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altri spot, diario di un giullare timido

feria di marzo /3

In alcunché nutre fiducia Tornatore, invece, se non in un tono epico con che smaltare tutto un sontuoso affresco, sontuoso ovvero esteticamente ineccepibile, epperò poi basta. Baarìa niente altro è che una storia, la Storia di buona parte del novecento in Sicilia, sbobinata un po’ troppo di prescia. L’eleganza del tocco non basta a renderlo un film interessante, un film che corre troppo senza affondare un colpo, neanche uno squarcio o uno spacco nella Realtà e nella Storia, col risultato di far rotolare via un’epoca mentre lo spettatore anfanando di rincalzo dapprima la tallona ma poi, non traendone letture stimolanti quandoché agonistiche – ad onta del magma e delle miniere e delle estrusioni violente di cui è pieno al di là dello Stretto - la lascia andare in fuga su un tracciato sbagliato, indi rallenta, s’arresta, si ristora e s’appapela pure, lo spettatore intendo. Vista la carrellata di volti noti della recitazione del belpaese, tutti in circoscrittissimi camei, allo stesso modo irrispettoso, oscenamente compendiato, è trattato il XX secolo: ridotto a fugace apparizione. Uno dice: il film è proprio questo, tanto movimento e velocità per raccontare, in definitiva, la stasi e la fissità come le tare peggiori nella storia dell’isola. Non lo so, forse. Ma, hai voglia di riscriverlo, Peppino, mi pare che un nuovo Nuovo Cinema Paradiso non ti viene più. Se ti mantieni sul terreno della Sconosciuta (con la molto innamorabile Rappoport) fai la meglia cosa.

Dentro a quella mia personale settimana santa vidi pure, e rigorosamente a cazzo, Basta che funzioni (funzionante in ogni sua parte); Il fascino discreto della borghesia che, se Baarìa non rompe un bel niente fino a sfiorare il tritume conservatorista, beh questo rompe troppo per i miei gusti, mi allontana dal surrealismo e mi persuade a pratiche irriguardose verso esercizi troppo confinati nella loro corrente/etichetta; un John Ford cimentatosi nella riduzione di Furore, di cui parlerò un’altra volta, se mi andrà.

altri spot, diario di un giullare timido

feria di marzo /2

il conflitto-motore delle Mine Vaganti, o checche gnaolanti, racchiudible in un diorama presieduto da giove inculatore, è anche e soprattutto bassezza drammaturgica: quel che dovrebbe conferire robustezza alla storia è un infantile gioco sulla quantità degli outing che la società ovvero la meridional famiglia ottusa deve sforzarsi di accettare, il che stabilisce un preoccupante precedente: a furia di progressioni numeriche Ozpetek può arrivare a giustificare - debolmente - le proprie narrazioni facendo agevole ricorso a un subisso di ricchioni, a petto di un patto sociale sempre più retrocesso e degradato. se abbiamo visto Scorsese e Capotondi votarsi alla cieca fiducia nella scrittura, vediamo qui un regista che giustamente (vista l’inconsistenza drammaturgica) prega per la bravura di Fantastichini e Scamarcio, e si arrangia più o meno bene a dirigerli. Il patriarca Ennio viene, infatti, via via erigendo una cattedrale alla propria recitazione mentreché il giovin Riccardo prosegue nella costruzione di un grande avvenire suo, nel quale lo prevedo e azzardo novello Gian Maria Volonté.

altri spot, diario di un giullare timido

feria di marzo /1

sono reduce da una settimana di ferie che avevo deciso di dedicare totalmente al cinema, da una domenica all’altra, fruito in sala e da casa. ricreatomi il buio amniotico in casa direi che La doppia ora, visto nella notte del mercoledì, si lascia accomunare allo Shutter Island goduto la domenica prima al cinematografo (a ‘mo di inaugurazione della mia personale settimana santa) dalla fiducia che i loro autori devono nutrire nella scrittura. questa soccorre, ribalta e risolve il senso delle pellicole senza troppi riguardi per gli interscambiabili attori. più interscambiabili, a onor del vero, in quest’ultimo Scorsese che nell’esordio di Capotondi, nel quale Filippo Timi finisce per diventare un caro corpo e intenerente assai in quel suo profilarsi in areoporto mentre Ksenia Rappoport convola a ingiuste nozze imbarcandosi per Bueno Aires. Molto gotici tutti e due i film, ad unirli è quella poderosa, inarrestabile, implacabile macchina divoratrice e annientatrice di uomini che può essere la mente. gran parte delle vicende narrate si svolge tutta chiusa dentro la mente dei due rispettivi protagonisti, e la si crede vera fintantoché l’autore non ritiene giunto il momento di aprire la storia anche al punto di vista di qualche altro suo personaggio. su tutti eraserhead, la mente che cancella o che vorrebbe e non riesce a cancellare, la mente umana che non si riazzera mai ma che tuttalpiù, ove mai la si forzi a resettarsi, può solo essere riassalita, e questa volta molto più caoticamente e pericolosamente, dai traumi del passato.

anche se questo non è interessante comunico che Ksenia Rappoport è decisamente molto innamorabile. a me non capitava di innamorarmi degli ologrammi dello spettacolo dai tempi di Heather Parisi a Fantastico.

altri spot, letteraria

Il gioco dell’odore

Di pioggia ne era caduta poca e insieme a lei di sabbia ne era caduta invece assai. Questa volta però la conca non si era riempita indi per cui i ragazzetti erano tornati a giocarci dentro. Quel po’ d’acqua che era sgocciolata dal cielo aveva praticamente creato e compattamente steso una patina fangosa su quasi ogni cosa e perciò si poteva star sicuri che le polveri, e i mangimi già sparsi prima, almeno per un po’ non si sarebbero alzati. Oltre quella depressione del terreno, oltre il punto in cui si erano stanziati i bambini coi loro giochi, c’era solo terra bruciata, rottami di ferro, carcasse di automobili e di elettrodomestici assortiti. E nella terra bruciata, si diceva ci fossero le mine. Era terra bruciata. Uno sgangherato cartello segnaletico, posto proprio sul limitare di quella zona, recava esattamente quella scritta: TERRA BRUCIATA. Countinua a leggere »

altri spot, festa della mamma, le torsioni dell'anaconda

Pater pa(r)tito

Ci sono momenti che sembrano scoccati appositivamente a inveramento del detto ‘nella vita nulla accade per caso’. Adesso imperversa il Padre, trattato con guanti(ni da zarevic) a certi piani alti del ‘romanzo’, e più modestamente affrontato anche dal sottoscritto in chiave prevalentemente patologico-ossessiva. “Di sepolcri, di sepolcruli!”, si potrebbe strillare. Si potrebbe strabiliare. E il tema di far riposare in pace i nostri morti si rovescia sempre nell’inconscio e maldestro tentativo di far riposare in pace le nostre vite hic et nunc.

Questi momenti sembrano comporre il catologo ragionato dell’anaconda, un mondo di solito molto più irragionevole, dove poi ogni cosa cade a fagiuolino occhipinto. Discettando di padri può capitare di passare all’esegesi dei patronimici. Un cerchio blu infinito, e in lui un astro… però sarebbe più un matronimico, e spirituale. Si prega di non andare a pescare tra le maglie blucerchiate l’esemplare tipico di devoto a San Nicola. Già fatto.

Ma le curiose ridondanze fioccano. La Grande Madre Penna che rinomina i suoi toy boys ha visto al cinema il manga in 3D Astro boy?

E vogliamo parlare poi di questi animali e piante, così somiglianti ad esseri umani, che paiono travasarsi da un’opera all’altra?

in questi momenti il mondo interlacciato può diventare una vertigine fatale. Letale per chi legge.

altri spot, letteraria

Suite in re minore per clavicembalo

Ho attraversato ridendo le sue memorie, cara Rosa. Ho attraversato, ridendo, il suo dolore. E poi si finisce piangendo perché solo nelle ultime pagine il suo sguardo matura la ‘cognizione del dolore’, e rende umano e comprensibile un uomo che se non fosse stato esilarante sarebbe stato niente altro che mostruoso, cagione prima dello stato di ‘orfanitudine’ della figlia a genitori ancora vivi – da non sottovalutare in ciò anche il ruolo svolto dalla gelida madre. Strabilianti poi le avventure del e col barone di Canicattì, sacerdos esperto in esorcismi fecali.

Strabiliante la Sua penna, che le guadagna (opinione tutta mia, chiaramente) un primato che dovrebbe frustrare in eterno la plebaglia che traffica e sgomita nella repubblica delle lettere. Ah, quella lingua colta che “arremba” la pagina e, aggiungo io,  arringa la storia, cioè le dà forma (suprema) e sostanza (la cucina del cachot praticamente un mondo fatto e finito, e la vitalità negli uomini squillante fino al parossismo) … Del libro oserei dire: il sapere enciclopedico in forma (e sostanza) di romanzo. La scrittura tripudiante che celebrando la resistenza nelle condizioni più impensabili celebra la vita, la Sua vita e quella del padre, dei cani sparati, della scimmia venuta da Agadir e di tutti gli INDIMENTICABILI protagonisti di questo immenso “avantindrè” di saga familiare, sgargiante buddenbrook scoppiettante.

Lei, donna Rosa, ci fa dono di una storia con cui il lettore, io sicuramente, fa grandi gozzoviglie. Non avrei altri modi per definire la mia partecipazione. Si gozzoviglia per 286 sfolgoranti pagine. Si conosce il suo inferno, è vero, ma ci si ambienta molto bene (sarà  l’ironia o proprio le gran risate scaturite). Le frattaglie di una cucina in disarmo, di una bestia, o di un uomo morto, il Padre le usava per divinare il futuro, Lei invece le ha sistemate e animate in un tableau vivant indelebile. Chiuso il libro ci sono due cose che si ha voglia di fare: 1) è stato detto, leggerlo ancora; 2) attaccarsi di più ai nostri affetti.

È un libro che invoca amore per sé, per l’autrice, e non dirò mai: per l’umanità, ma per le persone che abbiamo più vicino, per le persone che abbiamo, questo sì.

altri spot, le torsioni dell'anaconda, letteraria

togliemetti togliemetti

Vermeer, Donna che scrive una lettera

La terza è una traiettoria più dolce, una curvatura dell’anaconda che intercetta il volo ipnotico di un insetto necroforo. Lo scambio fecondo è cosa chiara alla pagina 256:

“Mia madre diede via i miei cani; quando morì, morì con i suoi gatti. Un gatto tigrato le stava acciambellato sul petto, quasi stesse covando la sua morte come una gallina. Un gatto siamese continuò a lungo a gnaolare nella sua stanza vuota.”

Tra coloro che leggo come le grandi asciugatrici americane, memento perpetuo all’essenziale, scopro questa autrice di racconti. Ogni racconto è una crosticina sulle pagine che formano il grande ventre bianco di una cagna colpita da mastite a cui hanno dovuto portare via la cucciolata. Dice che con lei si riedita il minimalismo, esistente come orizzonte narrativo solo nella mente di Gordon Lish. Un genere letterario intriso di devozione ai piccoli dettagli, investiti di significati sempre più ampi, che chiede al lettore un supplemento di attenzione, uno sforzo di compenetrazione da intendersi come piccolo sacrificio che verrà ripagato poi da sincera emozione. Eppure questo, quando si è al cospetto di Amy Hempel o della Munro o di Carver, continua a sembrarmi solo uno dei tanti aspetti dell’esperienza letteraria o della relazione che si instaura tra autore e lettore, e come tale non può esaurire la domanda di sistemazione critica dell’autore tra le varie correnti della contemporaneità, né tantomeno sembra sufficiente alla codificazione di un genere se non tramite l’affermazione di verità parziali sullo stile e sul giro della frase, e senza mai sventare del tutto il pericolo di fuorviare clamorosamente i lettori posti di fronte alla scelta di affrontare o meno quel libro. Perché quel che si impressiona sui fotogrammi di Amy Hempel, minimalista a detta di molti, bestiole antropizzate a parte, è un repertorio incredibile di aneddoti, spigolature (una donna del West Virginia ha tenuto in grembo il figlio non nato per più di quarant’anni. Si è calcificato fuori dalla parete uterina. Intervistata dai giornalisti, la donna ha detto: “Finché il bambino rimane dentro di me, non l’ho perso”.), battute ad effetto e colte strambate, che poco o niente hanno da spartire con l’esasperazione del non detto. Resta la struttura, per niente aristotelica, né hegeliana, né soggiacente ad alcuno dei canoni più o meno conosciuti, ma tutta bucata, slabbrata, in definitiva ermetica. Un respiro cortissimo come romanziere e il fiato corto persino come novelliere  per cui è molto vero che Amy Hempel “è tutto nella frase”. Ma quanto sbalordimento si ricava da ogni sua frase?

“Ci ha detto che da ragazzo dava la caccia ai topi, che una volta aveva scuoiato un topo ucciso da una trappola e ne aveva fatto un tappetino in pelle di topo per la casa delle bambole della sorella.”

Ragioni per vivere, Amy Hempel

altri spot

The prestige all’italiana

Non è un film su un capostazione. Non su un pittore. E neppure su un capostazione con velleità da pittore. Non è lui il protagonista.

Le cose non sono mai come sembrano. Questa la chiave de L’uomo nero, dove anche l’uomo non è poi così nero, il padre non così inetto e irritante come appare per tre quarti del film, la provincia pugliese non così ripiegata su se stessa.

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altri spot, diario di un giullare timido, letteraria, minimi sistemi

“una sigaretta alla fine dei pasti…”, “fine del pastoo?!”

altri spot, diario di un giullare timido, la miglior vendetta

L’atmosfera natalizia

Non è un caso che in italiano non vi sia distinzione tra mangiare flash e mangiare meat. L’onorevole coratella cristica, reiterata a nastro, mette d’accordo tutti nella stessa grande abbuffata, cioè nella stessa danse macabre cannibalica. Il piacere lungo della tavola (in molte regioni italiane) non è ancora stato compromesso dal consumismo, dallo spreco e dal troppo di tutto spersonalizzante altrove anche a ore pasti. Perché resiste non in virtù del narcisismo di chi lo coltiva e ne fa a volte un manifesto artistico o s’illude di costruirsi il riferimento estetico del proprio percorso esistenziale - salvo poi, tra una raffinatissima prolusione enogastronomica e l’altra, alzarsi da tavola e abbandonare frettolosamente la compagnia perché ha da cacare; resiste non per questa nuova declinazione del radical chic, rispettosamente biodiversa, politically correct e quasi flexitarian. Tutt’altro. Resiste in ragione dell’odore del sangue, che ancora dà alla testa, alimenta la fame, accresce la voracità come per i pescecani: l’agnello, il cristo, il carne della mia carne, il mio corpo, il sanguinaccio. In tutto questo c’è sovrabbondanza, è vero, ma non è la stessa che caratterizza il bombardamento esasperante di inutili quantità di qualcosa. È piuttosto la sovrabbondante ferocia dell’uomo sull’uomo che si fa rituale, arrosto sacrale del mangiarsi i cristiani credendo di mangiare da cristiani. È una coazione a ripetere i consòli anche lontano da eventi luttuosi, un modo per non rimuovere la morte e anzi per paventarla a giro, di minacciarla più o meno seriamente anche ai commensali. Il settimo sigillo si rinnova nella generose portate che riforniscono il desco, ove ci si segna prima di addentare alcunché davanti a un crocifisso immaginario che non è mai un qualunque crocifisso da arredamento ma è sempre, inconsapevolmente, quello dell’altare di Isenheim, quello di un dio giustamente crocifisso, quello che sancisce la possibilità di una giustizia solo tra egualmente colpevoli. Nella partita a scacchi con la morte le pedine non sono le solite, e non sono neanche pedine umane; sono pietanze umane: ora mangio un pedone, ora un alfiere, il re e la regina, ora mi ti mangio, in un conflitto dall’esito già scritto in cui i vari passaggi sono arbitrati da uno dei due giocatori, il capocomico con la falce. Max von Sydow, l’umano, rompe i coglioni perché fa troppe domande, e non l’ha mai voluta capire che quando si mangia non si parla. Mentre il quarto uomo è troppo lontano per partecipare all’atroce banchetto, e tuttavia non abbastanza da non riuscire a vedere, ragion per cui si limiterà per sempre alle rappresentazioni, che è come dire che è un saltimbanco e farà la fame perpetua, salvando forse così se stesso e la sua famiglia.

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