A proposito di rivoluzioni e di civiltà


Il “giudice” che intenda darsi a, scendere in, salire a, prestarsi alla – fate voi, per me anche “gattonare in”, “levitare” e “spantegarsi ne” vanno più che bene - politica, può evitare di candidarsi immediatamente nello stesso ambito territoriale in cui ha esercitato e appena cessato la sua funzione giurisdizionale.

Ecco, seguendo questa norma di buon senso e di buon gusto (vogliamo anche dire di “civiltà”?), molti magistrati possono sottrarsi agevolmente all’accusa di voler far fruttare politicamente l’eventuale buona fama conseguita nel e col loro lavoro. Quelli che invece le contravvengono, finiscono per alimentare, non senza ragione, il chiassoso sbraitare contro la “giustizia a fini politici“.

Ora, uno come Ingroia, che spettacolarizza al massimo l’inchiesta sulla trattativa tra mafia e Stato italiano, uno che indaga su qualcosa che rassomiglia più che altro a un metacrimine, uno che concentra le sue indagini – e al contempo ci costruisce sopra la sua reputazione di inquirente, di “intellettuale” e ora di politico – su un fenomeno inquietante e seducente, ma soprattutto ubiquo nel tempo e nello spazio, ubiquo, ovvero trasversale, compresente, carsico oppure dilagante, nella Storia italiana e nel territorio italiano, bene, secondo me, uno così doveva evitare di entrare nella competizione elettorale italiana. Cioè sì, secondo me poteva “candidarsi a premier” ma in un ambito territoriale diverso da quello sul quale ha indagato. In Guatemala, appunto.