Pensare la vita
I vespilli dentro agli occhi, le loro uova tra le ciglia. Grappoli d’uova che gravano sulle palpebre e rendono intollerabile il mantenere gli occhi aperti. Un pensiero che si muove tra l’incoscienza e la biologia che resta. Vita pensa. Ancora qualcosa pensa e ricorda. Pensa alla vita della memoria, questa realtà di ricordi che come microorganismi guardati al microscopio ancora si dibattono, si affollano in un punto e poi si separano, corrono a pazza velocità e si schiantano contro le sbarre di una prigione, prigione alla quale l’involucro Vita, un tempo, prese gusto. Ricordarsi di quanti anni sono. Dieci anni che non parla con nessuno, a parte i monosillabi duri che si è riservata nel tempo per suo fratello e per sua madre. Dieci anni chiusi in casa e la materia da ricordare che vola via. Presto non c’è stato più niente da ricordare, solo l’immaginazione da far lavorare. Dimenticarsi di essere stata un membro della specie umana, un uomo. E immaginarsi di essere stata un tempo una donna. Ricordare e immaginare. Dimenticare e continuare a immaginare. È troppo, l’immaginare. Per avere presa sulla realtà, inesorabilmente sfumata negli anni, aveva immaginato ladri in casa, furiosi conflitti fuori, guerre di liberazione, disastri, apocalissi salvifiche.
Troppo, l’immaginare era stato. Un lago in esondazione diventato delirio. Allucinazione.
La fame, non ricordava. La fame, le puzze, la noia, il dolore. Neanche più il dolore, ricordava. Il dolore di non essere amata. Da nessuno. Quel dolore che le si avvitava nelle ossa, fino a spaccargliele del tutto quel giorno di smalto livido. Si era contorta dal dolore. Ma poi nell’immobilità era evaporato anche quello. I muscoli saltati. Il sostegno alle ossa franato.
Fratture insanabili, era l’espressione che stava pensando, che la racchiudeva e la identificava. Una frattura insanabile la separava dal mondo. Una vita che aveva chiuso col passato, con l’anagrafe. Nasce una bambina e tu, mamma, che fai? La chiami Vita. E me la chiami Vita? E le ripeti fino all’assurdo che la sua vita non vale un cazzo? E te ne auguri adesso la morte? Lo so che non aspetti altro, lo so. Lo sento da quel tuo grande respiro dietro la porta. Che mi tallona e non mi fa dormire. Sono immobile a letto, con gli occhi chiusi, e non dormo più da anni.
Aspetto. Aspetto che ti allontani. Solo così riesco a rilassarmi. Aspetto di sentire il cigolio delle altre porte in casa, il rumore dello sciacquone. Aspetto il tuo russare.
Quel rumore orribile che fai digrignando i denti mentre dormi mi fa star meglio. Aspetto il tuo rimorso, aspetto che tu ti ravveda, che mi riporti indietro di vent’anni. Mi basterebbe una parola. E sarebbe tutto diverso.
Ma so che la parola che aspetto la tua bocca non pronuncerà mai. Sarebbe come se dovessi ricoverarti perché il chirurgo ti rimetta nel ventre tutto quello che ti ha tolto, tutto perfettamente in ordine, ricomposto e sensato nel tuo ventre. Ma questo è impossibile. Non avverrà mai. È contronatura. Come contronatura sarebbe che le tue tube mi risucchiassero e che il tuo utero tornato funzionante nutrisse il mio feto nuovamente.
Hai reso interminabili i miei giorni. Vivi la tua vita al doppio, succhiando la mia. Vivi per me e per te in una sconcia abbuffata. Ti stai mangiando me, ti alimenti della mia vita, svuotandomi, trovando prelibate le mie interiora, leccandoti la mia pelle come si fa con quella di un pollo; se battessi sulla mia carcassa con una mazzuola sentiresti limpidamente un suono di legna che si accatasta. Ma non vieni qui e io non esco - e come potrei riuscire a farlo? - perché incrociando il tuo sguardo sarei pietrificata dal terrore al punto da sperare subito di essere sprofondata nel più consolante freddo della morte. E il tuo respiro dietro la porta prima era quello dell’animale affamato nel territorio di conquista. Ora è un fremito di puro piacere.
Sto pensando? Sì, sto pensando. Sto facendo i pensieri più brutti, quelli che non portano a niente, quelli che non aspettano più niente. Quelli di una che è già morta. E se sono morta adesso che succede? Che fanno là fuori? Faranno venire qualcuno a constatare il decesso? O hanno paura anche del medico che viene a indagare le ragioni della mia morte? Che spiegazioni possono mai dargli? Quelle che avrebbero come inevitabile conseguenza i carabinieri finalmente qui per arrestarli tutti? Verranno a bloccarmi la mascella? Mi porteranno il tavuto? Mi laveranno e vestiranno, o mi lasceranno a marcire come hanno sempre fatto? Nel mio letto ancora per centinaia di anni? Almeno questo spero, che mettano un punto tra la mia vita e la mia morte. Non so che cosa mi devo domandare: da quanto tempo sono sveglia o da quanto tempo sono morta?
03 Dic 2012 Nicola