1999 - Innocenza e beatitudine
Se ghignava di soddisfazione, per qualche istante non si sarebbe detto che sorrideva ma che piuttosto ninnasse un suo ronciglio nell’arcata dentaria superiore, e che da questo ferro, sempre in quel brevissimo fotogramma in cui accennava un timido sorriso, saettasse una magnifica lama di luce.
Ogni giorno Innocenza, munita di un mazzetto di semprevivi, riseppelliva suo marito. Nel cimitero, sostenendosi su anche pesanti, conosceva ogni giorno il rinnovamento dell’onta di avere suo marito sotto terra e non nell’agognato alloggiamento; sperimentava il quotidiano orrore del congiunto assegnato alla serie B dell’estrema dimora, intesa come zona di second’ordine, coriacea ricoveramorti, propaggine degradata del più vasto e legittimo camposanto.
Nel mese di Gennaio, quando i Balcani ancora e con insistenza, venivano chiamati in causa per chiarire a chi fosse da imputare quell’implacabile soffio di gelo che spazzava le plaghe del versante adriatico, Innocenza si doveva raccogliere in un cappottaccio spigato, senza certo aver rinunciato a indossare i suoi manicotti pelosi, ossia le sue tibie superiori, e sempre con le sue lenti larghe a goccia, fotocromatiche, si doveva raccogliere e lo doveva pregare e salutare, suo marito Ivano, spesso stando di fianco a una scavatrice pronta a smuovere la dura terra e far spazio ai nuovi morti. Una terra che con i defunti e con il marmo più s’induriva, richiudendosi e rapprendendosi intorno a cofani e poveri resti umani; che si marmorizzava in quelle torve erezioni di lapidi, sicché smarriva sempre più il senso di chiamarsi camposanto mentre quell’altra sezione il senso lo accresceva, securizzata nel proprio muro di cinta. E il muro di cinta, pur avendo una falla che metteva in comunicazione i due quartieri della cittadella, il popolare e l’esclusivo, come vasi e sottovasi comunicanti, morti e sottomorti dei due regni del sonno eterno; pur patendo la breccia, era sempre un muro, una barriera che segnava chiaramente il punto oltre il quale nessuna ‘a livella avrebbe potuto soccorrere a conforto.
Un contrito vittimismo allora si incavicchiava sulla tela del volto di tela di Innocenza, per abbandonarla solo dopo qualche giorno, quando c’era da fare largo a un petroso cinismo, sulla tela del volto di Innocenza. Raramente invece riusciva a scavarsi il proprio corso un sorriso aperto e franco sul paesaggio desolato del volto di Innocenza, quello che sfolgorava di una luce affilatissima: doveva essere l’agghiacciante pensiero ovvero la speranza di poter dare ai figli più degna sepoltura di quella toccata in sorte al suo povero marito. Ecco, questo era ciò che aveva il potere di snodare un sorriso tra le mutevoli dune del volto di Innocenza e allora il sollievo diventava un ruscellare prima sinuoso tra i muscoli facciali, e poi subito un gorgoglio di luce metallica: rostri, roncigli, uncini, arpioni, rampini, perni che sventagliavano lampi di tenebrosa, magnificente luce. Il volto cessava di essere tela per farsi spigoloso, puntuto, ferramentoso. A figura intera, vista a una certa distanza, pareva tutta una macchinosa mandibola, sinistramente somigliante alla più grande scavatrice che adesso lavorava ostinata a pochi metri da lei. Una mandibola in caccia del tegumento in cui scavare il proprio varco.
Diversamente dai suoi figli aveva però un giro di amicizie. C’era per esempio la sua vicina di casa, Beatrice, sua coetanea. Andavano insieme a messa la domenica pomeriggio, insieme ai funerali e insieme ai consòli, i banchetti che ai funerali facevano seguito come prosecuzione del lutto con altri mezzi. Soprattutto questi erano i momenti dove le due amiche si esaltavano nell’abnegazione, straordinariamente solerti nel tributo delle loro vivande, con un’inondazione di derrate alimentari, vere leccornie preparate nelle loro cucine, che se non fossero state prima consumate e sontuosamente digerite sarebbero state da monumentalizzare come capi d’opera della gastronomia di levante; specializzate nelle recchietiedde alla sangiuannine, con cime di rape e acciuga soffritta in un filofilo d’olio, superperite nel calzone di cipolla e nelle olive nere soffritte. Tutto questo anche quando non conoscevano poi così bene la persona scomparsa. Loro erano lì, negli interni costernati di tutto un paese. Esserci era la loro missione. Spizzicare le olive il loro piacere. Le stesse olive, in calce o in acqua, che loro avevano portato nelle case dei familiari affranti e di cui andavano talmente golose da tenerne sempre una scorta per sé, in un sacchetto di plastica trasparente che si portavano sempre dietro, nascosto e immanente nelle loro imponderabili sfoglie di vesti. Beatrice e Innocenza erano lì che surchiavano drupe, come a voler cavare qualcosa anche dal nuzzo, con sorprendente presenzialismo - sorprendente non per il loro protagonismo, ormai famigerato, ma per la resistenza alla fatica - fino all’ultimo momento utile, con uno sfruttamento intensivo del tempo di durata del conzo allo scopo di osservare bene le facce dei parenti del fresco dipartito, ascoltando gli altri parlare, prestando la massima attenzione, frugando e rovistando cogli occhi le pene degli altri finché non avessero raccolto finalmente gli elementi utili alla loro vita intrisa di malignità, arricchendo ogni volta un già formidabile campionario di aneddoti, risvolti e sfumature riguardanti i vari intimi e vissuti privati. Sovente commentavano le rivelazioni, gli scoop e i retroscena di cui erano messe a parte con un “meh, e basta!”, una interiezione che nel loro linguaggio non aveva nulla di impositivo o di proibitivo ma anzi, voleva significare: caspiterina, accidenti, minchia e porcazozza!. Un’espressione che sapeva molto di finta partecipazione alle ambasce del mondo e che voleva dissimulare invece la loro avidità di conoscenza di accadimenti, situazioni, cose e persone che pure non le dovevano riguardare. Innocenza, in special modo, gongolava allora. E per qualche istante non si sarebbe detto che sorrideva ma che ninnasse il suo ronciglio, dardeggiando relativa lama di luce.
Innocenza gongolando seppelliva carcasse.
Ora seppelliva proprio la sua amica Beatrice.
C’era questo infatti, che da qualche tempo proprio Beatrice era costretta in un letto di morte. Da qualche tempo Beatrice si contorceva in un divano-letto di morte, per la precisione. Le avevano già asportato tutto, con eradicamento da disperazione: le’ndrame, cioè le entraglie, le entragne, le interiora, le trame interne. Ma non erano riusciti a strapparle il male. Un male di quelli che si definivano incontrovertibili. Beatrice se ne andava di bel passo verso il nulla eterno, che per alcuni sarebbe poi l’aldilà: luogo, questo, scisso in due partizioni: un solarium sempiterno per bronzarsi del colorito di dio, e un girone infernale dove si è condannati al tormento del forcone proletario.
Solo per Vita Maria, invece, l’aldilà era stato fatto uguale all’aldiquà. Dei principi del piacere.
Mentre mamma Innocenza indugiava in casa di Beatrice, Vita Maria e Corrado si guardavano un approfondimento, uno special su Gelindo Scarvetta – scappato in Inghilterra -, ammannito dalla tv locale, miracolosamente in collegamento da Londra. La prosecuzione de La morte in differita con altri media.
Come una coppia sposata da trent’anni commentavano la trasmissione televisiva. Ma erano fratello e sorella.
“Sto ghiacciando”, disse Corrado.
“Ma non era più fico? Che fine ha fatto quello fico?” si domandava Vita tra una saporosa boccata di Pall Mall e l’altra mentre in primo piano sullo schermo si stagliava il volto di un trentenne dalla pettinatura precisa. Alle sue spalle una tapparella abbassata che peccato che non lasciava intravedere la sera londinese coi fasci di luce artificiale che dovevano indubbiamente solcarla.
Vita Maria lo avrebbe raccontato anche alle colleghe: si era avvicinata, aveva provato a baciarlo, ma lui si era spostato subito.
“Non possono dargliela vinta così”, sentenziava Corrado.
“Parli tu, che non ispiri certo molta fiducia.”
L’intervistatore non era visibile. Ma a Vita non fregava. Tanto Gelindo era ciò che voleva, anche somministrato tutto il tempo, per placare le sue ansie.
“Non farmi innervosire, Vita. Meglio per te”, scherzò macabramente Corrado fissandola con gli occhi sgranati, facendovi prevalere il bianco.
“E allora stiamo zitti e sentiamo”, cercò di ignorarlo lei.
Un diluvio di tic, Gelindo Scarvetta. Le dita che andavano di continuo a massaggiarsi i muscoli della faccia percorsa da contrazioni nervose. Il set era uno studio ovattato in una gradevole luce soffusa.
Improvvisamente Corrado chiese a Vita Maria di cambiare canale. Lei protestò che voleva continuare a vedere l’intervista. Ma sentiva che Corrado non teneva più la tensione. Che i suoi nervi dovevano essere molto scossi.
“Fino a quando?”, domandò Corrado.
“Fino a quando Cristo vuole”, disse Vita.
Gelindo era seduto dietro una scrivania. Gli capitava di poggiarci le braccia ma subito le ritraeva quasi che non volesse cedere allo scavo delle domande, preoccupato quasi soltanto di non rilassarsi mai troppo. Allora si sporgeva in avanti, poi indietro, si avvicinava alla telecamera e dopo qualche pausa riflessiva se ne allontanava. Poi ancora: secondo i ritmi dell’intervista.
“Non gli hanno portato niente da bere”, si premurava Vita. Soddisfatta, pensava che nonostante ciò la bocca non gli si impastava come successe a Bill Clinton quando ebbe a raccontare a quel procuratore di come Monica gli faceva succhioni e intanto egli stesso tirava succhioni da una lattina di squallido chinotto. Senza cannuccia, sia chiaro. Gelindo Scarvetta non aveva bisogno di chinotti né di cannucce né tantomeno che gli si facessero succhioni. Lui era il numero uno, non aveva bisogno di un cazzo di niente, era infallibile, come le sentinelle rivoluzionarie. Così come i due fratelli, dalla loro casa, si convincevano di essere i suoi fans numero uno e avrebbero voluto incrollabile, blindata nell’infallibilità, la stima che nutrivano per lui.
Aveva sterminato la sua famiglia in quel di Centanime.
Intervistatore: -Torniamo a quel giorno infausto.
Scarvetta: -Sì.
I.:- Lei aveva una pistola.
S.: - Con regolare porto d’armi, certo.
Tic a strapiovere, ambiente immobile, silenzio rotto soltanto dalle risposte calibrate, lucide, lente ma assolutamente perentorie. Tutta una teoria di certo. Certo, l’interlocuzione preferita, che comunicava tutta la sua fermezza, la determinazione che aveva conosciuto e di cui non si pentiva affatto. Risoluto anche nella rievocazione senza che mai un filo di nebbia offuscasse la sua memoria. Si esprimeva con proprietà di linguaggio; per questo che Corrado, coi nervi pur liquefatti, non si scioglieva dall’incanto.
“Guarda come è distinto nel parlare, sarà proprio uno a posto, bravo, intelligente”, infieriva Vita.
I.: -Dei corpi cosa ha fatto?
S.: -Caricati su un camper.
I.: -Dove li ha portati?
S.: -Alla discarica di Sternazzola.
I.: -Senta Scarvetta … ma … perché?
S.: No. Non c’è un perché. È stato un gesto di follia assoluta. Nessun movente. Nel modo più assoluto. Un gesto folle e inaudito. Uno sbaglio tremendo.
Il giudice ha disposto la perizia psichiatrica: poteva aver inventato tutto.
Corrado per riscuotersi tentò uno dei suoi guizzi. E ne trovò uno inaudito.
“È allo stesso tempo innocente e colpevole. Colpevole perché a noi piace così. Innocente perché è la scala che crea il fenomeno, lo dice la scienza. Accadimenti accidentali, frenesie divoratrici della natura e azioni umane rivestono una certa importanza solo se osservati nel loro svolgimento su scala macroscopica. È in quest’ottica di causa ed effetto visti in chiave storica che anche reati come questo di Scarvetta devono assumere un significato, una necessità di natura. E tuttavia noi non rileviamo qui alcun concatenamento. In questo delitto che sarebbe stato perfetto solo a non confessarlo non vi è alcuna necessità a monte né conseguenza a valle. Come dire che non c’è un colpevole e non ci sono vittime ma solo trasformazione dell’organico. Un’inezia.”
“Nei coglioni, Corrà! Ma perché non scrivi alla trasmissione che così gli dici la tua?”
Vita vuotò la tazza di caffè. Spinse indietro la sedia per alzarsi e lasciò Corrado alle sue congetture. Le trovava davvero inutili. Non sapeva se sensate o accorte. Ma inutili sicuramente. Nella sua bocca.
Il sollievo donatole da Scarvetta evaporò in fretta. Bastava lo specchio in bagno per farla tornare di cattivo umore. Inestetismi a iosa, minuti come quel paio di peli che spuntavano da un neo sopra al labbro superiore, e ben più evidenti come l’alopecia che si faceva largo in aree sempre più ampie del cuoio capelluto. Il bianco degli occhi virava ormai sul giallo. Intorno agli occhi dei bozzi che avevano formato due testuggini. Il viso sempre più smunto. Il naso, che era anche quello di Corrado, grosso come un pugno e fitto di punti neri. S’immaginò come poteva stare con la frangetta. Se la capigliatura glielo avesse permesso. Castana com’era e con la frangetta avrebbe recuperato un bel po’, sarebbe stata forse un po’ più graziosa. Magari solo una correzione di colore per la sua chioma sarebbe bastata. Perché adesso c’era anche questo: i capelli le si stavano ingrigendo.
Sentendosi un po’ più sicura di sé si sarebbe messa pure a rimorchiare visto che ormai era da tanto che non si dava. Ricordava di averlo fatto l’ultima volta pochi giorni prima della morte del padre. Trascorso più di un anno avrebbe dovuto avere la vulva in fiamme, e se solo fosse riuscita a trovare un poco migliore il suo aspetto sarebbe andata di corsa a fare shopping, un completo intimo nuovo da Calzalatu, un giaccone nuovo e dei pantaloni a jeans più intriganti di quelli che aveva. Cosparsa di un profumo provocante si sarebbe concessa al primo uomo che l’avesse corteggiata. Pure se non fosse stato una bellezza andava bene lo stesso. Aveva voglia solo di un po’ di muscoli maschili, una schiena inarcata e i tendini ben tesi, che le scopassero dentro un po’ di vita. Il resto non le importava. Non gli avrebbe chiesto il nome, non si sarebbe interessata al suo viso né al suo carattere, tantomeno al suo lavoro. Muscoli, peli e un filo di barba che le sgraffiasse la pelle mentre si faceva succhiare i seni, era ciò di cui aveva bisogno.
Credeva lei. Di averne voglia e bisogno. In realtà più si specchiava e più si abbatteva nello spirito. Stava forse già appassendo? Era già vecchia a trentatré anni? Avrebbe dovuto concedersi qualche trasgressione in più nella sua vita. Che a diventare vecchi si comincia già col sentircisi. E arriva un decadimento fisico che non riesci ad arginare con nessun mezzo. Inesorabilmente ti imbruttisci. Vedi ora? Avresti dovuto depilarti le gambe e le ascelle e invece hai già deciso: rinunci a farlo. Tanto non uscirai se non domani per andare al lavoro, a sciacquare i cessi. Chi te lo fa fare ora di metterti lì con la santa pazienza a prenderti cura di te?
Vita richiuse la tazza del suo coperchio e vi crollò a sedere. Pensando a niente. Aveva da rinfrescarsi un po’, cambiarsi le mutande per lo meno. Stava rinunciando anche a quello, si sentiva bene in effetti nel tepore di una tuta per la casa, davvero ben rimpannucciata, e anche se per oggi trascurava l’igiene intima non c’era da stracciarsi le vesti – chi poi avrebbe dovuto farlo? -, tanto non c’erano imprevisti nelle sue giornate tutte uguali.
All’improvviso una corrente di merda le corse per tutte le viscere andando a scaricarsi nella zona perineale. Credette di non poterla controllare, di non fare a tempo ad alzare neanche il coperchio del cesso e ad abbassarsi i pantaloni per sistemarsi per bene a fare la cacca. Si alzò di scatto e, credendo di essersela già fatta addosso, si denudò le gambe convulsamente.
Erano solo mestruazioni.
Erano le sue mestruazioni e lei non aveva saputo riconoscerle. Cosa le stava succedendo? Cosa stava succedendo al suo corpo?
Eppure se si fosse ispezionata le mutande una volta di più, trovandovi avvisaglie di macchie scure, avrebbe sicuramente saputo che stavano per arrivarle.
Intanto Beatrice urlava nel divano-letto del soggiorno. Perché era lì che voleva stare. Dove stava il televisore. Perché soffrire va bene ma farlo senza il conforto del TG1, di Furore, delle Iene, o delle partite della Sovranazionale in compagnia dell’amato e sfegatato figlio, era davvero esornativo.
Innocenza, alla sera alla sera, verso le otto diciamo, si richiudeva alla spalle il lebbroso cancello della sua scalcinata magione, compiva dieci passi sulla destra e si introduceva nel cancello accanto, mai chiuso davvero perché così comunicava che di casa davvero ospitale trattavasi, sempre aperta a tutti. Entrata in casa, trovava l’intera famiglia che si stringeva attorno alla donna, le faceva delle attenzioni, le chiedeva continuamente se aveva fame, se voleva mangiare. Tutti pregavano che mangiasse, poiché brutto segno davvero era quando si smetteva di mangiare. Ma la chemio era stata spossante, il marito si allontanava perché non gli teneva il cuore e forse neanche lo stomaco di vedere la sua donna in quello stato di prostrazione, il figlio adolescente seduto ai piedi di sua madre stesa su un fianco, in un cantuccio del divano-letto che lui si ricavava come un cucciolotto. Ma cucciolotto un corno! Quello era preoccupato solo di guardare la formazione sul televideo nell’unico televisore di casa, leggere le ultime dichiarazioni del mister, aspettare il fischio di inizio, imprecare contro tutta la tifoseria non sovranazionalista, l’intera categoria arbitrale e soprattutto i morti, le mamme e le sorelle della Senectute. La quale, a onor del vero, aveva mafiato non poco per arricchire di trofei la propria bacheca e adesso si beccava il simpatico nomignolo de La Battona.
La ragazza, l’altra figlia, si struggeva molto invece. Più osservava la madre e più tormento ne ricavava. Nella sua breve vita innocente con ogni probabilità non aveva neanche avuto il tempo di immaginarla, la morte. Non aveva creduto alla morte fino ad allora, non era mai stata avvertita di quanto presente potesse essere nella vita di tutti giorni, lei così fresca e bella, ignara della falce che tutto decrepita. Pertanto adesso, scrutando il volto sofferente della sua genitrice, spiandolo incessantemente, esplorandone i sommovimenti, la vedeva agire, la morte, come un demone sottopelle che premeva per esondare in sbocchi di siero torbido, dispiegava tutta la sua forza corruttrice nell’organismo ancora caldo di vita.
Innocenza arrivava, si incuneava in questo mesto quadretto, e si piazzava al centro del soggiorno, radicata con sedia, con la pretensione di far parte del quadretto, come elemento di natura morta… Arrivava, si strascinava la sedia al centro della stanza, laddove la visuale era ottimale e si piazzava. E non si pensi alla visuale della tv. No, ma cosa importava a lei della partita della Sovranazionale. Innocenza voleva vedere bene in faccia Beatrice. Mica per parlarci, per esserle di compagnia o per distrarla dalla certezza della fine. Al massimo pronunciava quell’ipocrita “meh, e basta!”, magari subito dopo un’impennata di dolore della moribonda. Lì, col suo culo sporco posato sulla sedia, uno scialle sopra un golfino animalier, tutto un color ruggine, scialle e golfino appuntati con un delirante verzicar di spille, le braccia protese verso il basso, le mani unite che facevano finta di strofinarsi per il freddo e cercavano riparo nell’incavo che la sua gonnazza formava tra le gambe. Beatrice si straziava e lei lì, immobile e beffarda.
“Meh, e basta!”
Consapevole e soddisfatta di stare a violare un’intimità. E ormai si sarà capito: quando ghignava di soddisfazione per qualche istante non si sarebbe detto che sorrideva ma che ninnava il suo ronciglio dardeggiando una sinistra lama di luce.
27 Apr 2011 Nicola