Frate Ruffino fu apostrofato “cattivello” da santo Francesco.

Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, / e suon di man con elle / facevan un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira.

“Che c’è, Corrà?”
“Li hai sentiti anche tu quei rumori?”
“No.”
“Degli scoppi. Delle detonazioni. Delle urla. Come di qualcuno che combatte strenuamente col demonio.”
“Ma vattene a dormire, va’.”
“Ma come? E le voci? Neanche le voci hai sentito?”
“No. Che dicevano ’ste voci?”
“Ho sentito distintamente le grida. Si apostrofavano cosaccio e birbaccione!!!
“Ma vaffangule, Corrà!”

Ed ecco verso noi venir per nave / un vecchio bianco per antico pelo, / gridando: ” Guai a voi, anime prave! / non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo. / E tu che se’ costì, anima viva, partiti da cotesti che son morti”.

Il vecchio seduto sulla solita sdraio in cucina ripeteva che diluvia, che gli fanno male le mani, che un gelo mai sentito prima si è impadronito delle sue povere ossa. I geloni sono diventati piaghe che gli trapassano da parte a parte le mani. Che il demone con cui lotta è il principe delle tenebre, vero, ma nelle tenebre non ardono fornaci, non è vero che c’è un caldo insopportabile, anzi è vero il contrario: una gelatura insopportabile, questo è l’inferno, caro ragazzo. E il birbaccione con cui si scambia mazzate, a cui sferra cazzotti, da cui riceve calci in faccia e nel costato - vedere gli ematomi per credere – altri non è che il vessillifero delle armate di ghiaccio.