Archivi per la categoria 'altri spot'

altri spot, minimi sistemi

squadri da ogni lato

lo scopro guardando l’infedele

e a me roberto saviano che arringa la folla del palasharp con queste parole “è arrivato il momento di dire ciò che siamo e ciò che vogliamo” mi manda ai matti, c’è niente da fare.

prendere MONTALE e utilizzarlo a proprio comodo, ribaltando il senso di quei versi inequivocabili e già inflazionati, prima che risultare una faciloneria più afflittiva di uno sloganino veltroniano, mi pare proprio strizzatina d’occhio al pubblico delle più viete. contiene, lo slogan, una somma slealtà verso quelle parole scritte dal Poeta apposta per significare l’opposto di quanto che lo scrittor incerto sfacciatamente recita dal suo trabiccolo amplificato. le cancella impunemente, quelle parole e nel compiere questa precisa operazione brutalizza l’enormità filosofico-letteraria che in Non chiederci la parola meravigliosamente precipita.

e non è da credersi che dopo gli sfondoni su Sciascia e i professionisti dell’antimafia sia nuovamente inciampato.

anzi, se tanto mi dà tanto, saviano si propone come Vate.

se se ne va su questa china, così come lo sloganista slogato veltroni è solo un morto (politicamente) che non ha pace perché non ha ancora ottenuto degna sepoltura, lui come scrittore ci finisce allo stesso modo. e non solo come scrittore ma anche come giornalista.

altri spot, le torsioni dell'anaconda

Io canto /5

E tanto più dolor, che punge a guaio […]

A tutti quelli che diranno che Hereafter, l’ultimo film di Clint Eastwood, è una cacata.

Intanto è un film che riesce a tenere insieme due cose: 1) la conferma dello schema eastwoodiano qui illustrato; dunque, chi lo ha apprezzato in passato non se ne sentirà tradito. 2) l’originalità. Perché facendo di testa sua, cioè fregandosene come ha sempre fatto, Clint parte da un soggetto incentrato sul ‘paranormale’ e va coraggiosamente a raccontare la sua storia fino in fondo, a interrogarsi su cosa c’è dopo la vita, a esplorare il dolore e la morte. Mettendo in scena la solitudine di un sensitivo capace di entrare in contatto coi morti, con gli strapassati – come dice n’amico mio - , gli riesce bene un controfagotto al pernacchio costante di certa rozzezza atea e materialista. E gli riesce pure con ragguardevole finezza psicologica, senza tessere le lodi di alcuna religione istituzionale. Da vedere e rivedere l’ultima seduta del medium col ragazzino Marcus: sembra un duello alla Sergio Leone, una resa dei conti dove le pistole sono state sostituite dai dolorosi interrogativi esistenziali, e il bello è che sono quasi risolti nel qui e ora.

Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, /che la ragion sommettono al talento./ E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali: di qua, di là, di giù, di su li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.

altri spot, le torsioni dell'anaconda

Chill’ e ‘vvive!!!

È da quando mi si è piantato nella chiorba il motivo della morte implacata, o per meglio dire, la fissa per le circostanze in cui si manca clamorosamente di onorare comme il faut (non importa il rito scelto per questo) la cosiddetta dipartita, che vado ragionando sulle conseguenze della mala sepoltura e del complementare ma non accessorio, anzi decisivo e storicamente necessario apporto delle onoranze funebri. Al riguardo, può essere altamente illuminante, e comunque caldamente consigliato, il film Departures (vincitore del premio Oscar come miglior film straniero) il quale ha l’enorme merito, tra molti altri, di ripulire il tema da ogni goticismo (si può dire?) per puntare anzi con forza sull’elemento della tenerezza, ossia su quell’aspetto di inerzia e di totale mancanza di difesa che si può cogliere nella figura di un uomo morto. Se per i vivi diventa possibile, rispetto al momento del trapasso di un loro caro, questo tipo di approccio - e si badi , approccio che non rimuove affatto il dolore - allora essi vivi abbandoneranno ogni pregiudizio, e anche ogni superstizione, verso chi ha fatto una professione delle pratiche di ricomposizione e di vestizione della salma. Vedere nel film quanto amore si può imparare, quanta sapienza (per esempio nel lavare un cadavere) non sarebbe stata possibile in questo lavoro se il tanatoesteta protagonista non avesse imparato ciò di cui ho parlato fino alla noia in questo blog: l’amorevole cura per i morti.

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Si può dire neoneorealismo?

Se il neorealismo cinematografico italiano traeva ispirazione dalle macerie fisiche e morali di un paese prostrato dalla guerra, se succhiava forza propulsiva dalle difficoltà quotidiane derivanti dalla necessità di ripartire da zero in una cornice di tirannica miseria, si deve allora ammettere che il film La nostra vita (2010) di Daniele Luchetti aderisce pienamente e felicemente, cambiati solo pochi fattori, a un genere che mai fu scuola né statuto, che seppe sottrarsi a tentazioni teoriche e che in virtù forse di queste caratteristiche rese grande, anzi sommo, il cinema italiano nel mondo. C’è chi su questo obietta, ritenendo impossibile il rinnovarsi oggi di quella esperienza neorealista perché definitivamente chiusa col superamento delle sventure dell’epoca in favore di una società ricostruita e annessa al benessere occidentale. È vero: allora accadde che si riuscì a raccontare la Grande Storia, appena passata con tutto il suo carico inaudito di boria e violenza e buio, attraverso la cronaca minuta di sciagurate esistenze alle prese con le loro povere cose (poveri mestieri, povere scarpe, molti stracci) e con i loro espedienti, a volte ingenui altre astuti altre ancora geniali; ed è anche vero che per sostenere un confronto come quello che qui istituisco devo passare attraverso le forche caudine di una dura prova: dover dimostrare che il film qui preso in esame condivida col neorealismo del dopoguerra un requisito fondamentale: la dimensione epocale in cui le vicende narrate andrebbero ad inscriversi. Ci provo.

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a ragion veduta

Considerazioni a partire da questo.

Credo sia diventato di tutta evidenza che laddove si riscontri la formula del “presenta un amico” vi sia attività delinquenziale. Che si tratti di vendere materassi o di fistole in succhio con tecnologia N.A.S.A (fiuuuu!); di family banker o di number one; di grano in prestito dagli usurai o di millantati partiti politici (tipo alcuni sedicenti comunisti) - la formula del “presenta un amico”, con tutte le sue varianti di adescamento (molesti porta a porta, numeri di telefono da suggerire, iscrizioni demenziali, etc., etc.) è quasi sempre (mi auguro che sia) pane per i denti della GdF, quando non della DIGOS oppure della D.I.A.

Caratteristica ricorrente in queste organizzazioni criminali (che come quasi tutte le organizzazioni criminali hanno come scopo il far soldi) è la presenza della struttura a piramide. L’adescamento è infatti lo strumento tipico, consigliato o imposto dagli organi di vertice, adoperato dalla figura alla quale viene proposto di scalare la piramide mediante la formazione di cellule base, altrimenti dette squadre o agenzie. Generalmente l’attività viene costituita intorno alla somministrazione di dosi massicce di ‘pensiero unico’ circa l’improrogabilità e l’urgenza di una certa mission (tramite incantesimi a vari livelli, penetrazioni e manipolazioni psicologiche), ma il carico di lavoro per i componenti dell’organismo basico viene ad essere ben presto insostenibile, ragion per cui l’attività s’organizza prevedendo un ricambio continuo delle risorse umane (?) per quel che attiene alla manovalanza più bassa ma altresì confidando nell’abnegazione dei più devoti e fanatici e ipnotizzati. Questi ultimi sono i militanti a tutti gli effetti dell’organizzazione, i quali, all’interno del medesimo gruppo, possono essere all’occorrenza fatti oggetto di umiliazioni abominevoli e gratificazioni fasulle.

Ecco, possiamo dirlo: il potere criminale poggia sul raggiro costante a danno degli stessi uomini che lo compongono per la sua gran parte.

Chi la fa sempre franca invece è il detentore del carisma.

Cherchez le Caro Leader.

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Che puoi dire ….

altri spot, diario di un giullare timido

mia divisione

Riprendo dei testi di economia e lascio Bardamu su una piroga che risale un corso d’acqua nel bel mezzo della foresta equatoriale.

Col bronco ingrommato visti Il Profeta, L’uomo nell’ombra, Agorà, L’uomo che verrà, Il giardino dei limoni, tutti accomunati da certa lungaggine. Agorà finisce dritto dritto a liberarmi memoria nell’hard disk, dopodiché in questo mini torneo assegnerei al film di Diritti la palma del migliore (non mi dilungo perché la commozione e le lacrime in questo mondo sono giustamente appannaggio di C’è posta per te o della Barbaraalleporte D’urso), quella della migliore sceneggiatura a Il profeta, miglior attore Ewan McGregor, miglior soggetto (non ben sviluppato, direi) al Lemon Tree. Le migliori citazioni, costruite sulle atmosfere hitchcockiane ma anche su un coraggioso autocitazionismo (ho trovato piuttosto evidenti le suggestioni da L’inquilino del terzo piano, il film più di terrore che abbia mai visto, come ebbi a dire un anno fa), sono in conto al film dell’orco Roman Misteri.

A chi volesse chiedermi un’analisi più argomentata è sufficiente che mi indichi uno di questi film.

Ad ogni modo, questo 2010 sta appassionandosi alla sua fine e io son qui, stavolta fermo nel proposito, a organizzar classifiche e indicizzazioni di tutto quel che è entrato in ’sto blog in fatto di libri e cinema. Avevo anche fatto una classifichina del tutto personale sulla base di quel che avevano visto i miei occhi quest’estate tra i libri e i quotidiani più letti sulle coste pugliesi. Ma poi ho rinunciato perché non ci vedevo granché di senso nel categorizzare qualcosa che non era entrato nei miei ragionamenti…

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Che può la vanità

Gli sembrava … come dire … congruo, equo, affrontabile: “Tu, domani mi fai trovare settecento euro sul conto e io ti credo”. Enzo, rivolgendosi al cielo, gesticolava anche duramente.

“Smettila”, diceva chi lo stava ad ascoltare.

“Scusa, ma perché, ci rendiamo conto?” Ruotò gli occhi arrossati sul volto di lei. “Che cazzo gli sto chiedendo: settecento euro. Settecento euro noi due ce li sputtaniamo subito, per sopravvivere. Mentre lui ci guadagna un devoto per tutta la vita. Cioè, mi sembra che sia il minimo, no? Cioè, ma neanche il minimo: il basilare, il necessario. Gli sto chiedendo solo la possibilità di far fronte ai giorni, comprare il pane domani, sbattere uno sguiccio di benzina nella scassa e non farmele tutte ma proprio tutte a piote. Possibile che sembri una richiesta assurda?”

“Non è così.”

“Perché no? Questo regalo a lui non costa nulla. Se uno non ci crede ma è disposto a ravvedersi lui qualcosa la deve pur fare, no? Che cosa ci guadagna a tenermi così arrabbiato ed esasperato?”

“Ma com’è che non capisci, Enzo? Lui ha già fatto molto, ti ha regalato un cervello.”

Bum!

Per come lo aveva detto lei, in un tale stato di pietà dolente, sembravano non esserci dubbi. Gli sembrò una cosa così bella, un dono veramente, che non poteva non sentirsi grato, addirittura enormemente e intensamente grato verso colui che gli era stato indicato, in uno squarcio di luce, come Il Munifico.

Non solo: sempre per come lo aveva detto lei sembrava essere logico. Di quella logica ferrea e inoppugnabile di cui si erano sempre serviti gli avversari proprio per negarne l’esistenza. E poi gli sembrò pure che l’ateismo duro e puro era in fondo una faccenda di ricchi sereni, benestanti, pienamente borghesi. E che lui col suo cervello, e tutte le ristrettezze della vita, adesso sai che fior di mistico poteva essere?

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quando la lotta di classe se ne va a puttane

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più che francesismi, preziosismi

Onore e lode a questo compositore della Spoon River della Murgia, questo cantore di una terra e di uomini che non si comprende forse quanto ancora profondamente arcaici sanno essere. Rendiamo grazie a questo collettore di traiettorie tra la sozzeria e la solitudine, questo interprete di una tradizione magari finta ma che finisce per essere la più schietta e sincera, in definitiva la più autentica tradizione; questo De Andrè delle Puglie, menestrello inassolto e anticlericale quanto basta.

E infine, e insomma: macché De Andrè, ma quali Bob Dylan ed E. L. Masters in presunta salsa italica del sud-est. Questo è Enantino, conosce i Padri del cantautorato italiano così come affronta il patrimonio identitario che canta: per creare una cosa che dissacra due volte: in ambito musicale e in un ambito squisitamente retorico, disintegrando la credenza di un “piccolo mondo antico” che, per l’appunto, non è mai esistito. E al tempo si pregiano, i brani di Enantino, di un coefficiente poetico tra il ragguardevole e l’eccelso, capace di esiti molto coincidenti con la mitologia che meritammo.

Sempre di queste parti io parlo, eh …?

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