La pagnotta
Come nelle strutture a catena anche nella successione che qui presento ogni elemento è strettamente legato al precedente, ogni punto è all’origine del successivo. Vi chiedo di smentirmi i nessi:
A) Alfabetizzazione di massa
B) Industrializzazione della cultura
C) Serializzazione della produzione narrativa
D) Letteratura incolore e insapore formattata per le televisioni
E) Crollo della visibilità delle specializzazioni
F) Opinionismo di massa e massificazione dei concetti
G) Brutalizzazione dei codici linguistici
H) Intellettualità ripiegata in un cassetto e nuovo impoverimento intellettuale delle moltitudini
I) Indebolimento della capacità di comprendere i fenomeni complessi e le strutture profonde
L) Fuorigioco della vita
M) Impoverimento materiale
N) L’espressione di governo “la cultura non si mangia” è puro e semplice inganno
O) anzi frode
P) anzi ladrocinio sconfinato
Q) dissanguamento di (imposto dallo) stato
R) carneficina come poche
S) colpo di stato permanente
T) autodistruzione
U) inversione a
V) previsioni del tempo
Z) il gran paciugo del mondo è stanco e deve fare un pò di nanna.
07 Nov 2010 Nicola
Non so se riesco a sbrogliare la catena da te generosamente offerta ai lettori e a svelare i nessi nascosti tra le maglie, ma ci provo.
A-B) L’alfabetizzazione di massa (che necessariamente prevedeva l’accantonamento delle culture locali) è stata, nonostante i presumibili buoni intenti, un’operazione di omologazione culturale e quindi sociale. L’omologazione passa per l’industrializzazione. Si potrebbe pensare che l’alfabetizzazione sia nata per favorire un’industria della cultura.
B-C) L’industrializzazione mira a far accrescere i propri introiti, quale maniera migliore se non quella di tenere in attesa i lettori fino alla “prossima puntata”? (assecondando e/o aumentando una curiosità pettegola tipicamente italiana). Ed ecco la serialità, operazione che invoglia il lettore a comprare sempre il numero successivo “per vedere come va a finire”.
C-D) Perché il lettore sia tenuto in quello stato di cattività emotiva per cui si senta spinto a comprare il numero successivo (e più numeri escono e più si guadagna), conviene allungare il brodo, perdersi in particolari morbosi, raccapriccianti, inevitabilmente futili, uno stagnamento della fabula che porta alla cancrena del senso. Formula, questa, ideale per la tv: il sistema delle puntate gioca sul livello di affezione maturato dal pubblico nei confronti di una trama, anzi, come più spesso accade, di una storiellina d’amore tra due giovani, pseudo trasgressivi dai nomi ridicolmente esotici.
Se certa letteratura dev’essere pronta per la trasmissione televisiva non può che essere insapore e incolore. La gente non vuole sapore, non vuole conoscere; questo rifiuto è intrinseco alla parola sapore (dal latino sapio = gustare, sentire il sapore ma anche conoscere, sapere, capire), nessuno è interessato a conoscere alcunché sia distante dalla superficie. Il colore poi è senza dubbio da evitare, sarebbero contenti quelli a cui piace il blu, ma quelli a cui piace il giallo cambierebbero canale. Tutto dev’essere ugualmente privo di senso, privo di colore, un unico colore, risultante da un impasto di colori posti insieme a caso, perché son di “moda” (perché soddisfino questo o quel padrone), senza importarsi che siano cromaticamente incompatibili, l’importante è che ci sia un impasto pronto da imboccare.
D-E) Questo nesso forse l’ho già esplicitato nel punto precedente. Se non lo fatto significa che non conosco la risposta.
E-F) Anche questo punto forse l’ho chiarito in C-D. Se tutto viene abbassato ad un senso solo superficiale, la superficie è autorizzata ad esprimersi. Il pubblico, la gente comune, avendo sotto gl’occhi una materia che non richiede competenza (la specializzazione del punto D-E) si esprime incompetentemente, esattamente nella misura in cui è chiamata a farlo. Ovvero, i concetti essendo stati portati al livello della massa, autorizzano la stessa ad esser prodiga di opinioni: opinionismo di massa (tutti si sentono autorizzati a parlar di tutto, nessuno sente l’esigenza della competenza). Il messaggio dell’inutilità della competenza non invoglia gl’incompetenti ad acquisirla (i soggeti non hanno un motivo evidente per cui imparare qualcosa) e svilisce i competenti isolandoli, incatenandoli ad un immagine vuota del loro ruolo. Ovviamente è utile ai vertici che la massa rimanga massa (omologati, psicologicamente, sono tutti più gestibili) e che i competenti siano disincentivati a continuare la loro funzione.
F-G) Quando il prodotto dev’essere di massa, per attirare l’attenzione di questa, occorre che la faccia rispecchiare nel prodotto e che quindi il prodotto sia comprensibile per lei. L’unione, l’immedesimazione (illusione che si possa essere portati dall’altra parte del monitor) avviene con la condivisione dei codici, concetto base della comunicazione. Perché prodotto e pubblico possano fluttuare nella stessa dimensione bisogna che condividano uno stesso codice, oltre che etico, linguistico. Dunque, date le circostanze e quanto ho spiegato all’inizio non può che scendere sul palco la brutalizzazione dei codici linguistici (se il prodotto usa un linguaggio difficile il pubblico non lo comprende, si sente distante dall’ambiente rappresentato e cambia canale).
G-H) Non riesco a trovare altra risposta se non in quello che ho già detto.
H-I) “Indebolimento della capacità di comprendere i fenomeni complessi e le strutture profonde” è l’Eden dello Stato. E’ il momento in cui questo raccoglie i frutti che mediaticamente ha seminato. Con i processi sopra segnalati, la classe dirigente, dopo aver narcotizzato il pubblico, educandolo al disinteresse per ogni forma di conoscenza, ha formato ad hoc una classe popolare incapace di senso critico, inabile nel comprendere cosa davvero accada intorno al sé a livello privato e di Stato (ed ora tale verme si fa strada in maniera sempre più devastante nelle interiorità della gente, lì dove non le ha già annientate, anche grazie alla tossicomania di Stato – ma qui si apre un altro discorso economico).
Riesco a intuire i punti L ed M, ma non riesco a darmi delle spiegazioni puntuali.
N) “La cultura non si mangia”. A prescindere dal fatto che di questo passo non si mangerà più nulla, il fatto che un governo si adoperi per non nutrire il proprio popolo con la cultura, è emblematico dell’imbarbarimento democratico in cui uno stato versa. La classe governativa, che da tempo ha in ogni modo tolto i mezzi alla cultura, con un progetto funesto volto ad abbruttire culturalmente la massa perché potesse avere una stuoia di obbedienti su cui distendersi e celebrare tribali bunga bunga, è peggio dei sistemi di regime stalinisti. Dare al popolo il messaggio che niente che non sia commestibile debba essere coltivato è cosa indegna del paragone con una qualsiasi forma di stato tribale mai esistita (spesso più avanzata dei nostri Stati! - vd. gli aborigeni). Non posso aggiungere nessun’altra riflessione a questo proposito senza evitare che mi vengano delle convulsioni. Lascio a te eventuali aggiunte concettuali.
I punti dalla O alla Z mi sono così tristemente chiari, sono così metabolizzati che trasportarli in parola mi risulta angoscioso.
Per questione di tempo ho dovuto essere più superficiale dal punto L in poi. Ma su tutti i punti sono dubbiosa. Era a questi nessi che pensavi? Se no, illuminami.
Ti lascio con questo pezzo profetico che probabilmente conosci:
“Volevano che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarlo dovevano realizzare un altro modello umano.Il regime, è un regime democratico, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, il potere della società di consumi è riuscito a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari.E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. È stata una specie di incubo in cui abbiam visto l’italia intorno a noi distruggersi, sparire e adesso risvegliandoci forse da quest’incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.” - Pier Paolo Pasolini.
Scusami, per la fretta e le condizioni chiassose e continuamente distraenti in cui ho dovuto scrivere ci sono degli indecenti errori:
al punto D-E “lo fatto” è ovviamente “l’ho fatto”;
al punto F-G “la faccia” è “la si faccia”;
al punto H-I “al sé” è “a sé”
Pur avendo intento polemico - chiedevo piuttosto che qualcuno negasse i legami tra un punto e l’altro - ti ringrazio, Rita, non solo per la generosità di commento ma anche per la chiarificazione di cui sei stata capace, per l’esplicitazione illuminante delle dinamiche che soggiacciono ai fenomeni che ho voluto indagare con questo post. Non faccio però il maestrino e quindi queste cose son scritte non come pagelle ma come apprezzamento per un’integrazione, la tua, che vale più del post stesso; mi sembra chiaro che questo apprezzamento venga anche da una pressoché totale condivisione di quanto hai detto. Immagino, da come ti sei profusa, che l’argomento affrontato d’altra parte deve aver intercettato un tuo bisogno già urgente di esprimerti sul punto.
Detto questo, mi piace sviscerare ulteriormente la questione.
L’industria culturale, sicuramente favorita dall’epoca della riproducibilità tecnica, epoca segnalata da Benjamin molti decenni fa e nella quale siamo tuttora immersi, piallando e arrotando, serializza il prodotto, non solo nel senso che ha reso sistematica la tecnica della sospensione del finale per tenere il consumatore (ex lettore ed ex spettatore) nello stato di cattività emotiva che hai felicemente descritto, ma anche e soprattutto perché non fa altro che replicare all’infinito la formula vincente, cioè quella che porta profitti. Dunque avremmo libri (se parliamo di libri) tutti uguali epperò travestiti da ‘diversi’ attraverso l’affinamento della tecnica del packaging (nomi diversi, esordienti strepitosi, sigle al posto di titoli, il ragionare con il cazzo e le paturnie della vagina sempre impresse in copertina). Con riferimento al finale, poi, è vero che sul piccolo schermo impera il mezzuccio dilatorio de ‘lo scoprirete alla prossima puntata’, tuttavia in narrativa e al cinema questo non funziona, anzi, il finale aperto di un’esperienza che si conclude con quel determinato libro o quel determinato film è quanto di più aborrito dal gusto di massa (fatte salve alcune eccezioni, cioè quella roba che si chiama ’saga’ in cui il rinvio della consumazione ad altro momento è elemento costitutivo del patto col fruitore). Dunque, quel che si riscontra è il piacere di essere ingannati: il consumatore preferisce ‘ingannarsi’ facendo finta di credere a un’esperienza conoscitiva, che conoscitiva non è, perché deve anche giustificare la manciata d’euro spesa per possedere un ‘oggetto’ nuovo nel fiocchetto ma sostanzialmente uguale a molti altri che hanno attraversato la sua vita. Insomma, qualunque follia pur di non conoscere.
Emarginati, in questo modo, quanti invece si sforzano di usare il mezzo artistico appunto come strumento conoscitivo, ecco viene a mancare lo spazio vitale per chi “votato al gustare al sapere e al capire” deve necessariamente passare attraverso la sperimentazione e la ricerca. Cosa che equivale a mortificare, sacrificare, sotterrare definitivamente sia la sperimentazione che la ricerca. Ovviamente tutto questo si riverbera nelle decisioni pubbliche.
dalla ricerca alla scuola, poi, il passo è breve: si tagliano fondi alla cultura perchè la cultura deve essere tagliata. Della trasmissione “Vieni via con me”, più di ogni altra cosa infatti m’è garbato un punto dell’elenco recitato da Abbado: “la cultura è fondamentale per poter giudicare chi ci governa”. Ed è praticamente esaurito il tema.
Pasolini. Sono impressionato da quante categorie pasoliniane usiamo ancora oggi nonostante proprio di recente sia stato detto che il suo pensiero era stato sì sorprendentemente attuale fino a qualche anno fa ma che oggi (finalmente?) risultava inservibile.
‘Scritti Corsari’, comunque l’ho riletto solo qualche mese fa.