A caccia di un pesciolone come del segreto di un capolavoro
L’acqua, il mare, l’oceano, gli abissi. L’uomo, l’individuo, il cercatore di verità, lo smanioso della Verità, il saggio contemplatore della realtà e dei suoi pezzi di verità. Il pesce, il cetaceo, il capodoglio, la balena bianca, Moby Dick.
L’acqua come elemento che accompagna e favorisce la meditazione. L’uomo che si fa individuo nella natura febbrile, prensile, di Ahab – in lui la volontà è subito volontà di potenza (si confonde con la rapacità monomaniaca) e il senso della vita, della sua vita, è tutto compreso nel folle, incessante inseguimento di qualcosa che si chiama Moby Dick ma che in realtà è innominabile, sfuggente, inafferrabile, inosservabile nella sua interezza e dunque non pienamente descrivibile, ovvero inaccessibile, inespugnabile proprio come una fortezza dalle proporzioni colossali, una roccaforte mobile e titanica che, del pari, a titanica impresa costringe laonde qualcuno si metta in testa di darle la caccia; la sorte di questi infatti sarà il non trovar pace fino a che non avrà avuto ragione di lei, poiché alla sua cattura, al farla sua, egli ha legato quel suo stesso destino e, al limite, anche soccombere per causa sua (della balena), ma solo per causa sua, può essere in qualche misura tollerabile - o in quella aperta ad ogni possibile forma di conoscenza (direi, a questo punto, polimaniaca) di Ismaele, dunque tutta e sempre da scrivere e riscrivere, la natura dell’uomo, affinché sotto il suo impulso un grande libro, novello Libro dei Libri, si componga e prenda forma, arrivando fino ai nostri giorni nelle riconosciute vesti di capolavoro della letteratura mondiale, uno dei maggiori di tutti i tempi.
Affinché tutto questo si compia è necessario il viaggio di Ismaele/Melville, è necessario cioè che l’acqua della meditazione si faccia ‘mare’ e consenta alla baleniera su cui ci si è imbarcati di salpare e prendere il largo. È altresì necessario che l’imbarcazione-mondo, oltre ai più umili marinai, abbia un capitano che fissi la meta e perciò la rotta, qualcuno che abbia cioè cognizione del significato di un viaggio e non si debiliti quando il mare dislaga in oceano, né dopo, quando l’oceano spalanca i suoi abissi.
Ecco cosa: un viaggio ha senso solo se conta di attraversare abissi, oscurità, terrori.
È nell’approccio rispetto all’Ignoto (con tutte le sue presunte potenze buie) che si può apprezzare la differenza che corre tra uomo e uomo. E la differenza dei comportamenti umani di fronte ai pericoli finanche mostruosi non è rinvenibile solo nella banale antinomia coraggioso/vigliacco (ché l’Ignoto è fonte di paura ma al tempo stesso anche oggetto di desiderio) bensì da cogliere più sottilmente tra chi, quei pericoli, li affronta di petto, da pazzo monomaniaco che per domare l’Indomabile, contenere l’Incontenibile, addomesticare l’Incoercibile, prevalere sull’Invincibile, per, in definitiva, impadronirsi della Verità, ripone cieca fiducia esclusivamente in se stesso, con un calcolo sballato sulle sue proprie forze (Ahab), e chi, invece, crede che la medesima Verità sia accostabile solo per approssimazione, o meglio ancora, prima che alla Verità, crede, quest’ultimo, prevalentemente nella Realtà, ritenendo suo compito quello di specularla (esercitare su di essa un potere specchiante) al meglio delle sue possibilità intellettuali.
La Verità dunque come esito del processo di conoscenza della Realtà. E due uomini che affrontano questa Realtà in modo diverso.
“È un uomo possente, senza dio e divino […] è stato all’università e tra i cannibali […] in passato Ahab fu un re coronato”
Il primo, Ahab, si rivela, nella presunzione aggressiva di poterla afferrare nella sua totalità/integrità dandole una caccia forsennata, un ideologo (il fissatore della rotta, colui che in nome di un’astrazione procede secondo metodi di costrizione della realtà/balena/Verità entro schemi solo apparentemente cartesiani). Fallimentare come tutti gli ideologi della Totalità, non può che votarsi allo scacco tremendo di veder svanire il fine, scoprire l’assenza di meta ovvero l’insensatezza e la follia del viaggio, se ciò che di esso rimane sono solo i clamori terrificanti di una battaglia letteralmente mostruosa. Il secondo invece può salvarsi perché, come s’è detto, presuppone in tempo utile l’assoluta irrealizzabilità dell’impresa di pervenire alla conquista della Verità, piuttosto assume come possibili, poi probabili e anzi certi, gli scarti della Balena/Storia/Verità dai percorsi presuntuosamente teorizzati dall’uomo cacciatore e ideologo. Il tutto, riferito a Ismaele/Melville, senza che si sia, per questo, mai rinunciato al tentativo di ‘penetrazione’ della Realtà; da qui, da questo atteggiamento, gli aggiramenti e le approssimazioni di Verità, la speculazione che si fa filosofica, le digressioni enciclopediche sugli innumerevoli risvolti del medesimo viaggio che diventano altrettanti ‘pezzi’ (peraltro di comprovata bravura) di rappresentazione Realtà; un modo, questo, che consente di distrarsi dalla vertigine dell’Ignoto – poiché l’Ignoto è lo scrigno della verità (immagine che ci viene suggerita anche dal Pequod che corre sul mare nella notte tenebrosa con la sua infuocata ‘raffineria’ che lavora a pieno ritmo: l’oscurità che racchiude e perfettamente nasconde la ‘vampa’ di una nave) - rimanendo però estremamente concentrati su ogni singolo aspetto del medesimo viaggio.
“Dubbi su tutte le cose terrestri e intuizioni di alcune di quelle celesti; una combinazione che non produce né un credente né un infedele, ma un uomo che considera entrambi con occhio imparziale.”
È lui infatti, Ismaele/Melville, a scrivere questo libro monumentale, non procedendo per trama, intreccio e plot ma per pazzesca stratificazione di altri libri, dotte dissertazioni, studi comparati, monologhi e dialoghi teatrali di primissimo ordine e di marca shakespeariana, trattazioni di Storia, scienze naturali, filosofia, sociologia e antropologia unite in una megagiostra senza precedenti. Dalla formidabile testa al mistico spruzzo alla potentissima coda del mastodonte; dal suo preziosissimo tesoro di spermaceti al suo scheletro (il quale curiosamente non risulta essere il calco della sua forma esteriore); dall’etimo di whale alle differenze tra le varie specie di balene (la balenottera, la megattera, la balena franca, e infine il più nobile di tutti, lo straordinario capodoglio); dall’elenco delle ricorrenze di questo essere metafisico in tutte le più grandi storie tramandateci dall’uomo – la Bibbia sopra tutte – sin dal suo primo apparire sull’orbe terracqueo all’illustrazione dettagliata della vita quotidiana dell’equipaggio di una baleniera, dal funzionamento della raffineria in cui si scioglie il grasso di balena a quello della falegnameria e della fucina dove si forgiano lance e punte pei ramponieri; dalla petulante difesa d’ufficio della attività di caccia alla balena, all’elevazione agli altari dello stesso baleniere in quanto impegnato, addirittura, nel più nobile dei cimenti; dalla minuta descrizione del calafatare – mi strugge, non so bene perché, questa specie di pronto soccorso continuo applicato alle ’sofferenze’ di uno scafo – alle trappole mortali che sanno diventare, per il marinaio, le lenze chilometriche una volta ‘agganciato’ il pesce; ebbene, tutto è occasione, per Ismaele/Melville, di approfondimento, studio ed esposizione. Niente scampa alla dissezione dell’autore. Perché
“un qualche significato è nascosto in tutte le cose, altrimenti valgono ben poco, e il mondo intero è solo un vuoto simbolo, buono da vendere a carrettate per riempire qualche pantano della Via Lattea.“
Abbiamo visto l’Ismaele che per meglio comprendere non s’affretta a giudicare, e l’Ahab prometeico che sfida gli dei in grandezza (crede di poter realizzare una profezia concepita e pronunciata da egli stesso, cosa che neppure agli dei è mai riuscita), convinto di poter annientare la Malvagità, di cui Moby Dick sarebbe incarnazione. E siamo, infatti al termine terzo: la Balena Bianca. L’allegoria del Male, a proposito di Moby Dick, adesso è chiaro, vale solo per Ahab, colui che dalla mandibola del gigantesco pesce è stato orrendamente mutilato. Una visione così chiusa può appartenere, anche a buon diritto (dunque in senso tragico), solo a chi per causa della balena ha patito atroci sofferenze. Rispetto a Ismaele invece il cetaceo, la sua vastissima fronte dalle infinite possibilità semantiche, la Balena Bianca, è l’esatto corrispondente del foglio bianco dalle infinite possibilità semantiche, il piano di lavoro di Melville su cui si riflette e rappresenta la Realtà.
La balena “poi si girò più volte su stessa come un mondo che svanisce”.
23 Gen 2013 Nicola
Tu Nicola hai paura di Moby Dick?
se penso al capodoglio così esaustivamente rappresentato da Melville - in vita, in azione, e in morte, scuoiato e scomposto - bene, allora devo dire che l’ho amato (nel libro Moby Dick è un nome da intendersi al maschile) come un credente sincero può amare il suo dio, al contempo ho detestato Ahab perché desideravo che lo lasciasse in pace. se invece la tua domanda, come credo, allude alla paura di ciò che è enigmatico, spaventosamente enigmatico, e enorme (enorme nell’accezione di qualcosa che è fuori dalla nostra portata), ammetto l’ambivalenza del mio sentimento e ribadisco: di ciò che è sconosciuto sperimento terrore ma anche desiderio.