Su realtà e verità /2
La storia d’Abramo e d’Isacco non è documentata meglio di quella d’Ulisse, di Penelope e d’Euriclea. Sono favole entrambe. Ma al narratore biblico, all’Eloista, occorre credere alla verità oggettiva del sacrificio d’Abramo; l’esistenza delle norme religiose della vita riposa sulla verità di questa e di simili storie. Egli deve credervi con passione, o almeno – come ammettevano, e forse ancora ammettono, parecchi interpreti illuministici – doveva essere un bugiardo consapevole: non bugiardo innocente come Omero che mente per dar piacere, bensì un mentitore politico, ben consapevole del fine, e che mentiva nell’interesse di una volontà di dominio. Il punto di vista illuministico mi sembra psicologicamente assurdo, ma, anche se lo teniamo in considerazione, l’atteggiamento dello scrittore biblico di fronte alla verità della sua storia resta molto più appassionato e tendenzioso di quello di Omero. Egli dovette scrivere esattamente quello che esigeva la sua fede nella verità della tradizione, o il suo interesse, secondo la convinzione illuministica. In ogni caso, alla sua fantasia libera, inventiva o descrittiva erano posti limiti ristretti, la sua attività doveva limitarsi a redigere efficacemente la tradizione religiosa. Quanto egli esponeva non mirava dunque in primo luogo alla “realtà”, e se pur anche gli riusciva, ciò era pur sempre mezzo e non scopo; mirava invece alla verità. Guai a chi non credeva in essa!
Si possono elevare innumerevoli obiezioni storico-critiche contro la guerra di Troia e contro i viaggi d’Ulisse, e tuttavia essi producono sul lettore l’effetto voluto da Omero, ma chi non crede al sacrificio d’Abramo, non può fare del racconto l’uso per cui fu scritto. Anzi, occorre andar oltre. La pretesa di verità della Bibbia non soltanto è più urgente che in Omero, ma è tirannica, esclude ogni altra pretesa. Il mondo delle storie della Sacra Scrittura non s’accontenta di voler essere la vera realtà storica, ma afferma d’essere l’unica vera, d’essere il mondo destinato al dominio esclusivo. Tutti gli altri teatri, eventi e ordinamenti storici non hanno nessun titolo per presentarsi indipendenti; ed è stato promesso che tutte le civiltà, tutta la storia degli uomini, deve ordinarsi dentro la sua cornice e ad essa sottomettersi. Le storie della Sacra Scrittura non si prodigano, come fa Omero, per attirarsi la simpatia, non ci lusingano per allietarci e incantarci; ci vogliono assoggettare, e, se ci rifiutiamo, siamo dei ribelli.
Non si obietti che con ciò si va troppo oltre, che la pretesa di dominazione non è posta dai racconti, bensì dalla dottrina religiosa, poiché è vero che i racconti non sono come quelli d’Omero pura “realtà” raccontata. In queste storie s’incarnano dottrina e promessa, che vi sono fuse inscindibilmente, e appunto per questo di sfondo e oscure, contenendo un secondo senso celato. Nel racconto d’Isacco non rimane oscuro, celato, di sfondo, soltanto l’intervento divino al principio e alla fine, ma anche la parte intermedia sia materiale che psicologica; e perciò ne nasce un’esigenza e un appello ad approfondire. Questi sono i motivi più importanti della storia d’Isacco: che Dio tenta anche il più devoto fra i suoi fedeli, che l’unico contegno di fronte a lui è l’obbedienza assoluta, che però la sua promessa rimane ferma, che il suo decreto può essere sempre tale da suscitar dubbio e disperazione; ma attraverso tali insegnamenti il testo diventa così grave, così carico di contenuto, comprende in sé ancora tante allusioni all’essenza di Dio e al contegno dell’uomo pio, che il credente viene indotto a riprofondarvisi sempre e a ricercare tutti i particolari dell’illuminazione rimastagli celata. E poiché effettivamente in esso vi è tanto di oscuro e di reticente, e poiché sa che Dio è un dio celato, trova il credente sempre nuovo alimento alla sua sete di chiarezza col racconto, il quale è più che mera “realtà”, ma di certo anche in pericolo continuo di perdere la realtà propria, come accade non appena l’interpretazione diventi soffocante e dissolvente.
09 Lug 2011 Nicola