove andare. I tabelloni con datario luminescente e moniti vari, posti sulla novantaseiesima fenditura statale, sembrano impazziti e comunicano: FAVORITE UN WARM-UP.

Una voce urla a tutta manetta GO-GO-GO!!! Dei GO iperstriduli… l’impressione è che la voce provenga da un auricolare: dalla regia. O da cuffie sistemate sulle orecchie, emittenti una musica fatta tutta di scariche di basso elettrico e note siderali.

Il positional 3-D ti avvolge acusticamente. In effetti, Ninì, non hai cuffie e non puoi distinguere la sorgente e la direzione dei suoni.

Dall’interno percepisci distintamente pure il rombo del mezzo che stai sorpassando – l’hai sentito prima davanti a te – spazio - metti dei metri tra te e lui: GO-GO-GO!!! Questa zoccola d’una colonna sonora sembra eccitarti a pestare a tavoletta l’acceleratore del dual-shock. Stai surfando di morte! Un giorno da trimoni.

Il pullman fila che è una bellezza divorandosi il più veloce che può tutto il dolore che si stende sul manto stradale.

Una clacsonata. Al sentirla la diresti carica di disperazione. Un urlo che squarcia l’atmosfera rovente. È l’automobilista che già si vede precipitare giù per la scarpata. Solo adesso Ninì si scuote, si riprende: effettua uno strappo sui pneumatici; corregge la traiettoria verso sinistra così da lasciare lo spazio sufficiente al rientro in carreggiata dell’auto costretta sull’esterno della curva.

Quello là dentro – Ninì lo vede nei retrovisori – ha avuto una stragoccia, gesticola con violenza alzando ditomedio e stritolando a ripetizione dei vaffanculo e strarivaffanculo!!!

“Iiiiiiiiiihauuuu!!!” esulta un giovane che, alzatosi dal proprio sedile e artigliato il corrimano, si sta avvicinando all’autista. “E chi sei, Jarno Trulli?”

Ninì gli gira sopra lo sguardo per un attimo. Quanto basta per registrare: il ragazzo si muove come una marionetta, come se ci avesse dei fili fissati sotto la nuca e appuntati sugli arti. Quindi, mentre si predispone a una guida più normale e consona, suggerisce a quello che gli sembra un disadattato di non mettersi in priscio perché non accadrà più, lui è un conducente serio e ora, prego, non disturbarlo.

I passeggeri sono ammutoliti, sconcertati dalla manovra sconsiderata del loro autista, perciò sarebbe meglio tranquillizzarli, non certo assecondare le scalmane del ragazzo. Il quale, tornando a sedersi, borbotta qualche madonna e si mette buono, infine…

Entrati in Marcianelle, le solite fermate.

Dal centro monotono agli spiacevoli sobborghi, scampanellanti pendolari vengono rovesciati fuori, tutti. Oggi non si continua per Bitetto e oltre. Buongiornobuongiorno, fanno tutti scendendo.

“Salute!” Ha fatto il marionetta scoprendo un sorriso da bestiola gagliarda e scomparendo, alla penultima fermata, oltre i portelloni che si andavano richiudendo.

Il capolinea è in un’area di sosta, assegnata alla linea delle Ferrovie Appulo Lucane, delimitata da un trilatero sconnesso di palazzine Legge 167. Il paese di Marcianelle finisce qui. Oltre le case popolari, oltre il punto in cui hanno installato i moderni abbeveratoi, c’è solo radura incolta, rottami di ferro… È terra bruciata. Uno lo sa.

Trascorso qualche minuto, nello spiazzo del capolinea il carrettone di Ninì resta il solo a ristorarsi le membra. L’uomo ha davanti a sé una pausa pranzo di tre quarti d’ora almeno. Centopercento di umidità, il che vuol dire accusare addosso almeno una quarantina di gradi, alle dodici e quaranticinque di questa giornata infama. L’autista se ne sta poltronato alla meglio sull’appiccicoso posto guida, ingozzato d’angoscia. Il bestione in sosta. Il braccio pendulo dal finestrino sembra aver subito enorme spossatezza per il solo fatto d’aver acceso una sigaretta. Il cranio adagiato sul poggiatesta versa uno sguardo molto preso male contro i cristiani che si spostano sui marciapiedi, veloci di chissà quale fretta. Manda il fumo contro il parabrezza ma l’aria ferma non riesce a dissolverlo e in un attimo si ritrova con un fastidioso bruciore dentro agli occhi. La radio scodella un notiziario, il bollettino di un traffico che non interessa, previsioni meteo apocalittiche di sole che sgretolerà i chianconi, spot di tarananannà tarananannà fu fu!!!

Alcuni bambini giocano a nascondino, nella radio e fra aiuole spelacchiate. La verità: non giocano a nascondino ma ad una sua variante nella quale, invece della gara tra il cacciatore e il nascosto smascherato che si sfidano in velocità per “andare a fare campo” nel punto in cui si è coppato fino a cinquanta, sessanta, sessantuno, sessandadù, sessandatré, sessndaquàt, sssandacì, sssanndas sssndstssssdotssssdo… SETTANTA!!! CHI VEDO VEDO CHI TROVO TROVO CE AVVUANDE E AVVUANDE!… invece di tutto questo protocollo, in questa variante del nascondino, è previsto che chi sia stato smascherato possa cominciare a correre liberamente per non farsi acchiappare mentre l’obiettivo del cacciatore è quello di inseguire il fuggiasco per potergli sbattere con violenza una mano sulla schiena gridando STRIFONE! Solo così chi ha coppato può eliminare chi aveva diritto di nascondersi, guadagnandosi a sua volta il diritto di non coppare più e di potersi nascondere nella mano successiva. Questo gioco si chiama strifone.

Il carrozzone paleotramviario col quale Ninì lavora ha un carico massimo di sessantacinque posti e comunque per lui rappresenta un gioiellino. Se lo cura per benino, maniacalmente attento alla manutenzione, se lo slavandina tantissimo, pressoché da farci male. Di più non si può, anzi, se insiste, quello, il pullman, se ne scappa per la paura di rimanerci pregno.

Comunque la carrozzeria deve stare sempre lucida. Ninì, certosino, ci lustra pure i graffiti di cui l’esterno va via via riempiendosi. In tal senso, il sole che sempiterno spiomba sulla sagoma blu dall’anima (della) motrice (sua), deve metallizzare di lame e riflessi la zona circostante nel raggio di unchilometrouno per lo meno, se no lui non sta contento. I vetri vengono lavati ogni tre giorni, l’interno viene passato con l’aspirapolvere ogni sera nell’autorimessa, il posto guida pulito parimenti ogni sera, la disinfestazione ogni settimana.

Scende dal suo autobus. Si è ricordato che stanno per finirgli le sigarette, raggiunge la vicina tabaccheria a passo svogliato, mentre un bimbino bruno dall’aria simpatcissima gli sfreccia accanto e, rotolando curiosamente, va a nascondersi sotto una panchina sfondata. Un altro, un bamboccione, un ex bambino, con occhiali scuri a specchio da pappone, è riuscito a cacciarsi dentro un cinquecento parcheggiato a spina di pesce tra le altre automobili sull’altro lato della strada.

Nella tabaccheria il condizionatore soffia un uragano di aria fredda. Mica come l’impianto di condizionamento del suo autobus, sempre guasto. Il bancone è stracarico d’ogni sorta di dolciumi confezionati, dai baci perugina alle scatolette di liquirizia alle gomme da masticare, pacchi di patatine classiche, grigliate e al formaggio su un lato, accendini bic nel banco sotto il piano di vetro, pacchi di sale grosso, petardi raudi minerve fontanelle stelle filanti, penne pennarelli e matite dentro barattoli. Colorati festoni filamentosi di gratta e vinci spiovono sull’altro lato. Al di là di tutto questo miscuglio di merci, un televisore acceso sospeso a due metri di altezza, sistemato su un piatto di alluminio fissato al muro con un braccio uguale di alluminio, trasmette immagini del disastro provocato da una frana, un servizio giornalistico che va sciorinando morti, feriti e superstiti gusto fango.

Il cranio calvo del tabaccaio spunta di profilo e di pochi centimetri al di sopra del suo banchetto intasato. Sta guardando il tg seduto su uno sgabello.

“Una stecca di merit.”

Il tabaccaio si alza, voltandogli le spalle, scorre la sua tozza mano lungo gli scaffali di dietro e ne estrae la confezione richiesta. Distratto dal notiziario, lascia cadere con un gesto di stupida noncuranza, quasi un lancio, la stecca sul banco. Continua a guardare e dice: “ma che cazzo è la natura”.

“Già. La natura…” dice Ninì e allunga la banconota.

Il tabaccaio, con un gesto molto simile al precedente, lancia le monete di resto. “Nah, la resta.”

Le monete rotolerebbero giù dal banco se Ninì non le fermasse con una pronta manata sul piano.

“Guarda qua, guarda…” fa quello tutto preso dalle immagini.

“Guarda qua…” fa Ninì risistemandosi il portafogli nella tasca interna della giacca ma guardando di traverso il tabaccaio. Si prende la stecca e gira sui tacchi senza salutare.

Le sigarette, la verità, non glimancano. L’acquisto è stato fatto più che altro per mantenere alto lo stock in casa. Casupola in lamiera maledettamente vicina al passaggio a livello con le sbarre perennemente chiuse, peggio di una monaca, che quando finalmente le apre, lo puoi vedere invaginato da qualche coglionazzoalvolante che proprio non ci pensa di moderare la velocità e allora, questi giratori a vuoto, si devono incassare un bel montante, un cazzo di colposotto sferrato dai binari della cunetta a sfasciare assi semiassi marmitte marroni mammelle e e tutto il resto che può solo ciondolare, ormai, da scassatissime macchine usate, logore, rubate, trovate quattro, eccetera.

Squillano le voci dei bambini che dopo aver concluso una mano del loro gioco ricominciano e si vanno contando. Stanno menando al tocco. Sommano: quattro e una cinque e due sette e una otto e quattro dodici. Adesso contano: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, o…. ooooh, oooooh, oooooooooohhh!!!

Il cinquecento sta sferragliando in retromarcia e punta proprio contro il crocicchio dei bambini. Due di loro ne vengono colpiti e schizzano letteralmente per aria. Il cinquecento intanto finisce la sua corsa in un’ aiuola bruciacchiata con il culo di lamiera che è montato sopra una panchina.

Si levano strilli e pianti di disperazione.

Due bambini per terra: un maschio e una femmina. E altri intorno che si sbracciano, si agitano, piangono e non sanno bene cosa fare. Da più di una finestra alcune donne dense di capelli gonfi, ricci e grassi, nerissimi, come passati col lucidascarpe, gridano forsennate e si sbattono con violenza le mani sulla faccia. Tutte eseguono praticamente lo stesso spartito. Ninì si è fiondato sul posto, il primo istinto è quello di andare a prendere quello stronzo che sta dentro al cinquecento. Invece si china sulla bambina stesa sull’asfalto. Ha gli occhi chiusi ma ecco che li riapre. Li sbarra, si spaventa e si mette a urlare. È viva, per fortuna.

Sono arrivati gli uomini, chiamano il centodiciotto.

“Chiamo io il centotredici” dice Ninì.

Gli uomini però, per fare prima gli dànno un altro numero. I carabinieri a Marcianelle vanno chiamati su una comune utenza di telefonia fissa. Prima che arrivi l’ambulanza i genitori si caricano i bambini nelle golf, nelle mercedes classe a e partono, sgommando e bestemmiando, per l’ospedale lontano ben dieci chilometri.

Sono giunti sul posto i carabinieri, con la loro brava flemmatica, arrivano e immediatamente uno di loro si mette a prendere a schiaffi il ragazzo che era alla guida del cinquecento. Più tardi un altro carabiniere si mette a parlare col ragazzo. Lui voleva solo dimostrare ai pivellini di essere capace di guidare la macchina. C’era già la retromarcia ingranata, dice, e non appena ha acceso… Come hai fatto ad accenderla?, gli chiedono, e lui mostra una chiavetta. Che chiave è? È la chiave della cinquecento di mia madre? E tua madre dov’è? Non lo so.

Il ragazzo si chiama Dàniel. Il cognome? Non lo sa. Giù ancora uno schiaffone.

Sempre i carabinieri, i quali si tengono in contatto costantemente con non si sa chi, dicono che comunque i bambini colpiti non sembra debbano sopportare gravi conseguenze.

Mentre i carabinieri procedono con i rilevamenti e le domande al ragazzo, Ninì si allontana. Non gli interessa la storia di Dàniel. Non esiste una storia di Dàniel. Non Dàniel. Ninì deve tornare al suo lavoro.

Quaranta metri quadri, tettoia e pergolato. Ninì vive praticamente a cielo aperto, arredo scarso: una sdraio di là, sul lato scoperto, dove dormirci come un bradipo su un ramo di cecropia. La strada di edifici fatiscenti e lerci è soffocata dagli odori del carburante del caldo umido giugno delle scarcioffecoibisi della terra non scrollata dai vestiti dei senegalesi, e dai consueti gorgoglii della vita rionale.

Quando è finalmente rincasato è notte fonda, va nel frigo, ne tira via una tazza. Nelle peperonata gelida ci sbriciola sei puramente sette pastiglie di zoloft. Nel foglietto illustrativo alla voce interazioni nulla è detto a proposito del mischio tra setralina e ortofrutta, per cui via col pane intinto in questa zuppetta paranoica. La mano agguanta il vicino telecomando tutto incerottato, il pollice apre sul tre. Enrico Ghezzi sta presentando il prossimo film e nel farlo parla della violenza. Della violenza. Della fine. Della storia. Questa è la sua cadenza per parlare della violenza della fine della storia. Ninì pensa che la violenza della fine della storia è il capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è quella terra bruciata che incuba mine, subito alle spalle del capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è la mano di un bambino che colpisce duramente il corpo di un altro che tenta di scappargli via. È strifone.

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