“L’antica brama di chi scrive”. Il lavoro integrale su Nuovi Tegumenti. Si ringrazia madame Beatrice Blasonai per la gentile ospitalità
Prima e dopo che un corpo a corpo tra l’avvenente (d’avvenenza pseudoceltica e “piacevolmente scimmiesca”) professore arrivato dall’Europa negli Stati Uniti e la bramata dodicenne indigena di Ramsdale, Lolita è una lotta all’arma bianca tra lo scrittore deprivato della sua lingua madre e la giovane, già di per sé molto neo, lingua americana, la quale poi, allo straniero che tenti di abitarla e possederla, finisce per risultare anche più acerba e prepubere. Lo suggerisce lo stesso Nabokov in un bellissimo commento al libro, laddove peraltro si misura, tanto brevemente quanto incisivamente, con i temi universali della letteratura: erotismo e sensualità (anche se dovremmo più appropriatamente oggi leggere l’endiadi come erotismo e pornografia, con l’erotismo al posto della sensualità e la pornografia al posto dell’erotismo), “realtà” e fantasia individuale, realismo e simbolismi di portata psicanalitica, morale e godimento estetico, moralismo e norma dell’arte. Certo, la carnalità innominabile, eppure così magistralmente nominata, che corre tra Humbert Humbert e la poco più che bambina Dolores Haze/Dolly/Lolita/Lo (talora anche ma Carmen), deve essere letta per quella che è, ossia l’oggetto di una storia straziante, la storia di un orrendo sopruso perpetrato da un malfattore ai danni di una fanciulla. Questo va detto senza mezzi termini e la trama, al dunque, questo è. Eppure, che sprofondo nell’arte!, quanta bellezza insostenibile di tormentato amore, quanta “amorosa oscurità” si sprigiona dalle pagine di questo libro.
La storia di un individuo mostruoso rattratto nel suo “buio misericordioso”, un elemento condiviso con l’incessante fantasma di Lolita, non con la giovanetta in carne e ossa, perché con questa egli si gode la luce del giorno, e perché la piccola e a volte banale, volgare, accidiosa Lolita non sa decifrare “gli abominevoli geroglifici della sua lussuria”, dunque non con questa infelice creatura nella “sua prima adolescenza di puledra”, ma col suo spettro, l’ossesso professor Humbert ripara nel suo inferno.
“D’un tratto, signori della giuria, come un sole distante e terribile sentii albeggiare (sotto la smorfia che mi deformava la bocca) un ghigno dostoevskiano.”
Eppure, c’è ancora da intendersi sull’orrendo sopruso, e diciamo pure obbrobrioso crimine.
Quel che Nabokov mette in scena non è un crimine sessuale che si consuma e magari si reitera ad opera di un maniaco disgraziato, ma una strutturatissima passione per quelle che nel libro vengono chiamate ninfette, un culto da raffinato intenditore, come potrebbe essere quello di un dotto antiquario o di un profondo studioso di storia dell’arte, o ancora, di un appassionato entomologo. E proprio come lo specialista che ama la sua disciplina (al punto da considerarla arte superba) non cerca altro che un capolavoro di riferimento a cui sacrificare l’intera sua esistenza (difatti, in questi casi l’opera d’arte diventa ossessione, concubina ossessione) con lo scopo di penetrarne il mistero e ambendo all’impresa vitale di rivelare al mondo tale mistero in tutta la sua bruciante bellezza, così Humbert, voce narrante, imbattutosi nella più meravigliosa di tutte le ninfette possibili ne fa una divinità, “un demone immortale travestito da bambina”, da ringraziare con grida lancinanti e ululati. Quando Lolita “nettareo biancore” irrompe nella storia, infatti, scompare la mania nel suo aspetto più patologico ed entrano in gioco altri fattori (ingredienti di un grande romanzo) ma soprattutto entra in gioco la natura castrante dell’amore totale. Non è un caso che solo verso l’epilogo della vicenda narrata, Humbert realizzi finalmente che cosa gli aveva sempre evocato la figura di Lo: la fulva Venere di Botticelli.
Il criminoso disegno del maturo e anche mite professore arrivato d’oltreoceano non può in alcun modo essere assimilato alla necessità di soddisfare pulsioni criptopedofile – il professor Humbert non commetterebbe mai uno stupro che, tra le oltre cose, troverebbe di una depravazione sommamente antiestetica -, ma viene piuttosto a coincidere con una incontenibile furiosa speranza d’amore, “arcobaleni di fango ribollente … simboli della mia passione”, pronta a negare l’infanzia a una bambina (”derubarla del suo giglio”) con distruttività non diversa da quella che abbiamo abbondantemente imparato a conoscere nei più quotidiani casi in cui l’uomo o la donna richiede/impone l’annientamento dell’identità del proprio partner; furia di speranzoso amore, in nome del quale dare via anni e anni di vita, spianare le strade d’America, “le liriche, epiche, tragiche ma mai arcadiche plaghe d’America”, finendo al contempo per annichilire e distruggere l’oggetto d’amore. Se si vuole, il delitto è anche più indicibilmente mostruoso. Eppure, la narrazione di questa abiezione enormemente innalza Lolita e la consegna a futura memoria.
Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile, brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’amais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller.
La si vede trascorrere, Lolita, dalla maliziosa consapevolezza erotica alla mocciosaggine esasperante alla triste coscienza dell’inganno subito e, di nuovo, alla scaltrezza attiva dell’inganno da perpetrare con la complicità del doppio dello scrittore Humbert, il drammaturgo Quilty.
L’attrazione tra i due, alla deriva verso una parodia di incesto (in quanto il diabolico Humbert aveva programmaticamente sposato la madre di Lolita, Charlotte), non può che schiantarsi contro un duro nulla (”l’escrescenza dura, contorta, teleologica”). Nel frattempo però Nabokov ha decretato la prevalenza degli Dei della semantica sui filistei della patta ermetica così che uno dei rapporti più torbidi che si possa immaginare non conosce mai, nelle pagine di questo libro, una sconcezza, mai una turpitudine, mai una violazione oscena che sia tacciabile come insopportabile violazione delle persone. Il tasso di letterarietà è altissimo e pertanto, si deve ripetere, la narrazione di questa abiezione, enormemente, innalza Lolita e la consegna a futura memoria.
Può essere utile l’accostamento con L’incantatore, racconto scritto da Nabokov in lingua russa nel ‘39, quindici anni prima di Lolita. Utile non per congetturare sulla più o meno dubbia moralità dell’autore. Ma per seguire un percorso che resta solo e squisitamente artistico. Un medesimo soggetto accomuna le due opere ed è la penna di Nabokov a illustrare L’incantatore come il primo, piccolo palpito di Lolita. Il doloroso spasmo di assimilazione estetica che infradicia Humbert mentre contempla la plasticità del tennis di Lolita (”nell’arabesco dei suoi movimenti”) è lo stesso provato dal quarantenne senza nome di fronte allo spettacolo della bambina che pattina. Solo, ne L’incantatore, il motivo della pedofilia è praticamente dichiarato, tanto più evidente in quanto inversamente proporzionale alla figuretta priva di sessualità della “ragazzina” dai tratti infantili molto più marcati che in Lolita. Tuttavia, i suoi buoni lettori converranno che si tratta di “pura invenzione artistica”. Ma a parte ciò, è l’evoluzione della scrittura nabokoviana che rileva: alla bambina del ‘39 spunteranno la malizia, la consapevolezza e la carica erotica di Dolores Haze a misura del racconto a cui spuntano le ali del romanzo. Questo solo è davvero interessante e, anzi, sommamente apprezzabile. Non certi psicologismi (”tutto il racket psicanalitico”) da cui Nabokov rifugge e invita a rifuggire in nome della sua antica faida con i “vudù freudiani”. Leggere questi suoi libri può essere esperienza di valore solo se si è in grado di cogliere, flaubertianamente, ben altro: la sapienza con cui si arricchisce di indizi il testo, la precisione degli universi, la compattezza artistica, l’intima coerenza che si svolge a partire da determinati presupposti.
L’attrazione che l’immaturità esercita su di me potrebbe stare non tanto nella bellezza limpida, pura, giovane e proibita di una bambina fiabesca, quanto dalla sicurezza datami da una situazione in cui infinite imperfezioni colmano l’abisso fra il poco che è dato e il molto che è promesso – il grande, irraggiungibile grigio-rosa. Mes fenêtres.”
Lo scrittore diventa tale, in pienezza e maturità, quando il suo sentimento fiducioso e predolorico è definitivamente sepolto in un passato che non ha alcuna chance di riaffiorare.
Orbene, Nabokov ha adorato “ogni poro e ogni follicolo” della pubescente lingua a cui stava dichiarando il suo amore. Peraltro, non esattamente la lingua inglese, ma la Lingua. Quella che gli serviva in quel momento e che gli è sempre servita per scrivere, quella che si ripresenta sempre vergine, tormentosamente vergine,come ogni scrittore sa, all’inizio di una storia. Quella che fa disperare e toglie il sonno, che allatta e che si allatta, cresce e stratifica, si mestrua e poi si insemina, e poi si riproduce, sorride e poi pian piano sfiorisce e perde tutta la sua luce e … infine … diventa “l’ombra piccola e congelata di se stessa”.
Determinazioni e riflessione entro sé dell’essenza artstica
Kubrick - complice il divino Sellers che sul set fa quello che gli pare - scorge in Lolita il motivo della tensione linguistica che si fa ossessione e poi vero e proprio incubo di inappropriabilità, e perciò si mette a tirare allo spasimo, e con ragione da vendere, la figura di Clare Quilty, il drammaturgo che fa impazzire Humbert, la proiezione irraggiungibile del frustrato professore europeo. Tanto che per prevalere su quello, Humbert sarà costretto ad andare per le spicce, di buone rivoltellate, lui seduttore sofistico.
Peter Sellers quasi quasi doveva fare solo un cameo ma conquistandosi la parte a suon di numeri da fuoriclasse, asseconda Kubrick (o se lo trascina, che importa) e il film è nell’opera. Tra i due si forma come una specie di precipitato di genio e … niente più Lolita … niente più scabrosità, né mostri né pedofilia.
Clare Quilty, protagonista assoluto con i suoi travestimenti, la sua trama barocco-espressionista come la sua magione, onnipresente, se getta la maschera dell’istrione ti angoscia nella sua declinazione di uomo senza volto, persecutore diabolicamente ingegnoso non nelle vesti del giustiziere/moralizzatore ma in quelle del talento maggiormente dotato che giustamente pretende la propria affermazione (sulla mediocrità e, inevitabilmente, nello spazio del film), restando giustiziato dalla paranoia. La partita a scacchi, l’enigma, lo specchio, il doppio. Anche se stilemi risaputi e abusati in esercizi interpretativi di ogni risma, Lolita è sempre stato un magistrale approfondimento artistico di questi. La dodicenne è solo il criterio di riduzione a unità delle scissioni che ci tormentano. Il medium.
Lolita medium significa Lolita come punto di contatto tra la finitezza singolare del professor Humbert e l’Uno essenteClare Quilty posto come altro da Humbert.
Lolita, coscienza infelice che realizza cristianamente l’unificazione in Spirito tra ebraismo veterotestamentario, desiderante e laborioso, e autocoscienza immutabile di termine fisso (pura astrazione).
09 Feb 2014 Nicola