C’era per esempio la sua vicina di casa, Beatrice, sua coetanea. Andavano insieme a messa la domenica pomeriggio, insieme ai funerali e insieme ai consòli, i banchetti che ai funerali facevano seguito come prosecuzione del lutto con altri mezzi. Soprattutto questi erano i momenti dove le due amiche si esaltavano nell’abnegazione, straordinariamente solerti nel tributo delle loro vivande, con un’inondazione di derrate alimentari, vere leccornie preparate nelle loro cucine, che se non fossero state prima consumate e sontuosamente digerite sarebbero state da monumentalizzare come capi d’opera della gastronomia di levante; specializzate nelle recchietiedde alla sangiuannine, con cime di rape e acciuga soffritta in un filofilo d’olio, superperite nel calzone di cipolla e nelle olive nere soffritte. Tutto questo anche quando non conoscevano poi così bene la persona scomparsa. Loro erano lì, negli interni costernati di tutto un paese. Esserci era la loro missione. Spizzicare le olive il loro piacere. Le stesse olive, in calce o in acqua, che loro avevano portato nelle case dei familiari affranti e di cui andavano talmente golose da tenerne sempre una scorta per sé, in un sacchetto di plastica trasparente che si portavano sempre dietro, nascosto e immanente nelle loro imponderabili sfoglie di vesti. Beatrice e Innocenza erano lì che surchiavano drupe, come a voler cavare qualcosa anche dal nuzzo, con sorprendente presenzialismo - sorprendente non per il loro protagonismo, ormai famigerato, ma per la resistenza alla fatica - fino all’ultimo momento utile, con uno sfruttamento intensivo del tempo di durata del conzo allo scopo di osservare bene le facce dei parenti del fresco dipartito, ascoltando gli altri parlare, prestando la massima attenzione, frugando e rovistando cogli occhi le pene degli altri finché non avessero raccolto finalmente gli elementi utili alla loro vita intrisa di malignità, arricchendo ogni volta un già formidabile campionario di aneddoti, risvolti e sfumature riguardanti i vari intimi e vissuti privati. Sovente commentavano le rivelazioni, gli scoop e i retroscena di cui erano messe a parte con un “meh, e basta!”, una interiezione che nel loro linguaggio non aveva nulla di impositivo o di proibitivo ma anzi, voleva significare: caspiterina, accidenti, minchia e porcazozza!. Un’espressione che sapeva molto di finta partecipazione alle ambasce del mondo e che voleva dissimulare invece la loro avidità di conoscenza di accadimenti, situazioni, cose e persone che pure non le dovevano riguardare. Innocenza, in special modo, gongolava allora. E per qualche istante non si sarebbe detto che sorrideva ma che ninnasse il suo ronciglio, dardeggiando relativa lama di luce.


Innocenza, gongolando, seppelliva carcasse.

Ora seppelliva proprio la sua amica Beatrice.

C’era questo infatti, che da qualche tempo proprio Beatrice era costretta in un letto di morte. Da qualche tempo Beatrice si contorceva in un divano-letto di morte, per la precisione. Le avevano già asportato tutto, con eradicamento da disperazione: le’ndrame, cioè le entraglie, le entragne, le interiora, le trame interne. Ma non erano riusciti a strapparle il male. Un male di quelli che si definivano incontrovertibili. Beatrice se ne andava di bel passo verso il nulla eterno, che per alcuni sarebbe poi l’aldilà: luogo, questo, scisso in due partizioni: un solarium sempiterno per bronzarsi del colorito di dio, e un girone infernale dove si è condannati al tormento del forcone proletario.