L’Apocalisse di Pecoraro viene al principio
Lo straordinario, ribollente “zuppone vitale” di uno dei migliori romanzi del XXI secolo
Ripercorrere all’inverso anche il più esile rivolo causale, destrutturare la catena degli eventi, riducendoli ciascuno alle proprie unità costitutive (…) per individuare il punto esatto del non ritorno.
Dopo la catastrofe primigenia, dopo l’essere venuti al mondo, c’è il panico per qualcosa che nel venire al mondo ci ha invaso e che dispiegherà tutta la sua capacità patogena per corromperci e degradarci irrimediabilmente, per farci morire infine come morì Erode, “roso dai vermi”. E la vita è solo una campata di ponte verso la fine. Una toccante fine lunghissima che dura cinquecento pagine belle intense, fitte, turgide, pastose, barzotte, novecentesche, pop, insofferenti, cinico/comiche e altoromanzate.
(…) E questa è una dannazione, non c’è un appiglio, un chiodo piantato da qualche parte che funga da riferimento assoluto, da inizio del ragionamento (…)
La vita in tempo di Pace (Ponte Alle Grazie) di Francesco Pecoraro ha come pretesto la parabola di un tizio che, sedotto da “l’inaudita volontà di superamento insita nel ponte”, sogna col suo mestiere di arrivare a fare ponti ma al massimo diventerà un organizzatore di cantieri. Insomma, non riuscirà mai a realizzare il desiderio di diventare un pontifex. Al fondo, però, il libro è narrazione di tutto quel che residua dall’apocalisse iniziale, seminale e fondante come un Big Bang; il resoconto di un movimento trascinato, come di caduta evitata in caduta evitata, incardinato su di un prolungato, incessante, disperato sforzo ordinatore (tecnico e filosofico) dentro al caos del consorzio umano.
Il protagonista è un ingegnere, un homo faber conscio che la matematica e le equazioni ti dicono come e in quali condizioni un determinato oggetto/congegno può funzionare. Che la scienza predispone un ventaglio di soluzioni al problema. Ma che il problema è posto dalla filosofia. E sembra concludere, l’homo faber Ivo Brandani, che il problema è l’uomo, con la sua vita non matematizzabile. Perché nessuna equazione e nessuna teoria, nessun modello dice come fare un organismo vivente:
Perché la matematica non ce la fa con la vita? Perché è capace di rappresentare solo alcuni, pochissimi, tra i fenomeni della non-vita? Noi viventi siamo troppo caotici, siamo conformazione, non forma, abbiamo contorni a-geometrici, mutevoli, indeterminati (…)
Noi viventi siamo il caos.
L’unico dovere che abbiamo in quanto uomini è combattere il caos con la razionalità della forma, contrastare il degrado e l’usura del tempo.
Il romanzo di Pecoraro racconta della ricerca spasmodica, fallimentare e straziante, di un criterio unificatore rispetto a “grandezze non figurabili”, rispetto a ciò che nel mondo appare separato, come la pace dalla guerra, il figlio dal padre, l’uomo dalla donna, l’eros dalla violenza, i vivi dai morti, la civiltà presente da quelle perdute, l’ultimo ritrovato della Tecnica dalla broda primordiale. E la domanda di senso, lanciata nel tempo e nello spazio vitale, dopo frustranti peripezie, giunge ad altro orizzonte di risposte: l’unica conoscenza possibile all’umano è la coscienza del dovere di portare a compimento un’esistenza secondo criteri minimi di decenza etica.
Difficile per Ivo Brandani, nell’ultimo suo giorno di vita, sfuggire a “quel senso di devastazione non-rimediabile” che lo attanaglia. Ripercorre la sua vita all’inverso, negli eventi e nelle stagioni che maggiormente lo hanno segnato, iniziando dalle esperienze più recenti e allontanandosi progressivamente nel tempo, per finire alla sua infanzia nell’immediato dopoguerra e scoprire che vivere è sempre consistito nel lottare contro il terrore ancestrale del vivere, terrore delle sfide, delle dure prove fisiche e morali per conquistarsi uno spazio di dignitosa sopravvivenza, sempre al limite dello stritolamento anche in tempo di pace, soprattutto in tempo di pace, in quel tempo che ti costringe “nella macchina infernale del profitto, dove o competi o sei schiacciato in partenza …”. “La vita in tempo di pace è una guerra silenziosa di tutti contro tutti.”
La costruzione di “un’epica del tempo” a Pecoraro riesce meravigliosamente bene e le stagioni della vita in tempo di pace, lungi dall’essere banali ricordi autobiografici, risultano davvero - grazie a una scrittura che dilatando scandaglia e scandagliando dilata tutte le anse in cui il flusso della vita s’è momentaneamente fermato - ere geologiche memorabili.
Un libro-mondo e quindi, in misura perfetta, anche politico:
Noi siamo tecnici, quindi abituati all’idea del progetto, di qualcosa che oggi non c’è, ma che va realizzato e bisogna riuscirci nel giro di un tot di tempo, con quei soldi lì e con quello che abbiamo a disposizione sul posto … Ma i politici che ne sanno? Cosa gliene frega del ben fatto? Del domani? Del durevole, del preciso, dell’esecuzione a mestiere, delle regole dell’arte, della matematica, della fisica, della scienza delle costruzioni? Lei me lo insegna ingegnere … che ne sanno quelli delle regole, di qualsiasi regola? Per loro conta l’oggi, il resto è solo futuro remoto, non li riguarda, non rientra nell’immediato, nel consenso istantaneo (…)
La politica che ha rovinato un mondo facendolo diventare contemporaneo senza che sia mai passato attraverso la modernità. Ha travolto la norma antica e lasciato che si smarrissero modelli e consuetudini in qualche misura “buoni”, in nome della libertà di fare tutto. E così il mondo si è trasformato “in questa roba di terza, quarta mano”. Roba fake e ornamento dappertutto.
Prima del tempo di pace la cultura (comprendente l’ornamento) era sovrastruttura. Ora l’ornamento s’è fatto struttura, tutto è ornamento, barocco ovunque, rifacimenti di plastica, niente più sostanza delle cose, la struttura rimpiazzata da suoi simulacri, parchi a tema della qualunque. Per altro verso però spinge la consapevolezza che ogni ordine naturale è totalmente irrecuperabile perché ogni modificazione operata dall’uomo sull’ambiente che lo circonda si innesta su una precedente modificazione, che a sua volta si innestava su altre modificazioni, anche quelle succedutesi e stratificatesi nel tempo. Opere magari poi deterioratesi – e per questo bisognevoli di interventi tesi al recupero di una loro funzionalità - ma pur sempre ‘artificiose’, di un’artificiosità che ha nei millenni relegato in una dimensione mitica (o fantomatica) lo stato di natura.
La coscienza di tutto ciò, delle tensioni opposte e della lacerazione in agguato – perché la realtà trova sempre il modo di riaffermare i propri diritti e l’acqua impetuosa, dopo aver preso di mira la chiave di volta del Ponte Ancestrale, uscirà dall’alveo e travolgerà ogni cosa – è “coscienza del caos che ci attraversa da parte a parte”. “Caos come matrice di tutto, te compreso.” Il punto di non ritorno, per l’effetto Coriolis, non sta lì dove la direzione della tua indagine aveva creduto di poterlo individuare.
Nel debito (molto ben portato e mixato) verso Marx, Joyce, Gadda, Céline ma anche del La Capria di Ferito a Morte (favoloso il quadro della vita sottomarina) si forma questo romanzo avvincente sulle cose ultime e prime, sui massimi sistemi ben ancorati alle vicende terrene.
28 Ott 2014 Nicola