un caso modugnese di Letteratura dell’esilio
Capitolo Cultura a Modugno: si dessero le condizioni per un gran bel repulisti di banalità e frasi fatte, in questa città si perverrebbe alla felice scoperta che la realtà è ben oltre ogni immaginazione. Già, perché l’immaginazione pare attossicata dal luogo comune, e questi altro non sarebbe che idea approssimativa, quando non del tutto falsa, della realtà culturale, dunque ‘idea ricevuta’ sullo stato dell’arte locale. L’altra faccia di un conformismo che se fosse spazzato via (cara grazia) lascerebbe posto ad una sola, bellissima reazione: di stupore di fronte a un patrimonio “di cui non se ne ha l’idea”. Appunto.
“Qui non c’è niente, qui non c’è cultura o nessuno la fa”, sarebbe la prima pertinace convinzione a finire a gambe per aria.
Ciò che manca, invece, manca del tutto, manca in senso criminale, è una volontà politica, un principio organizzatore, un orizzonte, un disegno anche di corto respiro; a mancare drammaticamente, in due parole, sono le Politiche Culturali. Precisazione, anche questa niente affatto originale, ma utile non soltanto a erodere terreno al qualunquismo endemico, a sottrarre argomenti a quel luogocomunismo in servizio permanente effettivo che tutto confonde e annega, ma pure anche a reagire nei confronti di chi, dalla imprecisione e dalla indeterminatezza dei concetti – ciò che corrisponde all’azzeramento della coscienza critica -, ha tutto da guadagnare. Primo: non fornire alibi a coloro che già fomentano l’anestesia di massa e che a questa rinuncerebbero solo potendo promuovere un analfabetismo di ritorno.
Si vuole qui segnalare come la scena cittadina sia fitta di ‘attori culturali’: una moltitudine di soggetti (al netto di coloro che lo fanno velleitariamente) che si cimentano in ‘imprese culturali’: poeti, romanzieri, attori, registi per il teatro e per il cinema, danzatori, musicisti e pittori. Molti di questi hanno raggiunto traguardi di una tale rilevanza, addirittura internazionale, da poter essere considerati artisti di vaglia, talenti certificati, ove mai ce ne fosse bisogno, da palmares e onorificenze. Inutile sottolineare come tutto questo (le loro opere, la loro arte) succeda nel totale disinteresse e della città che se n’infotte e delle sue istituzioni, fatti salvi quei passaggi doverosi in cui ‘il fatto importante’ viene notiziato – e magari accompagnato da certo cinismo propagandistico.
Meteore. Meteore per Modugno ma non certo per chi di quel talento, di quella professionalità, di quella risorsa si avvale ogni giorno e, così facendo, la valorizza e la fa fruttare.
Un caso emblematico per tutti: Tommaso Di Ciaula. Scrittore (di poesia e di narrativa) di statura elevatissima, degno di essere collocato tra i giganti della letteratura italiana contemporanea – chi scrive, mentre scrive, temendo di averla sparata grossa, ci pensa su e … e non è che veda in giro tutti ’sti giganti e sì comunque, Tommaso Di Ciaula ben figurerebbe insieme a quei pochi viventi capaci di Letteratura in Italia.
Bene, occorre motivare un giudizio tanto esaltante. Occorre andare a vedere dove sta la sua grandezza. E mostrarla. E se dovessimo riuscire a dimostrare come e qualmente l’autore di Tuta blu meriti di essere considerato uno dei più importanti scrittori italiani, il passo successivo sarebbe quello di gridare allo scandalo per la difficoltà (di reperire i suoi libri) in cui s’imbatte oggi chiunque voglia accostarsi alle sue opere. Dopodiché sarebbe inevitabile invocare un’iniziativa ‘politica’, almeno sul piano locale, per tentare il rilancio o una nuova diffusione dei suoi scritti.
All’attivo di Di Ciaula vi sono dodici libri che spaziano dalla poesia al romanzo alla saggistica. Una produzione che gli vale – oltre che un vitalizio deliberato nel 2010 dal Consiglio dei Ministri secondo la legge Bacchelli (concepita per soccorrere i cittadini che si sono distinti nel mondo della cultura e dell’arte contribuendo al lustro della nazione e che al contempo versino in uno stato di necessità) – l’inclusione in un canone letterario quanto mai composito. Egli è, in qualità di scrittore, molte cose insieme: poeta, prosatore naïf, narratore autobiografico e ombelicale fino all’onanismo più spietato e nobile, cantore della sensualità di Madre Terra e della libidine umana, degno epigono della tradizione operaista in letteratura, d’attitudine così arcaica e moderna insieme da sconfinare nelle regioni del realismo magico, pantografo viscerale e sensibile di un Sud altrettanto viscerale e sensibile. E in ogni caso, un vero e proprio tornitore della lingua italiana, emancipato da quell’ingenuità che da subito gli è stata attribuita. L’ingenuità è tutta nel suo sguardo ma il lavoro che egli compie su e con la parola scritta, trattandola e incidendola come carne viva, è assolutamente coerente con l’analogo lavoro che egli compie interagendo con la quasi totalità degli esseri viventi, cioè con l’uomo (soprattutto se stesso), con la donna (sempre fantasmata), con il sesso, con i frutti, i fichi, i gelsi, la terra grassa e scura oppure arida e malinconica, il seme (in tutte le sue accezioni, compresa quella che ha “l’odore dell’acqua della pasta scucinata”), la mula pazza e la mula placida (i tempi prediletti di Tommaso Di Ciaula sono quelli in cui l’asino era ancora un deforme orco domestico), il pane (il laborioso pane di ogni dì), le vacche, le serpi; finanche la fabbrica viene vista da Di Ciaula come essere vivente, forse il più vorace di tutti: quello che si nutre di altri esseri viventi e, nutrendosene, fa il vuoto attorno a sé disseminando il paesaggio di malinconici detriti. Converrà tornare su questo punto per attualizzare “ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud” ai tempi di Marchionne. E ancora, quanto di più inanimato si possa immaginare, finanche lo scoglio, il sasso, la pietra, le pietre antiche, acquisiscono, nella poetica diciauliana, dignità di esseri viventi, diventando “le amiche pietre sentinelle della solitudine”.
Non bisognerebbe sottovalutare la grande consapevolezza che l’autore di Chiodi e rose, L’odore della pioggia (editori Laterza), Prima l’amaro poi il dolce (Feltrinelli editore),
possiede del proprio valore. Un valore che il lettore meno accorto che acceda alle sue pagine potrebbe scambiare per coraggio pazzo e suicida quando vi trova scritto – ruvidezze frequenti nei due romanzi di natura più ‘eruttiva’ - “mi tiene fame”, oppure, rivolto a una donna: “se vuoi a me (…)”. In verità, siamo di fronte a una personalità, tanto decisa quanto selvaggia, che si stacca dal mondo contadino e prima di incappare nei lamieroni industriali (”Acciai fioriscono malignamente all’aperto”) scopre la parola, o meglio: la parola letteraria e le sue infinite possibilità. Un percorso biografico di questo genere (il ragazzo Tommaso Di Ciaula abbandona la campagna per un lavoro in fabbrica come operaio tornitore) implica che la parola appena scoperta immediatamente è morsa da una tenaglia, la quale, una volta confitta nella carne che la sua stessa parola si è, prende a divaricarsi, lacerandola in due opposte direzioni: la nostalgia per un’arcadia che si perde, e con essa vanno persi per sempre molti saperi, e la necessità di dover stare in una modernità che, potendo, non esiterebbe ad annientare in un istante tutto il passato, in nome di non si sa che diavolo di benessere. Il mutamento epocale, tale in quanto soprattutto antropologico, vive cioè nell’abbraccio carnale di due entità che se ne fanno testimoni: la parola e il corpo di Tommaso di Ciaula. Egli intuisce, e poi comprende sempre meglio, che la lingua letteraria in genere, e la sua in particolar modo, può vivere per davvero solo se intessuta di tradimenti, cioè impastata di queste trasgressioni mutuate dal parlato quotidiano, dalla gergalità locale, dalle caratteristiche idiomatiche e ambientali in cui ha formato la propria sensibilità. Si tratta di quella stessa consapevolezza che trascende in presunzione, di cui un Maestro ne ha ben donde, e che lo ha portato, nel tempo, ai margini della società, fuori dal tessuto vivo delle relazioni tra cittadini, a tal punto che l’intera opera di Tommaso Di Ciaula (la bestia braccata) potrebbe essere riletta nel segno di una Letteratura dell’Esilio.
In maniera ancora più analitica:
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Il Poeta. Di Ciaula riprende molti dei grumi poetici raccolti nei suoi versi per poi svolgerli in prosa (immagini di ragazzi scarmigliati che inseguono vacche a calci e pietre rimbalzano da Il cielo, le spine, la pietra, Argo editrice, a Tuta blu; lo stesso accade con un’altra immagine: quella del poeta che, oppresso dalla fatica del lavoro, si addormenta udendo le ultime chiacchiere notturne di vicini e parenti: una “serenata malvagia”; e ancora, dappertutto nei suoi libri: gatti che si grattano contro il tufo delle pareti, campagna in cui ballano gli spiriti, afa che morde le mura di casa, vespe e calabroni che bussano alla porta, gelate invernali che paventano rovine all’agricoltura) senza perdere niente della qualità dei suoi accessi lirici e soprattutto evitando la sovrabbondanza stucchevole, ovverosia senza cedere alcunché alla maniera,
– ciò che costituisce un notevolissimo indizio della grandezza accreditatagli all’inizio di queste considerazioni. Semplicemente e spontaneamente, egli segue una regola aurea: la poesia come soffio vitale deve attraversare tutte le arti. Così, un “balcone smemorato” può essere all’altezza di un “poema di balconi” di Garcìa Lorca, mentre gli ulivi “si pavoneggiano al vento”.
A maggior chiarezza basti questo brano tratto dal MONUMENTO ALLA ZOLLA (in Fragmenta, Edizioni della Passeggiata Walking): «La prima aratura dopo la trebbia ha lasciato grosse zolle brune, sembrano di cioccolato. Zolle possenti e voluminose che se le guardi fisso perdi le dovute proporzioni: da sembrare valanghe. Cara e buona zolla, mi vien voglia di fermarmi e darti un bacio in testa. Darti un po’ d’amore. Nelle piazze altro che al milite ignoto, a te lo farei un bel monumento. A te che abbracci con umiltà e in grandi silenzi nell’inverno semi storditi e innamorati». Tutto vive, non c’è cosa, non c’è minuzia, non c’è semino che agli occhi del poeta non abbia una spasmodica voglia di vivere. E nel trionfo della natura vitale riposa tutta la commossa gratitudine del poeta.
Le parole che Sciascia spese in suo favore sul Corriere della Sera del 4/11/1971, ancora oggi risultano le più esatte: “(…) la solitudine che si apre in comunione con le cose, le cose che si aprono in simboli.”
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Narratore autobiografico ombelicale fino all’onanismo più spietato e nobile. Tommaso Di Ciaula si cala fino in fondo nell’esplorazione delle zone più infime dell’animo umano: anche in questo pare conoscere la lezione del mettersi a nudo, della spoliazione dell’anima per raccontare le verità più oscure; anche in questo, egli sa che una certa spietatezza con se stessi è condizione necessaria per una critica sociale non gratuita e di qualche efficacia – e nel suo caso la critica sociale si fa feroce. Tutto ciò per raccontare l’insopprimibile desiderio della Femmina, per farsi cantore della rimossa verità del corpo, del corpo che tutti noi abbiamo, e anzi del corpo che siamo (diceva Carmelo Bene). Imperversano in tutti i suoi scritti continue epifanie di ragazze desiderabilissime, donne voluttuose che si materializzano ad ogni angolo della strada, in piazza, sulla villa comunale, dietro le tende, sui balconi a stendere i panni. Un omaggio incessante a un prodotto della natura come gli altri, frutto dolcissimo tra i tanti di cui la Madre Terra è prodiga, omaggio che non può essere reso se non con la forza dell’eros. Questo è il deposito di senso in Prima l’amaro, poi il dolce, opera nella quale il racconto delle proprie miserie (intendendo con ciò l’essere, biograficamente, piccola e misera cosa) si alterna a un’impagabile traversata in quanto di più grande e ‘alto’ l’uomo abbia potuto concepire: i vecchi mestieri (il sellaio, il maniscalco, l’aggiustaombrelli, il ‘mulaforbici’, le ricamatrici, etc.) assurti a livello di ‘arti’ e nondimeno colti in una fase crepuscolare, in cui l’umanità va mettendoseli definitivamente alle spalle. Questo è il momento cruciale in cui si focalizza perfettamente il perno attorno a cui ruota tutta l’esperienza letteraria di Di Ciaula: un dolore antico. Una sofferenza che si incunea nelle more del quotidiano penare, dovuta a ciò che si lascia per ciò che si è a viva forza costretti ad accettare, ad ingoiare controvoglia: l’amara medicina di una modernità da incubo. Definendo ‘antico’ il suo personale dolore, lo scrittore in qualche modo percepisce che queste dilanianti transizioni esistono dalla notte dei tempi, recano cioè il germe dell’ineluttabilità, sono la Storia che macina Storia.
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Cantore della sensualità di Madre Terra e della libidine umana. L’impossibile silenzio di una campagna ancora inviolata è, invece, densità che preme alle orecchie, fattore ambientale che concorre ad accendere il desiderio per quel ventre della donna che “sa di grano”: “un precipizio / dove partoriscono / gli armenti / nel forte profumo / del sangue.” (da Tutti i frutti del mondo in Ogni poesia è un mistero, Vito Radio Editore, 2007). Tommaso Di Ciaula si propone come autorevole cartografo di un Meridione il cui sentimento religioso tracima nel paganesimo e, di quando in quando, svela nel tumulto del sangue una certa propensione orgiastica.
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Degno epigono della tradizione operaista in letteratura. Al cuore di Tuta Blu, ire , ricordi e sogni di un operaio del Sud (Feltrinelli editore, 1978) stanno le tre F: la Famigerata (poiché tutti i testi di Di Ciaula in qualche maniera la contemplano) e Famelica Fabbrica. Quella in cui egli è assunto, nella fattispecie, non di rado serve a procurargli la visione del Drago. Nell’evocazione di questa terrorizzante creatura ‘fantastica’ si può ritrovare la medesima suggestione provocata dal Voreux di Zola in Germinale, e pur essendo la scrittura di Di Ciaula agli antipodi del Naturalismo, il problema centrale pare essere sempre lo stesso: il persistere di una dignità umana arresa alla tecnica, oggi come allora; il costante sacrificio di vite umane in ossequio ai desiderata del capitalismo; e su tutto la sempiterna ossessione che avvelena la vita di tutti: il rendimento (inteso come rendimento sul lavoro). Dal momento in cui appare questo totem della contemporaneità, il rendimento, nelle pagine di Tuta blu, il lavoro dell’autore, apparentemente ripiegato in un chiuso diarismo, si apre, respira di rabbia, si carica di forza libertaria e liberatoria, si fa politico. Innanzitutto, qui si svela il secolare inganno: il rendimento è un’impostura. Né più né meno. Così come la meritocrazia, altro feticcio odierno. Paroline magiche strumentali, finalizzate a mantenere inalterati gli equilibri dei rapporti produttivi. Inalterati, cioè sbilanciati. Formule usate come foglie di fico per lasciare vergognosamente intatta la fisionomia di un potere che, dovendo produrre non importa cosa (a patto che si tratti sempre e solo della produzione di ricchezza per pochi), finisce per non produrre più niente di buono dal punto di vista sociale e poi nel non produrre proprio più niente perché nel frattempo non ha mai premiato né il rendimento né il merito, non si è rinnovato e s’è fatalmente inaridito (da questo libro restano scolpiti una volta per tutte, paradigmatici, i becchini del Progresso: i lacché sul posto di lavoro). Tutto questo ‘non produrre’ con una mano mentre l’altra bada a distruggere il resto: la campagna ora violata da capannoni industriali, molti dei quali restano beffardamente dismessi, l’aria imputridita, l’avvento del mito velocistico e dell’automobile infestante, il delirio urbanistico dei “geometri ciucci”, la costa maciullata, il mare ‘na zozzeria e le spiagge ridotte a letamai.
S’immagini ora un paesaggio del tenore appena descritto, lo si filtri attraverso gli occhi poetici di un Tommaso Di Ciaula sovrastimolato dallo stress, dalla monotona alienante fatica dell’operaio alla macchina, e lo si faccia reagire con l’uomo intriso di arcaismo ed eros raccontato finora: si otterrà Tuta Blu. Il suo capo d’opera.
Dice bene Paolo Volponi nella prefazione: «Il filtro della poesia fa cadere sul libro come una miriade di scintille tante bellissime parole, frasi, immagini, nelle quali il lampo lirico non si consuma, ma si condensa nella composizione di una realtà alternativa».
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Il realista magico.
“Imputridiscono stelle / sui viottoli / polvere / tesse sui muri / senza pace / fili di ragno lichene / premono i miei passi / su sassi umidi erba sterile / minacciosa / all’erta / non ho più voglia / di andare / anche sa da anni / mi canta sperduto / aldilà del pozzo / un albero di mandarino / assetato aggredito / da spine blu / torno indietro / un’arista nei sandali / m’ingoiano e mi stritolano / i fantasmi innumerevoli / della notte / che si avvicina / tossicchianti / nel carrubo / dietro il muto.” REALISMO MAGICO che in Acque sante acque marce (Sellerio; titolo meraviglioso anche come segnatempo, al pari di Viaggio al termine della notte) si disegna compiutamente.
Ai modugnesi interessati a capire quanto incredibilmente sia cambiata la loro città in pochi anni, stravolgendosi nella fisionomia cittadina e nella pasta squisitamente umana dei suoi abitanti, a quelli interessati ad un’autobiografia della provincia (la loro), non resta che la lettura, la rilettura e la riscoperta di questo straordinario testimone di un mutamento epocale. Tommaso Di Ciaula.
11 Lug 2011 Nicola
Bravo Nicola!