Qualcuno, un Azazel, mi porti all’inferno e colà si porti pure il tormento e la bellezza del mio romanzo. Sì sì, anch’io scrivo solo per Jeshua, Woland e Margherita. Che per questo si additi al mondo la stolida irresponsabilità della camarilla degli “intriganti, conformisti e leccapiedi”, “fratelli in letteratura”, uomini di vaste letture e smagliante cultura, “gioiosamente dediti al loro vuoto” mentre nei vieti cerimoniali si incensano tra tartine e pizzette, per tacere di un “pesce persico au naturel“, delle “uova-in-cocotte con una purée di funghi in tazza”, e il sentimento gli si eleva ad altezze celestiali al cospetto rarefatto dei “filettini di tordo” e delle “quaglie alla genovese”. Io ci ho il mio fornetto dove appronto l’eterna zuppa “ignivomo lago”, sarei disposto a dividerla con la bestia Behemoth e il diavolo mi porti perché nel teatro della vita, e non nell’antivitale teatro del palcoscenico, ho imbrattato le anime belle. Pur non trascurando, prego notarlo, di insozzare la mia, vedomi oppugnato e un tantinello misconosciuto nella potenza figurativa del mio ingegno. Che il tram giustizi, opportunamente decollandoli, i direttori di riviste letterarie dalla “robusta erudizione”. Che qualche mia devota stregaccia rada al suolo le villazze dei parrucconi, loro già rasati con cura, che mi condurranno ai matti.

Alfine posso dire. Il mio, molto inedito, è il miglior romanzo dell’Unione Sovietica del secolo venturo.