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la trattativa tra stato e lingua italiana

Comunicato stampa del Quirinale: “Alla determinazione di sollevare il conflitto, il presidente Napolitano è pervenuto ritenendo dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”.

Ma vogliamo porci l’unico interrogativo degno di attenzione di tutta questa storia?

MA COME DIAVOLO SI ESPRIMEVA IL “MITICO” LUIGI EINAUDI?

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oh, recchie!

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Violenza della fine e volontà del Signore

Quaranta metri quadri, tettoia e pergolato. Ninì vive praticamente a cielo aperto, arredo scarso: una sdraio di là, sul lato scoperto, dove dormirci come un bradipo su un ramo di cecropia. La strada di edifici fatiscenti e lerci è soffocata dagli odori del carburante del caldo umido giugno delle scarcioffecoibisi della terra non scrollata dai vestiti dei senegalesi, e dai consueti gorgoglii della vita rionale.

Quando è finalmente rincasato è notte fonda, va nel frigo, ne tira via una tazza. Nelle peperonata gelida ci sbriciola sei puramente sette pastiglie di zoloft. Nel foglietto illustrativo alla voce interazioni nulla è detto a proposito del mischio tra setralina e ortofrutta, per cui via col pane intinto in questa zuppetta paranoica. La mano agguanta il vicino telecomando tutto incerottato, il pollice apre sul tre. Enrico Ghezzi sta presentando il prossimo film e nel farlo parla della violenza. Della violenza. Della fine. Della storia. Questa è la sua cadenza per parlare della violenza della fine della storia. Ninì pensa che la violenza della fine della storia è il capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è quella terra bruciata che incuba mine, subito alle spalle del capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è la mano di un bambino che colpisce duramente il corpo di un altro che tenta di scappargli via. È strifone.

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sono così indie che il blog è fuori moda

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Lo spirito del Tempo

Un intervento di chirurgia estetica presentato in tutta la sua raccapricciante verità di carne niente più che macellata e riassemblata con giunti e punti di sutura. Inizia cosi Time (Kim Ki-Duk sceneggiatore, regista e produttore).

Una donna dal volto nascosto dietro una mascherina, appena dimessa dall’ospedale dopo un intervento di chirurgia facciale, viene urtata per strada da una ragazza di fretta. Nello scontro, fortuito, una foto incorniciata, ritratto del volto di un’altra donna, casca per terra e il vetro sotto il quale la foto era fissata va in frantumi. La ragazza che arrivava di corsa si scusa, raccoglie i cocci e s’incarica di rimettere tutto a posto, portando via con sé la fotografia.

Una donna che sorride ma sembra pazza, in quell’immagine.

La ragazza di fretta è Seh-hee, follemente innamorata del suo uomo Ji-woo ma anche gelosa psicotica, soggetta a esagerati scoppi d’ira nella crescente convinzione che Ji-woo non faccia che guardare altre donne perché stanco di lei. A seguito di una di queste scenate di gelosia, la fotografia raccolta da Seh-hee rimane abbandonata sul tavolino del caffè che i due frequentano abitualmente. E quel che lo spettatore capisce dai primissimi minuti del film è che quel volto, di una donna che sorride ma sembra pazza, sarà destinato ad arcano e penoso peregrinare.

“Mi dispiace di avere sempre la stessa faccia noiosa”, si duole Seh-hee dopo un problematico momento di intimità con Ji-woo.

Quindi lei sparisce. Lui si sente scaricato e nello stordimento cerca di reagire consolandosi in altre avventure, dalle quali, però, trae l’unica certezza della sua vita, quella di amare ancora e profondamente la sua Seh-hee. Ogni volta che Ji-woo è con una donna succede sempre qualcosa, qualcosa che viene ad interrompere e, in definitiva, ad impedire che un atto d’amore possa compiersi tra Ji-woo e una qualunque delle sue donne. Nella stanza di un motel dove si va per scopare, si rompe persino il vetro della finestra.

Nella vita di Ji-woo l’abitudine gioca il ruolo fondamentale di remare contro il Tempo. I suoi interessi sono la fotografia (intesa qui come hobby), il solito tavolino al solito caffè, il parco delle sculture su una spiaggia isolana. Una grammatica della immutabilità segna il Tempo dell’uomo. Il linguaggio della fissità segna, per la precisione, i sei mesi trascorsi dal momento in cui Seh-hee lo ha lasciato.

Ma che fine ha fatto Seh-hee?

Seh-hee è diventata un’altra. Sopraffatta dall’amore morboso per Ji-woo ha desiderato e scelto per sé un altro volto da offrire al suo uomo. Ha creduto di risparmiare a Ji-woo la monotonia del “sempre uguale” sottoponendosi ad un intervento di chirurgia plastica che cambiasse il suo volto. Una scelta drastica e sconsiderata ma che serve a fare di Seh-hee la protagonista del film: un personaggio in conflitto col Tempo, talmente ansioso di consumare e divorare il Tempo, da spingersi in accelerazioni e manipolazioni dei processi vitali sui quali sempre il Tempo dovrebbe essere unico signore, fino ad ottenere cambiamenti troppo innaturali per non essere in aperto contrasto col Dio Tempo. Antagonista Ji-woo che, invece, il Tempo vorrebbe fermare. Da questo dualismo origina l’idea del film, da questo attrito muove la storia di Time.

Seh-hee è diventata colei che ora serve il caffè a Ji-woo, la cameriera del bar frequentato da una vita. La nuova Seh-hee è molto bella e diversa da quella del passato e si presenta a lui senza però avvertirlo della sua vera identità (con un nuovo nome, ancorché simile al vecchio, quindi sotto mentite spoglie). I due prendono a frequentarsi, si conoscono meglio o, per l’esattezza, Ji-woo fa la conoscenza di questa “nuova” donna, mentre lei sa perfettamente chi è lui. Nascerebbe un amore se la follia di Seh-hee non prendesse ancora una volta il sopravvento. Lei si mette a curiosare, anzi, a scoperchiare oscenamente ciò che a volte è bene resti sepolto nell’intimo. Così scopre che Ji-woo non ha chiuso col passato, che se Seh-hee si facesse viva lui tornerebbe con lei, perché ne è ancora innamorato.

Seh-hee adesso deve ammettere a se stessa di essere profondamente infelice, e in un crescendo di pazzia diventa prima gelosa del suo “originale”, cioè di se stessa, poi sempre più violenta nei confronti di Ji-woo. Al punto che si rende inevitabile il chiarimento e il dirgli tutta la verità. Lo fa in un modo straziante e qui Kim Ki-Duk dispiega tutto il suo impressionante arsenale poetico: Seh-hee arriva a un appuntamento con Ji-woo indossando una maschera . Quella maschera raffigura il volto di lei prima dell’intervento, un volto che lui conosce molto bene. Al colmo della dissennatezza lei gli grida: “Sei tu che mi hai reso così!”. Le scene che si susseguono qui, con l’ennesima fotografia-maschera assurdamente sorridente in penosi vagabondaggi, sono di una bellezza estrema.

Prima che la foto che la ritrae com’era prima, diventi una maschera sovrapponibile a qualunque altro volto, Seh-hee la strappa.

Come in Les Amants di Magritte.

Pittura che, benché condizioni la pellicola a un livello estetico - appaiono più d’una volta facce e teste dei protagonisti avvolte in un drappo o in lenzuoli-, non manca di condizionare l’opera anche e soprattutto nei significati che si porta dietro, incidendo profondamente sul cosa si racconta con questa storia: l’asincronicità dell’amore, battiti furiosi che non si prendono, passioni destinate a rincorrersi, specularità di percorsi che non si toccano, non si incrociano, si sfiorano appena e si disperano nell’impossibilità e nell’impotenza. Due percezioni del tempo distorte in direzioni opposte l’una rispetto all’altra.

La cameriera (fu Seh-hee), lasciatasi sfuggire “per sempre” il suo grande amore, torna dal chirurgo plastico per cambiare ancora una volta il suo aspetto. Questa volta vuole diventare irriconoscibile anche a se stessa, dimenticarsi di tutto quello che ha potuto combinare. Viene fotografata dai medici un’ultima volta prima di sottoporsi all’intervento. L’immagine che ne risulta è una donna che sorride ma sembra pazza. La stessa all’inizio del film. Esce dall’ospedale con la foto e viene urtata da una ragazza. I vetri del portafotografie in frantumi. Il film finisce lì dov’era cominciato. O ricomincia. Primavera, estate, autunno, inverno … e ancora primavera.

Oltre che a indicare la nozione di tempo secondo Kim ki-duk, quella circolare, questo epilogo segna anche un momento di dubbio sulla verità della storia appena raccontata, a cui abbiamo appena creduto, cioè sulla verità del film. Come se l’autore invitasse a porre più attenzione sulle vicende della rappresentazione artistica, dove tutto può essere allusione o addirittura inganno. Ma anche mistero. Personaggi che si sdoppiano e si fantasmizzano. Realtà di sogni, realtà da ricercare nei sogni. Universo parallelo.

Il Tempo di Kim Ki-Duk non sarebbe stato così spietato se la follia umana non avesse fatto ricorso a tecniche artificiali ansiose di sottrarsi appunto alla logica del Tempo: azioni sconsiderate, spazientite dal Tempo, che hanno deliberatamente stravolto l’opera del Tempo sui volti dei protagonisti e li hanno portati alla rovina. E tutto senza aver voluto tenere da conto anche una possibilità di clemenza da parte del Tempo, come sembra suggerire Kim sempre in quell’ultima scena in cui si chiude il cerchio e allo stesso tempo lo si riapre: quel Tempo, nonostante scorra inesorabile, avrebbe probabilmente concesso loro un’ultima chance.

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di feste comandate

per il caldo mortale vanno i gomiti contro i gomiti nel buio indie cieco pesto di drum machine e vanno in apparenza di flanella sbalorditi d’umidità ma quanto prometeici nell’ontologia più eighties vanno incontrollati i sessi nelle livree slabbrate contro scrigni caramellati i sessi liquefatti verso l’adriatico mugghiante traverso la messicana cola olidda il ballo la febbre il dolore vanno tarantati romiti salmastri pei cessi colombiani incontro alla morte più petite mentovando estetiche accampando scuse inalberando gioia d’avere vent’anni saecula saeculorum

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Un altro frammento raso terra

L’ultima volta che mi scappò non mi riuscì di riprenderlo con me. Sapevo dove trovarlo ma quando lo raggiunsi lui mi disse che non sarebbe più venuto a stare da me. Non era arrabbiato con me. Era solo che riteneva giunto il momento di andare sulle sue gambe. Camminare sopra i suoi stecchi, dalle tenebre alla luce.

Gli chiesi se c’era ancora un’ultima cosa che potevo fare per lui.

«Tipo?»

«Non so. Devi dirmelo tu. Mi puoi chiedere qualcosa che può servirti nella vita. Qualcosa di utile.»

«Non credo che potresti aiutarmi.»

«Proviamo.»

«Vorrei un asino.»

«Ah?!»

«Hai visto che non mi puoi aiutare?»

«Ma che te ne fai di un asino?»

«Tu non ti preoccupare. Me la vedo io di che cosa me ne devo fare di un asino.»

«Sei proprio sicuro che non ci sia qualcos’altro che possa esserti più utile nella vita?»

«Senti, io tanto tempo fa vivevo con mamma in un organetto, se non lo sai. Può sembrare che non c’entra ma adesso voglio un asino, tutto mio, tutto per me, voglio farne la mia casa.»

Un pastore lo conoscevo. Figurarsi se non conosce pastori una come me, amante della campagna, di tutti i frutti del ventre della terra, delle fave, delle cicorielle, dei cardi selvatici… Meh, insomma alla fine l’asino l’ho trovato, sono andata a prenderlo dalla stalla di una masseria, l’ho pagato una fesseria perché Petruccio tanto non sapeva che farsene più. L’ho montato e mi sono fatta a dorso di mulo tutto il percorso al contrario. Ci ho messo cinque ore ma alla fine sono entrata in città, mi sono immaginata addirittura che potessero accogliermi con le palme benedette e invece ho attraversato un po’ di quartieri tra le occhiate incredule della gente e delgi automobilisti.

Finalmente l’ho visto, e anche lui non credeva ai suoi occhi. Quegli occhi che gli sono presto strabordati di gioia oltre le lenti da sole che portava senza separasene mai. Ha pianto proprio come un ciucciariello, e ho pianto anch’io. Dio solo sa quanto ho pianto.

Tra le lacrime ci siamo salutati.

O meglio, ci siamo detti addio.

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Duecento misti

Nella strada c’era gente che si chiedeva che diamine fosse quella puzza tutta nuova. Molti si lamentavano che era penetrata nelle loro case e che era davvero insopportabile. Bambini che vomitavano. Brizzolati cinquantenni già preoccupati del proprio cuore che scongiuravano eventuali crisi cardiache magari proprio a causa di questo fetore che faceva star male dal tanto che acciuffava allo stomaco. Una donna che quasi abortiva dal tanto che somatizzava. Un grassone che componeva il numero della locale compagnia dei carabinieri. E quando i carabinieri furono sul posto tutti a indicar loro da dove proveniva questo fiato sulfureo. Il bravo giornalista che giurava di aver visto i muri esterni della casa in questione trasudare liquidi fecali, no, seminali, no scusate fecali, fecali. I due carabinieri correvano nel viale, erano sul pianerottolo con le mani a mascherina sul volto e gli occhi irritati se non proprio lacrimanti. Suonavano. Niente. Suonavano e colpivano la porta. Ancora niente. Forzavano la porta e si ritrovavano coi piedi in un pantano scivoloso. Merda. Merda e silenzio. Merda e nessuno. Si lanciavano un’occhiata d’intesa: era successo altre volte di sorprendere intere famiglie in uno stato di degrado simile. Altre volte uomini e froci disperati e condannati da questo paese da incubo si erano ridotti a non uscire più di casa, abbandonandosi vieppiù e finendo con lo smerdare la casa in ogni angolo. Uno dei due carabinieri apriva una porta e scopriva una donna con uno sbuffo di capelli lunghi e grigi soltanto dietro un orecchio, come chi si fosse dimenticato di sciacquarsi via la pro-raso da quella parte, su un materasso completamente abbrunato di dissenteria. Continuando la perlustrazione entravano in un’altra camera. C’era un ragazzo gattoni che sembrava crogiolarsi nella pleplè, a guardar meglio muoveva a rana le braccia per dipartire i liquami densi e lasciare libera una porzione del pavimento sulla quale andava sistemando traversine e regolando lo scartamento tra i binari. Un carabiniere gli premeva due dita sul braccio, a scrollarlo delicatamente.

Corrado aprì gli occhi.

La radio aperta su Uomini e camion e tutto come sempre. Sempre peggio. Solo un potente puzzo di schifo composito che arrivava dalla finestra. Lo stesso che ammorbava la città.

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All Inclusive

La mattina c’è da tornare a carreggiare il bolide. Ninì si riprende che più lemme non si può.

I faticatori alle sei già lo aspettano a Matera, Altamura, Gravina, via via fino a Bari.

Fuori di casa, alle cinque di mattina è finalmente un po’ più fresco. Con bibitoni di caffè in corpo, la cacarella già evacuata in una sciolta, non rimane che recarsi alla rimessa.

Nel suo pullman sono sempre saliti ragazzi innamorati proprio andati, gli stessi che poi a sera rimontano e sui sedili ultimi si mettono a barcagliare con le fanciulle arrapati sditando su patonze appena appena date e cazzi fuori fuori sparati, strappano le tendine di tela già scolorite e si nettano la genitaglia incontinente.

Ci montano su anche signore grosse come quartare coi piedi doloranti ancora prima di cominciare la giornata; ragionieri d’accatto eleganti fino a rasentare l’insensatezza; gli scemi dei villaggi; il controllore che va per travesta e non vede l’ora di confidare al conducente come il pene abbia ormai occupato il territorio; lobbisti, accomandatari, semipotenti, marmaglia a colori di seventy nike, scaramellanti a tutta manetta, brontoloni vegliardi incazzati per chissà quale governo ladro, cinquanta e sessantenni fatti di viagra per molestare i fiorellini che segano la scuola. Ciurma in età da preghiera che oltretutto t’appesta l’aria con le buste spitterranti cavolfiori e focaccione fatte alla carlona e poi sudore copioso a vanificare ogni divieto di fumare, anzi tutti fumati, crakkati innamorati mezzoguitti ridenti cristonanti dropout musigialli tasconati descolarizzati fitusi settuagenari universitari plurisderenati dai docenti spallati e geniali che prima dell’ultimissimo esame ti dicono IN CULO! E via, lasciata la facoltà per anni per sempre per viaggiare sul crocierone di Ninì.

Gli uniposca poi, quelli son sempre saliti da soli, coi loro abbonamenti vitalizi alla società ferrotranviaria, sulle loro minuscole gambettine prendono posto e certosini intraprendono miniature e figurette di cazzi in bocca e cazzi in culo a iosa, poi tante scritte e messaggi tipo GIANNI FERRETTI III C SEI TROPPO SOMMO, U.C.N. W BARI, MARCO È SOTTOPOMPA DA NICLA, CIAO NICLA SAI CHE CI HAI UNA BELLA TECNICA RISUCCHIOSA MA PERÒ TALVOLTA MI FAI SENTIRE I DENTI BY MARCO, MERDOSO DI UN MARCO SAI CHE FAI GRATTA VIA LA MUFFA DA QUEL TUO GLANDE LORDO BY NICLA.

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