Massimina è il buco nella schiena di una statuina rubata, il tarlo di un sistema che doveva spiegare una volta per tutte, e scientificamente, genesi e palingenesi dell’esistenza; questa meravigliosa figura di donna rappresenta la falla che fa naufragare il sistema di regole che si pretende presiedano all’ordine e all’evoluzione dell’Umano. È Massimina l’inceppamento della/nella macchina. Sempre Massimina ad ingrippare l’ente motore.

Come dai congegni automatici “si ottiene un rendimento che oscilla tra un massimo ed un minimo” e “così anche in ogni concetto”, questo libro spinge avanti concetti che presentano l’oscillazione tra un massimo dell’affermazione dell’amore e dell’amicizia e un minimo della loro negazione. “Due estremi che compongono contemporaneamente il risultato e che rinviandoselo l’un l’altro lo mandano avanti”. Come dire che mandano avanti una storia e un romanzo.

L’ambiguità piena di Anteo Crocioni non consiglierebbe di tracciare ulteriori specificazioni alla materia romanzata. Nella vicenda dell’essere umano che ci racconta per dritto e per rovescio come non sappia egli stesso che cazzo ci fa sulla terra e ciò nonostante accanitamente si interessa della sorte dell’uomo, egli uomo ci smena da un lato la volontà ordinatrice che spieghi le regole dietro le quali corre l’evoluzione, dall’altro l’insensatezza/follia dilagante fuori e dentro di lui, suo malgrado. Ma oggi chi affronta queste poderose tematiche nel Romanzo?

Sarebbe fuorviante giudicare Anteo tutto positivo e magari anche martire. Volponi delinea un uomo, e un sistema con lui, fallace come gli altri, come tutta la “povera umanità incagliata”. La sua accademia per l’amicizia di qualificati popoli fa acqua in più di un punto e a maggior ragione quando sconfina nell’auspicabilità di una società comunista. È di non poco momento, infatti, il brano in cui, messo di fronte al giudice, Anteo (che fino a quel momento aveva risposto per le rime a tutti) incassa un colpo mica da ridere visto che Volponi, con astuzia di scrittore, non fornisce al suo personaggio le parole per una replica puntuale al “presidente del tribunale” che gli va rimproverando la rigidità della società comunista. Lì l’autore lascia a noi d’immaginare come Anteo in qualche misura barcolli. Quel che importa rilevare invece è che il giudice gli rimproveri proprio la società perfettamente comunista, non solo le degenerazioni partitiche impennacchiate di comunismo.

L’identificazione tra scienza e poesia propugnata da Crocioni sembra non poter funzionare perché pare sia la poesia dell’uomo a minacciare il progresso della scienza, esattamente come l’amore/ossessione per una donna-serva, al pari di tutti gli altri servi che Anteo ci indica, risulti contro natura rispetto alla stessa scienza che il Nostro va cogitando. Il poema di dolore che promana dall’uomo che si ostina nelle carceri tirate su con le sue stesse mani, questo poema precisamente e non altro, reca le stimmate della poesia. Quella poesia che fa inceppare la macchina. E alla fine piuttosto si vede l’antagonismo tra scienza (questa determinata scienza, si badi, ché fuori da questo libro la contaminazione dei linguaggi delle varie discipline è sempre desiderabile) e poesia. Di più: una guerra sanguinosa. La reazione chimica tra la vaga scienza di Anteo e la sua poesia (che c’è tutta) lascia molte vittime sul terreno.

La grandezza dello scrittore sta proprio nell’aver dato solidità e credibilità a un personaggio forse matto davvero (e qui si aprirebbe un capitolo sterminato) ma che matto non crede affatto di essere. Vale a dire che ci ha dato la figura di un uomo dalla struttura mentale composita, con intuizioni geniali e preziose: l’uomo chiamato a ripetere l’opera dei suoi progettisti con materiali e forme nuovi attraverso un lunghissimo tirocinio, pena la stasi ovvero la contemplazione di se stessi ovvero litania funebre, canzone di morte, sbaglio della/nella macchina; “il momento creativo concepito come attributo eterno dei contributi dell’origine della creazione congenita dell’universo” cioè come fondamento delle civiltà progressive; la differenza tra il vivere, al quale basta mangiare e riprodursi, e l’esistere, che, diversamente dal primo termine, necessita di ricostruirsi o reinventarsi ogni giorno. A queste detonazioni di nobile filosofia del vivere s’accompagnano però oscure attitudini (il furto, le percosse). Come non cogliere la contraddizione in cui incorre Anteo tra le botte prese da suo padre, in nome delle quali denuncia quella truce genitorialità che, volendo rompere una cosa (una macchina) non creata da lui ed esistente fuori di lui, “contravveniva alle forze della vita”, e l’assoluzione delle bastonate che invece lo stesso Anteo destina a sua moglie? Assoluzione costruita debolmente intorno a pretesti filosofico-scientifici. Allora Volponi è magistralmente malizioso nell’insinuare nel lettore il sospetto che Anteo Crocioni si riveli, in quei momenti, oggettivamente un pazzo scoppiato. Cosicché si compone sotto i nostri occhi una macchina, per dirla con lui, generatrice e contenitrice di tutte le possibili pulsioni dell’Umano, e in quanto tale non può ottenere la soluzione di alcun mistero, non può attendere allo scioglimento di alcun nodo, e non può soprattutto (perché nei fatti non vi riesce) veicolare alcun messaggio di salvezza. Può solo usare la poesia come segnalatrice dell’eterno, straziante, gioco dell’oca della vita.