il delitto dei giusti
Una fiaba tragica di Giuseppe Giglio
[questa recensione è stata pubblicata su Pagine dal Sud (aprile/giugno 2008), rivista trimestrale di politica, cultura e letteratura edita a Ragusa a cura del Centro Studi Feliciano Rossitto]
In una splendida valle, un paradiso incastonato tra le montagne del Sud-Est della Francia, un vecchio contadino sdipana i fili della memoria. E racconta della vita di un piccolo borgo di quella vallata, nella regione del Maubert, in cui la stirpe degli Arnal – che da diverse generazioni instancabilmente lavora nei boschi, nei pascoli e nelle piantagioni - detiene un’indiscussa reggenza morale. Un dominio sugli uomini che da sempre pare nutrito dell’esercizio di virtù legate alle quotidiane necessità, senza eroismi e magnificenze, fin quasi a conferire il prestigio del soprannaturale alla reputazione degli Arnal (una famiglia in cui «matrimoni tra cugini riportavano in seno al gruppo chi se n’era temporaneamente allontanato»), a comporre un’epopea familiare dell’onestà e della giustizia. Il vecchio Arnal è l’imponente patriarca: membro di spicco del consiglio comunale per oltre quarant’anni, Consigliere – così lo chiamano i valligiani - conta più del sindaco e del parroco. Tutti si rivolgono a lui per un consiglio, e in tanti ogni domenica febbrilmente lo attendono, depositario di verità, infallibile oracolo.
In quell’oasi di serenità, cui una natura di prepotente bellezza fa da fascinoso controcanto, Maurice e Clémence Arnal, fratello e sorella, condividono ogni gioco, ogni scoperta. E i primi brividi di una sensualità prepotente. Bella, sorda e selvatica, affascinata dai prati, dagli alveari e dai boschi, Clémence se ne sta «sdraiata sull’erba vecchia raspata dalla neve, la pancia sulla terra riscaldata, la testa nelle braccia piegate, le cosce stese e i polpacci che battevano l’aria con moto alterno». Fino a quando indecifrabili vertigini d’infanzia improvvisamente esplodono, e rendono il corpo di Clémence - «fin troppo consapevole di essere isolato dai rumori del mondo» - «sensibile a tutti i fremiti della vita», fino alle estreme conseguenze. Ma quell’amore proibito scatena una tremenda reazione della famiglia, che giunge a compiere un gesto orribile, una meschina congiura della vita contro la vita: il delitto dei giusti.
Reca questo titolo uno dei più significativi libri di André Chamson (1900-1983)), edito per la prima volta nel 1928 (titolo originale: Le crime des justes), uscito in Italia nel 1947 nella Medusa, la prestigiosa collana mondadoriana, e ora finalmente riproposto da Marcos y Marcos, a rendere il giusto omaggio ad un intellettuale - amico di Gide, Malraux e Valéry, tra i maggiori narratori del Novecento francese - quasi dimenticato nel nostro Paese. La voce narrante, alter ego dello scrittore, sembra riscoprire un vecchio capriccio di Gesualdo Bufalino: «Raccontare un ricordo lo fa diventare una fiaba», con felice riferimento al potere ludico della memoria, che guida lo scrittore all’artificio dell’invenzione. Ma se Il delitto dei giusti ha della fiaba l’agilità e la leggerezza, nel libro dominano i toni dell’apologo. E un amore incestuoso appena accennato – uno schizzo vergato con rapide ma pregnanti pennellate (non la morbosa e affascinante profondità dell’amore tra il raffinato “dilettante” Ulrich e sua sorella Agate, per esempio, ne L’uomo senza qualità di Musil; e neanche l’incesto, tutto giocato sull’ambiguità, del landolfiano Un amore del nostro tempo) - diviene agile manovella per sollevare un pesante velario sulle debolezze, le ipocrisie e i perbenismi di una piccola comunità dell’inizio del secolo scorso, ma che molto somiglia a tanta odierna società, sempre più povera della moneta più preziosa: quella del vivere.
Nessun delitto può appartenere ad un uomo giusto; e neanche ad un uomo eccezionale. E invece Consigliere – per difendere una reputazione su cui il narratore lascia intanto intravedere nere ombre, per coprire uno scandalo che li avrebbe travolti – pare avocare a sé e alla famiglia una sorta di «diritto al delitto», come il dostoevskijano Raskol’nikov. Ma Consigliere non ha affatto la statura di quell’enorme personaggio, e neanche la tragica irresoluzione di Lafcadio, il gidiano eroe dell’atto gratuito. È soltanto un uomo schiavo della propria mania di grandezza, con cui il tempo (il destino? il fato?) si diverte a giocare, quasi a conferire vivida sostanza ad un aforisma di Eraclito l’Oscuro: «Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo». E il finale del racconto sembra andare proprio in questa direzione.
«Un libro sta tutto in come finisce. La fine deve essere spaventosa. E ci deve essere un re», disse una volta un oracolante contadino (che non sapeva leggere) a Leonardo Sciascia. E lo scrittore subito notò che quel vecchio agricoltore stava reinventando la tragedia greca, «quella che i suoi pari di più che duemila anni addietro chiedevano ad Eschilo e Sofocle, che ascoltavano negli anfiteatri tra gli ulivi, di fronte al mare». La fine de Il delitto dei giusti è spaventosa. E c’è anche il re: nudo, ma sempre ammantato della sua orribile regalità. Al lettore la catarsi.
Giuseppe Giglio
25 Set 2008 Nicola
Ma se questa opera, ancorché preconizzare, allegorizza tanta “odierna società” mi viene allora da porgere un quesito (premettendo che non conosco e non possiedo il libro in questione): contiene questo apologo un momento di ripristino di giustizia? Dice: ma quale giustizia? Di chi? Rispetto a cosa? Conrodomanda: una giustizia misurata su quella moneta che socondo te scarseggia: la moneta del vivere, quella che rimette in circolazione almeno la profondità del vivere, la penetrazione del pensiero, direi il potere del pensiero elaborante. E se questa storia possiede questo momento, è in grado di lasciarci la speranza (oggi si porta molto l’espressione ‘ragionevole certezza’) che sbocci anche in questa reale, deplorevole decadenza? E’ in grado di rassicurarci che l’impegno di pochi profuso oggi (epoca del ‘pensiero sbrigativo’, ho letto da qualche parte) diventi anche solo un piccolo semino che non verrà spazzato via e dunque con una futura possibiltà di germinare?
Non c’è nessun ripristino della giustizia, di nessuna giustizia, tantomeno di quella giustizia misurata sulla “moneta del vivere” di cui scrivi… Per non parlare poi della giustizia dei tribunali, di cui si intravedono pesanti ombre, allungate su tardivi, se non inutili, colpi di coda. Mi viene in mente una frase di Sciascia (durante una delle sue rare apparizioni in TV, all’inizio degli anni Ottanta), circa un vecchio contadino di Berlino, inaspettatamente risarcito da un giudice, per un sopruso subito da gente di grado sociale molto più alto. Alla fine il contadino commentò, soddisfatto: “Ci sono ancora dei giudici, a Berlino”. E Sciascia subito volse quell’affermazione in angosciosa domanda: “Ci sono ancora dei giudici, in Italia?”… Non posso raccontarti come va a finire: ti dico soltanto che proprio un senso di beffarda irredimibilità trasuda dalle righe finali, ma - come scrivevo nella recensione - al lettore resta la catarsi. Proprio come nella tragedia greca. E quando un libro giunge a questo, beh… direi che c’è più che una ragionevole certezza che qualche semino possa attechire e germinare anche nel deserto.
Ma noi ostiniamoci. Quel che unicamente conta è la dedizione. E dentro l’ abnegazione poi: sperare contra spem. Quando le cose del mondo sebrano minacciarci da ogni lato pure noi si continuerà a sperare. Perché la speranza si butta via sotto lo sciacquone come la cacca. Perché sperare non è altro che un istinto inestinguibile, l’espletamento di un bisogno fisiologico. Oggi fa schifo, domani farà lo stesso e così dopodomani. Non per questo smetteremo di sperare che le cose possano migliorare.
Soren: come la mettiamo con me che da anni, instancabilmente, pattuglio il crinale tra euforia e disperazione e con tanti miei illustri predecessori che, pendolando tra noia e morte, tra filosofia e poesia e letteratura tout court, hanno raggiunto esiti e vertici di disperazione e nichilismo oramai imprescindibilili per chiunque voglia approfondire la conoscenza e la storia della conoscenza dell’uomo?
Nicola: il regno di nihil è un luogo plumbeo e malfamato. Un consiglio sororale è quello di lasciar perdere questi onanismi di risulta. Hai già -5 per occhio, stai rischiando la maculopatia degenerativa. Sai dove trovare la Luce dentro di te. Dentro di te e al contempo fuori di noi, sopra di noi. Un disegno intelligente che non puoi mortificare col tuo tratto monocromatico e disperante.
A Soren perché Christina intenda: SPERARE CONTRA SPERM.
In alternativa: SPERMARE CONTRA SPEM.
E alle volte penso proprio che non ci sia speranza. Mi metto a scrivere perché penso che farlo sia una forma di strenuo combattimento e incessante con la realtà. Mi spiego: spesso mi capita (mi folgora e mortifica) di osservare la maledetta dissociazione tra le parole e la realtà che quelle parole vorrebbero descrivere. Spesso mi capita di vedere la realtà che si sottrae alla possibilità di vedersi descritta, verbalizzata, nominata, formulata. Banalmente sarebbe quel “lingua mortal non dice…” di LEOPARDIANA memoria. Eppure si scrive per provarsi a farlo. Eppur si scrive. Imbattendosi sempre nella ribellione del puro dato di realtà al linguaggio che lo vuole soggiogare. E’ per questo che si scrive, perché si serba in animo il desiderio di ritrovarsi tra le mani il potere del linguaggio, quello che finalmente è in grado di nominare e significare. Potere talmente allettante da provocarsi (provocare a se stesso) assalti inverecondi, ai quali assistiamo in questa epoca, per l’accaparramento dei linguaggi dominanti.
Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione dello scrivere perfetto: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane (pongo una relazione etica tra me che significo e significato). Inutile dire che questa battaglia risulta per ora persa e che gli esiti del linguaggio (per quanto riguarda me) designano al massimo epifenomeni, mai la cosalità, mai la pura biologia, mai la nudità… come invece probabilmente è riuscito a fare Chamson con la nudità del suo re. Inutile dire che per ora metto agli atti l’autonomia del significato dalle intenzioni del significante. E con questo faccio da contrappunto alla impostazione critica di Giuseppe Giglio, che so essere di segno opposto.
A proposito di autonomia del significato dalle intenzioni del significante… L’ultimo commento di Nicola ha tinte piuttosto fosche, pur nella giustezza di certe proposizioni. Vorrei allora provare a far vedere qualcosa di diverso. Comincio con una citazione: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra», dice il Principe di Salina a Chevalley, nel “Gattopardo”.
È un giudizio irritante. Ma in questi giorni mi è avvenuto di ricordarlo e ripensarlo; e di coglierne, al di là del fatalismo, al di là del dispetto e del disprezzo, l’effettuale verità. Ancor più effettuale se riferito a questa nostra triste stagione. Soprattutto politica. E direi se ne possa cogliere un riflesso anche ne “Il delitto dei giusti”: dove un antigattopardo come Consigliere si crede, lui sì, dall’alto del suo trono che odora di morte, il sale della terra!
Ora, il fatto stesso che io stia scrivendo ciò (ma potrebbe trattarsi di chiunque altro, purché eserciti criticamente il pensiero) - e con un preciso riferimento alla letteratura, e al libro di Chamson in particolare -, significa (e qui il significante combacia perfettamente con il significato) che scrivere serve. E tanto. E’ vero che - ormai da parecchi anni si impone sempre più prepotentemente il linguaggio del Potere (Pasolini docet) - mistificante e mistificatorio, deviante e oscuro - ma è anche vero che vi è una certa resistenza. Ancor più in letteratura, dove - superate ormai le barriere del realismo - si può anche non riscontrare perfetta coincidenza tra significante e significato, ma nella buona letteratura ciò non è motivo di preoccupazione. Scriveva Corrado Alvaro: “Un’arte non è moderna perché riproduce gli avvenimenti del tempo, ma perché riecheggia lo spirito del tempo”. E Alvaro ha riecheggiato senz’altro lo spirito del suo tempo: difficile, oscuro, greve, molto simile al nostro, mantenendo sempre lucido il suo “specchio storto” (è il titolo di una sua famosa rubrica su “Il Mondo”, tra il 1922 e il 1925), uno specchio non ligio alle ideologie e alle mode, ma coraggiosamente proteso ad afferrare le verità nascoste, metafora della sua arte letteraria e giornalistica. E mi piace immaginare un colloquio del grande scrittore calabrese con un altro suo collega, altrettanto grande: Gesulado Bufalino, sul ruolo dello scrittore. Come tra due vecchi amici, che non si vedono da tanto, e che provano ad analizzare il loro tempo. Gli avrebbe risposto, Bufalino: “Uno scrittore non è mai innocente”… E Alvaro, di rimando: “egli [lo scrittore] rispecchia il suo tempo. Se egli è se stesso, veramente, egli è attuale, e solo così può lavorare utilmente alla formazione della sua società, intuirla e rispecchiarla”.
Beh, direi che - malgrado tutto, malgrado si assista ad una continua e a volte feroce separazione dei significati dai loro significanti (specie in TV, dove più che accaparrarsi i linguaggi dominanti li si crea! Sono poi tristi geometri, sempre della tv, o sprovveduti teleutenti a fare a gara per accapararsene qualche disgustoso lacerto) - uno scrittore, o un critico letterario, non può considerare persa la propria battaglia: finché è possibile scrivere, e finché la parola letteraria genera nuove realtà anche per un solo lettore, finché gli rende abitabili nuovi mondi, la battaglia non è mai persa. E’ successo con “Il delitto dei giusti”. E probabilmente è successo anche con “Racconti a vita bassa”. Coraggio, dunque. Andiamo avanti!
Recensione bella e penetrante. Non ho letto il libro per cui non posso dire altro, ma mi pare che si collochi davvero sul sentiero della tragedia greca, con l’ironia, per l’appunto tragica, che segna il destino dei protagonisti, artefici e vittime da un lato di una endofilia originariamente finalizzata al potere e dall’altro da un amore che- in natura- non conosce i limiti della cultura.
Giuseppe: fai bene a correggermi sull’accaparramento dei linguaggi e infatti avrei elaborato questo pensiero che intitolo MAGNIFICHE SORTI E REGRESSIVE: scendendo gradini su gradini smentiamo l’evoluzione della specie. Quel he era già un desolante ‘uomo dalle idee ricevute’ lascia il passo a ‘l’uomo che aspetta di ricevere le parole’. Ma dire “l’uomo” è inesatto. Mettetela pure in politica ma per me sono ‘i molti’ che aspettano di ricevere le parole dai ‘pochi’ che dopo averle brevettate le detengono.
Essere padroni delle parole: ne ha parlato uno scrittore/magistrato barese su qualche numero fa dell’Espresso. Non posso dare un giudizio di valore sullo scrittore poiché non ho mai letto niente di suo (anche se questo già esprime una mia posizione visto che ho scelto di leggere e acquistare altri libri) tuttavia trovo limpida e ficcante la sua osservazione. Sottoscrivo.
L’uomo, anzi i molti come “clienti” che non hanno più bisogno di un vocabolario; un pallottoliere basta e avanza. Dare e avere. Non devono sapere altro perché la sintassi la declinano i pochi imbonitori al comando. A loro sì che serve un lessico e un discorso per intortare, impestare, divagare, manipolare, modellare.
Mi sa che si dovrà passare dai racconti di bassa vita ai racconti ad alto voltaggio, parole a volteggio più alto. E forse non ci vorrà molto dato il prevalere del ‘terra terra’ attuale.
Ah, accaparrarsi quei disgustosi lacerti… Quanto è vero e stomachevole!
Vi sono parole che, pur non avendo un ampio campo semantico, ampio spazio offrono all’immaginazione, alla fantasia. Una di queste è “volteggio”, per riprendere il gioco di parole di Nicola. E continuando a giocare con i sensi che al volteggio, al volteggiare, appartengono, non posso non notare che di parole di alto volteggio ce ne sono già troppe… è il trionfo della moda, anzi delle mode, del volteggiare, delle più spericolate e incredibili acrobazie. Non per alimentare il fuoco dell’arte, ma per imbastire sconci spettacoli di terz’ordine o, quando va meglio, passabili prodotti di consumo. Nell’un caso e nell’altro - rimanendo nell’ambito letterario - da certa critica (ma si può definirla tale?) prontamente spacciati per capolavori. Un esempio? Antonio D’Orrico, fecondo (con cadenza mensile, più o meno) e talentuoso scopritore del più grande scrittore vivente di turno, a cominciare da Giorgio Faletti, con tutto il rispetto per Faletti, e per ciò che ha scritto; o di straodinari casi come “il Nabokov dei nostri giorni”. Allora: se di parole ad alto voltaggio c’è un gran bisogno, attenzione alle altezze verso cui ci trascina il gran volteggiare di questi nostri allegri tempi. Più si va in alto e più fa freddo. Ed è facile buscarsi qualche malanno, se non ci si copre a dovere.