L’architettura pastrufaziana dell’Ing. Gadda
Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi veduta panoramica del Serruchón – orto, frutteto, garage, portineria, tennis, acqua potabile, vasca pozzonero oltre settecento ettolitri: – esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchón e lungo le pioppaie del Prado; di ville!
Di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce, di ville rustiche, di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, «digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi. Quale per commissione d’un fabbricante di selle di motociclette arricchito, quale d’un bozzoliere fallito, e quale d’un qualche ridipinto conte o marchese sbiadito, che non erano riusciti né l’uno a farsi affusolare le dita, né l’altro, nonché ad arricchire, ma purtroppo nemmeno a fallire, tanto aveva potuto soccorrergli la sua nobiltà d’animo, nella terra dei bozzoli in alto mare e delle motociclette per aria. Della gran parte di quelle ville, quando venivan fuori più «civettuole» che mai dalle robinie, o dal ridondante fogliame del banzavóis come da un bananeto delle Canarie, si sarebbe proprio potuto affermare, in caso di bisogno, e ad essere uno scrittore in gamba, che «occhieggiavano di tra il verzicare dei colli». Noi ci contenteremo, dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur seguitando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: ma il legno dell’Oberland era però soltanto dipinto (sulla scialbatura serruchonese) e un po’ troppo stinto, anche, dalle dacquate e dai monsoni. Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si drizzavano su, belle belle, in una torricella pseudosenese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si insignivano di cupolette e pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squamme d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Albambra e il Kremlino.
Poiché tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i connotati del Buon Gusto. Era passato l’umberto e il guglielmo e il neo-classico e il neo-neoclassico e l’impero e il secondo impero; il liberty, il floreale, il corinzio, il pompeiano, l’angioino, l’egizio-sommaruga e il coppedè-alessio; e i casínos di gesso caramellato di Biarritz e d’Ostenda, il P.L.M. e Fagnano Olona, Montecarlo, Indianòpolis, il Medioevo, cioè un Filippo Maria di buona bocca a braccetto col Califfo: e anche la Regina Vittoria (d’Inghilterra), per quanto stravaccata su di un’ottomana turca: (sic). E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, di marmo rosa: e occhi di bue da non dire, veri oblò del càssero, per la stireria e la cucina; col tinello detto office: (la qual parola esercitava un fascino inimmaginabile sui novelli Vignola di Terepáttola). Coi cessi da non poterci capire se non incastrati, tanto razionali erano, di cinquantacinque per quarantacinque; o, una volta dentro, da non arrivar nemmeno al sospetto del come potervisi abbandonare: cioè a manifestazione alcuna del proprio libero arbitrio. Ché, per quanto libere, sono però talvolta impellenti e dimandano, comunque, un certo volume di manovra. Con palestra per i ragazzi, se mai volessero cavarsi lo sfizio; non parendogli essere abbastanza flessuosi e snodati tra una bocciatura e l’altra, tra il luglio e l’ottobre. Con tetto a terrazzo per i bagni di sole della signora, e del signore, che aspiravano già da tanto tempo, per quanto invano, sia lei che lui, alla bronzatura permanente (delle meningi), oggi così di moda. Con le vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode.
La cognizione del dolore
14 Mag 2014 Nicola