Archivi per la categoria 'diario di un giullare timido'

diario di un giullare timido

rotti filetti

- merda santa mi taglio le palle se quel rottinculo del Forato non ha mandato tutto a puttane con una delle sue troiate
- nick mi sa che stavolta te ne devi stare in sordina per un pezzo
- il cazzo che vi frega
- nick
- dovete ballare tutti sopra a questo
- nick stavolta ti s’incula
- vi porto tutti a fondo
- gli è saltata la tettoia cristodiddio

-

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il mio Suttree

ecco, questo, forse: si scrive per dinamizzare il punto di vista su acque nere stagnanti. per edificare un viadotto a sovrastare una gola in fondo alla quale scorrono i liquami.  per posare delle condotte nella vita e farci passare la verbalizzazione. per articolare con parola anche il mondo preverbale. questo il movente. le posizioni da cui si osserva invece attengono al piano delle scelte stilistiche: da sopra, da sotto, dal di dentro, dal lato. ognuno come può. il vecchio Cormac meglio di molti mentre voga dal suo “schifo”.

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I miei degenerati

Sono scrittore non perché commerci col potere ma proprio perché non intrattengo ancillarità alcuna col potere. Sono scrittore di e in una cultura “altra” rispetto a quella della classe dominante, niente affatto interessato alla facile parlabilità cui quella è pervenuta, estraneo pure anche all’ottimismo da “magnifiche sorti e comunicative” di quella. Sono scrittore, bravo o meno non importa, per predestinazione e quindi per necessità. Sono scrittore proprio perché mi va di ricorrere al dialetto epperò senza ruffianerie, cioè senza glossari, quindi per totale fiducia nel suo potenziale espressivo. Sono scrittore perché vivo attraverso i miei degenerati, i figli di famiglie infelici di RAVB, raccontati nel passaggio dalla loro dimensione chiusa e arcaica all’aria aperta della società che li detesta, e perciò stesso divorati dalle nevrosi, e in tale passaggio resi all’istante dei disadattati senza speranza che come uomini si adempieranno soltanto nella perversione. Sono senza speranza loro perché sono scrittore pessimista io. Pessimista in quanto come scrittore non faccio altro che farmi incrinare, deliberatamente, le mie certezze strutturalistiche. E ogni volta mi rifaccio una verginità strutturalista e ogni volta me la spappolo. Poi, i miei “poveri”: non li seguo con umanitarismo peloso, il modo più facile per abrogarli del tutto; piuttosto me li faccio e da loro mi faccio fare, in senso genitale e quindi creativo. Sono scrittore perché trovo che la più bella novità dell’anno nel panorama del “raccontare” sia quel Sergio Citti filmato da Martone mentre commenta il suo filmato girato una decina di giorni dopo la morte di Pasolini, all’idroscalo di Ostia. La forza di quel racconto è proprio la forma, un loop doloroso, lo stile iterativo e ossessionato, e, letterariamente, la lingua di Sergio Citti, lamentosa, manicomiale, con dentro tutta la nostalgia di sapersi irrecuperabile a ogni ottimismo, ad ogni perfezione. “Ecco qui la maaghina […] erano due le maaghine …”

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sisifeide

la lingua non si staglia sullo scrimolo per proclamare la sua costernazione abbaiando alla sconcia italia. ci arriva appena, spolmonata e ascetica, sfiancata dalle impervie rampe. slombata la lingua che impara a “morire in bici”. s’acceca e si spaura quando che è al sommo, sicché la vertigine la ributta indietro. ricacciata giù per lo stesso versante appena scalato, tutta rovesciata e rattorta, ellalingua riattacca l’erta del dire le cose, ora anfanando ora cantando, quando imbestiando quando ricamando, ma sempre alla caccia della migliore adesione alla realtà (andata in fuga). non ha il gusto della pesca nel torbido perché non è ruffiana né cialtrona né puttana. la mia lingua. RAVB era cognazione d’affetti coi via di testa. e lo stesso l’Anaconda. sarà per il pessimismo di una visione della vita in salita ma almeno è costretta a ricercare la migliore funzione espressiva dei mondi che sceglie di narrare. ben altro che scrivere per mondadori! nevvero, saviano? nevvero, piccole editrici autodistruttive, fresche fresche del nuovo imperativo di mimesi mondadoriana?
nel momento in cui la lingua raggiunge la vetta sa che ha appena un attimo per gridare la sua invettiva congestionata, che poi non ha più tempo e deve rotolare giù a “svolgere il compito cui è stata chiamata” (direbbe qualcuno).
che fa lo scrittore, ancorché scrittore civile? non affronta l’arte di dire le cose, bensì l’erta di dire le cose.
e scusate se sono nicola sacco

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feria di marzo /3

In alcunché nutre fiducia Tornatore, invece, se non in un tono epico con che smaltare tutto un sontuoso affresco, sontuoso ovvero esteticamente ineccepibile, epperò poi basta. Baarìa niente altro è che una storia, la Storia di buona parte del novecento in Sicilia, sbobinata un po’ troppo di prescia. L’eleganza del tocco non basta a renderlo un film interessante, un film che corre troppo senza affondare un colpo, neanche uno squarcio o uno spacco nella Realtà e nella Storia, col risultato di far rotolare via un’epoca mentre lo spettatore anfanando di rincalzo dapprima la tallona ma poi, non traendone letture stimolanti quandoché agonistiche – ad onta del magma e delle miniere e delle estrusioni violente di cui è pieno al di là dello Stretto - la lascia andare in fuga su un tracciato sbagliato, indi rallenta, s’arresta, si ristora e s’appapela pure, lo spettatore intendo. Vista la carrellata di volti noti della recitazione del belpaese, tutti in circoscrittissimi camei, allo stesso modo irrispettoso, oscenamente compendiato, è trattato il XX secolo: ridotto a fugace apparizione. Uno dice: il film è proprio questo, tanto movimento e velocità per raccontare, in definitiva, la stasi e la fissità come le tare peggiori nella storia dell’isola. Non lo so, forse. Ma, hai voglia di riscriverlo, Peppino, mi pare che un nuovo Nuovo Cinema Paradiso non ti viene più. Se ti mantieni sul terreno della Sconosciuta (con la molto innamorabile Rappoport) fai la meglia cosa.

Dentro a quella mia personale settimana santa vidi pure, e rigorosamente a cazzo, Basta che funzioni (funzionante in ogni sua parte); Il fascino discreto della borghesia che, se Baarìa non rompe un bel niente fino a sfiorare il tritume conservatorista, beh questo rompe troppo per i miei gusti, mi allontana dal surrealismo e mi persuade a pratiche irriguardose verso esercizi troppo confinati nella loro corrente/etichetta; un John Ford cimentatosi nella riduzione di Furore, di cui parlerò un’altra volta, se mi andrà.

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feria di marzo /2

il conflitto-motore delle Mine Vaganti, o checche gnaolanti, racchiudible in un diorama presieduto da giove inculatore, è anche e soprattutto bassezza drammaturgica: quel che dovrebbe conferire robustezza alla storia è un infantile gioco sulla quantità degli outing che la società ovvero la meridional famiglia ottusa deve sforzarsi di accettare, il che stabilisce un preoccupante precedente: a furia di progressioni numeriche Ozpetek può arrivare a giustificare - debolmente - le proprie narrazioni facendo agevole ricorso a un subisso di ricchioni, a petto di un patto sociale sempre più retrocesso e degradato. se abbiamo visto Scorsese e Capotondi votarsi alla cieca fiducia nella scrittura, vediamo qui un regista che giustamente (vista l’inconsistenza drammaturgica) prega per la bravura di Fantastichini e Scamarcio, e si arrangia più o meno bene a dirigerli. Il patriarca Ennio viene, infatti, via via erigendo una cattedrale alla propria recitazione mentreché il giovin Riccardo prosegue nella costruzione di un grande avvenire suo, nel quale lo prevedo e azzardo novello Gian Maria Volonté.

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feria di marzo /1

sono reduce da una settimana di ferie che avevo deciso di dedicare totalmente al cinema, da una domenica all’altra, fruito in sala e da casa. ricreatomi il buio amniotico in casa direi che La doppia ora, visto nella notte del mercoledì, si lascia accomunare allo Shutter Island goduto la domenica prima al cinematografo (a ‘mo di inaugurazione della mia personale settimana santa) dalla fiducia che i loro autori devono nutrire nella scrittura. questa soccorre, ribalta e risolve il senso delle pellicole senza troppi riguardi per gli interscambiabili attori. più interscambiabili, a onor del vero, in quest’ultimo Scorsese che nell’esordio di Capotondi, nel quale Filippo Timi finisce per diventare un caro corpo e intenerente assai in quel suo profilarsi in areoporto mentre Ksenia Rappoport convola a ingiuste nozze imbarcandosi per Bueno Aires. Molto gotici tutti e due i film, ad unirli è quella poderosa, inarrestabile, implacabile macchina divoratrice e annientatrice di uomini che può essere la mente. gran parte delle vicende narrate si svolge tutta chiusa dentro la mente dei due rispettivi protagonisti, e la si crede vera fintantoché l’autore non ritiene giunto il momento di aprire la storia anche al punto di vista di qualche altro suo personaggio. su tutti eraserhead, la mente che cancella o che vorrebbe e non riesce a cancellare, la mente umana che non si riazzera mai ma che tuttalpiù, ove mai la si forzi a resettarsi, può solo essere riassalita, e questa volta molto più caoticamente e pericolosamente, dai traumi del passato.

anche se questo non è interessante comunico che Ksenia Rappoport è decisamente molto innamorabile. a me non capitava di innamorarmi degli ologrammi dello spettacolo dai tempi di Heather Parisi a Fantastico.

diario di un giullare timido

oggi si posta così, fuoco e luce e vento

diario di un giullare timido

dal tabernacolo un sibilo

i giorni tengono dietro ai giorni. l’attesa è un pantano in cui, a più a più, affondano i miei zoccoloni. lo scrittore è un acuto analista di come e qualmente sia belva egli stesso, idolo spaventevole che si sottrae a ogni teorizzazione: egli, come il popolo, procede noncurante, “forza della natura che si divora da se stessa”. s’inizia sempre credendo di essere agli altri ed a se stesso faro, sicuri di poter stanare la bestia totemica in nome della quale si sacrificano vite. si finisce invece ciechi e irresistibili, manichini autoreggenti mantenuti verticali da una continua corrente verticale, sbisciolante, scaturigine inesausta di una brace che arde da tempo immemore, alimentata da chissà cosa che affonda nella leggenda. l’ostinazione a vivere dell’umano bestiame ci informa e non mi scevera. seguita a non vedermi la sconcia italia mentre assevera i miei postulati.

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CIRCUS

AFFONDINO, SIORI, AFFONDINO LE MANI IN QUESTA PLEPLE’!

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