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diario di un giullare timido

Contro l’omertà. Fuori i nomi

Davanti a Ciciuariedde della frutta ci stava un gran quaquigghio di fioroni e anguria schiattati per terra. Vituccio Cevolelova, oltrepassato ‘u Tremuande, spuntò da sotto l’arco e, temendo scivoloni, acchemenzaje a gredaje appresso a Ciuciariedde: “Uagliò, ma ce sta a chembine?!! Ma vuè staje chiù attente??!!”. “Vetucce” rispose il fruttivendolo, “allassame perde. Ca ce non se sporche non se pelenze.”

diario di un giullare timido, letteraria

Quando il romanzo lo scrive il film

E a proposito di ‘far decantare le cose’, torno solo ora dalla lettura di Gomorra, dopo aver lasciato che si accumulasse polvere sul libro per ben tre anni. Acquistato alla sua prima uscita e subito deposto in uno scaffale della mia libreria, avrei voluto che sul fondo del caso Saviano si depositassero tutte le distorsioni mediatiche per poi poter sprofondarmi nella lettura del libro finalmente chiarificato ma, ahimè, devo constatare che non è mai stato possibile in tutto questo tempo togliere l’ingombro del film e degli oscar mancati, della scorta, della fatwa dei casalesi, delle polemiche sui giornali, dei nuovi interventi giornalistici di Saviano e del conseguente, rinnovato clamore attorno all’affaire. E poiché sospettavo il libro un po’ troppo schiacciato sul cronachismo, per non perdermi completezza di informazioni a sicuro rischio di obsolescenza, mi son dovuto affrettare a leggerlo. Ma non diversamente da come affronto la lettura quotidiana de la Repubblica: compulsivamente. Nell’ossessione di avere il presente interamente monitorato, dominato e posseduto, e nella penosa illusione che quante più numerose e dettagliate sono le informazioni che dal presente riesci a ricavare tanto più accresciuta, puntuale, agguerrita e centrata sarà la capacità di scavo della tua lingua al cospetto della realtà. Il tutto secondo una logica però malata, che ottiene l’effetto opposto: ti porta pian piano lontano dai libri ma sempre più addosso ai quotidiani, ai settimanali, alle notizie on-line. Ecco, Gomorra l’ho letto con questo personale spirito di stare andando lontano dai libri e più vicino, anzi sempre più dentro la mia personale coazione a ripetere l’inutile lettura di articoli, critiche, recensioni della cosa. Un demente girare attorno alla cosa a scapito della discesa, dello smarrimento NELLA cosa.

Aggiungo però, a lettura ultimata, che Saviano ha scritto un libro di grande valore e che tale valore vada inscritto in qualche branca delle discipline intellettuali ma non certo nella Letteratura, ambito nel quale mi sembrava claudicasse.

E poi di Gomorra: Saviano ha scritto il libro ma il romanzo l’ha scritto il film. Li si pongano a confronto e, a parte l’ovvia considerazione che senza il libro non ci sarebbe il film, mi si dica in quale dei due mezzi espressivi si rintracciano i segni di una grande narrazione.

diario di un giullare timido

Les bon-mots (pour moi. Ça va sans dire)

Pane, uova, burro, latte. Decantare. Lasciamo decantare le cose. Le mafie. Lattuga. Cacciare (nel senso di tirare fuori qualcosa o sbattere qualcuno/qualcosa in fondo a qualcosa). Scolpire. Lenzuola fresche e ben stirate. Cardini (quelli veri però, delle porte). Ricevitore. Prenditore. Carne. Nocelle. Apoteosi. Cartoccio (da cui anche cartuccio, incartocciare, scartocciare e incartocciato). Trimone a vento. Terrazza. Terrone. Muretti a secco. Pellicola. Scapole, inguine, lungo la curva della schiena, l’incavo, i tendini. Strappare. Cassetti. Tele incerate. Telecamere. Tastiera. Capelli, la ricrescita, la radice. L’uccello. Parco auto. Caldaia, termostato, ghiera, doghe in legno, fave, interruttore, lampada, carrozzina, andito, buio, suoni. Solido. Ceramica. Gres porcellanato. Scamazzare, rocciatore, caraffa, condizioni pedoclimatiche, caratteristiche organolettiche, terreno, tralcio, la guida (come manufatto che permette lo scorrimento di un corpo da un punto all’altro). Chiusino. Flessibile (come sostantivo). Fanga e fangaia. Porcaio, carnaio, ginepraio. Pelle e sutura. Antipiretici. Guardia, ladro, gaglioffo. Manutengolo. Cedimento e squarcio. Tenuta stagna. Serpeggiare. Lingueggiare. Nuca, testina e morticini. Acidità. Brutto. Entraglie/gne. Sbranare. Guerriero. Riposo. Eternità. Guanciale, sgabello. Papà. Lampascioni. Subacqueo, gommone, spuma di mare. Muto. “te la vedi tu, adesso.”, “Io non ti pago.”, “Ti mangio il cuore.”, sarabanda, santabarbara e zumpapà!

diario di un giullare timido, funghi patogeni, riflessioni su due ruote

Libertà di una lavatrice

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Le passioni e gli appetiti della società degli uomini: Il Potere Vs La Giustizia. Il papa non serve che sia cattolico così come non serve che un giudice sia giusto. Uomini che sembrano troppo grandi e pesanti per la loro ossatura.

Televisione = società della scarsità delle risorse. I Cesaroni Vs Annozero. Scampoli di commedia all’italiana Vs scampoli di informazione.

Incartamenti di parole e altri peni pieni di euri e scadenze. La lavatrice. Una volta camminava. Non le avevo tolto i distanziali e lei camminava. Era uno spettacolo. Ansia di libertà di una lavatrice.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Una maledizione di guano nella stradetta, di pesce dalla pescheria vicina, di morti.

Di morti maledicenti, ecco, non più maledetti. Uomini morti sderenati da tali sondini che sembran vivi. Emanano odore di fiori incomparabilmente belli e marci.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Il divano-letto-di-morte perennemente aperto. Piace Lance Armstrong stavolta. Non perché debole, no. Ma perché quell’uomo in bici recupera e ricompone la nobiltà dell’uomo, se esiste.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Sono di fretta. Mi mettono fretta. Mentre faccio delle cose un ragazzo sui trent’anni mi costringe a interrompere. Una corporatura troppo grossa e pesante per la sua ossatura, sembra uscito da un libro che sto leggendo. Una contrazione sulla faccia gli conferisce un’espressione sofferente. Come se soffrisse mostruose calure da generazioni.

  • Ma questo a che serve? – ha la pastella agli angoli della bocca e anche al centro delle labbra. Ogni volta che quelle si schiudono rimane una fettuccina di questa ricottina a far loro da esile congiunzione
  • Serve, serve – cerco di liquidarlo.
  • E come, spiega.
  • Ok, te lo spiego.
  • Eh, spiega, spiega.
  • Vedi questo? Qui ci devi inserire quello.
  • Ah, davvero? E che ci fai?
  • In questo modo ottieni questo risultato –, penso di aver concluso.
  • Come questo risultato?
  • Questo!
  • Ma quale risultato?
  • Quello che ti ho appena detto! – mi innervosisco.
  • E spiega. Spiega bene – mi fa con un’espressione tra l’implorante e l’ottuso.
  • Allora… -, e gli ripeto tutto quanto.
  • Ma come?
  • Ma come come? Così! -, sono spazientito.
  • Così? E come così? Spiega, spiega bene.

Ripeto tutto come un automa, mentre osservo le sue labbra rosse come sacche piene di sangue fresco e il filamento che ostinatamente si riforma e non si stacca.

Non è, però, il libro che sto leggendo.

diario di un giullare timido, letteraria

I piccoli amici

Da tempo vado contemplando Il Piccolo Principe.

Da tempo ho smesso la lettura del Piccolo Principe e ne ho cominciato la contemplazione.

L’aver parlato de L’amico ritrovato su questo blog, probabilmente mi sta offrendo il destro per rispolverare risorse comuni ai due libri. A partire dal concetto di amicizia come matrimonio dell’anima, formulato esplicitamente nelle pagine di Uhlman ma non per questo meno presente e meno possente dentro quelle di Antoine de Sainte-Exupéry.

Dicevo della mia estasi contemplativa. Potrebbe sembrare un eufemismo per attenuare il carico di banalità nell’espressione: Il Piccolo Principe, il mio libro sul comodino. Ma comunque la si metta io continuo a vedere, neanche fosse la televisione, il Piccolo Principe. Continuo a vedere il libro, dove a pag. 15 ho appuntato: il non vedere eccita la creatività. Il piccolo principe non ha bisogno di un adulto che gli spieghi le cose (anche perché “i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta“) ma di qualcuno che lo aiuti a creare il proprio mondo.

Si parla qui di un libro che lotta contro la damnatio memoriae: la cancellazione del nostro essere stati bambini. Ed è esattamente in questo punto delle mie considerazioni che mi sono venuti in mente Dàniel e Michelino dei miei RAVB, su quella forza ansiogena che agisce nel secondo di non doversi mostrare bambini e su quel puntellare del primo: “Guarda che siamo dei bambini“. E contemplo quindi la dedica di Sainte-Exupery: A LEONE WERTH, quando era un bambino.

Contemplo il misuratore di grandezza (il disegno riportato anche in questo post). Lo strumento che misura quanto davvero si è grandi è quello in grado di dirci quanto capaci siamo di vedere oltre le apparenze. E come l’elefante dentro al boa anche il disegno della pecora: non la pecora ma una cassetta con tre forellini. Ricavo, da questo, persino consigli di scrittura, sull’arte di nascondere che aiuta a far vedere le cose. Altri consigli di scrittura sono ricavabili dalle magistrali caratterizzazioni dei vari personaggi incontrati dal piccolo principe nel suo viaggio attraverso sei pianeti prima di arrivare alla Terra.

Contemplo la bellissima prefazione di Nico Orengo, scrittore che niente altro ha prodotto che fosse in grado di interessarmi.

Contemplo le inquietanti analogie tra gli accadimenti del libro e la biografia del suo autore. Le contemplo con le lacrime agli occhi.

Contemplo i quarantatré tramonti come il passaggio all’età adulta: il giorno triste in cui si impose a un bambino di sei anni di rinunciare al disegno. In quello stesso giorno il bambino di sei anni potette assistere a ben quarantatré tramonti.

Il significato di crescere: imparare a fare a meno della cura degli altri.

Contemplo la poesia primigenia di questo libro. Straordinario, per me, l’uomo d’affari che conta le stelle nel cielo allo scopo di possederle (”E che te ne fai di queste stelle?”, “Che cosa me ne faccio?… Niente. Le possiedo.” , ” E a che ti serve possedere le stelle?”, “Mi serve ad essere ricco.”)

Contemplo il piccolo principe epifanico ai bordi delle mie lenzuola insonni e faccio tutto quello che mi ordina senza mai trasgredire.

“Quando un mistero è così sovraccarico non si osa disubbidire.”

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l’amicizia è sagra

Alloggiavo in una pensionaccia di via Nizza. Ero a Torino per presentare Ghiandole alla Fiera Internazionale del Libro. Fissata in Piazza Italia, alle ore 14,00 del secondo giorno della kermesse, la presentazione collettiva degli autori della collana on the road (Prospettivaeditrice) mi chiamava a discettare di romanzo o letteratura (o giù di lì) generazionale. Ma questa era solo la punta dell’iceberg, diciamo la versione più consolatoria. Quel che poco si sa è che per la pubblicazone del mio libro avevo dovuto scucire 1200 euro, pagati in tre comode rate bimestrali di 400 euro ciascuna e, per la partecipazione in Fiera in veste di autore, mi era stato richiesto dall’editore la stipula di un contratto di agenzia con Interrete, gestita da un altro autore della stessa scuderia prospettica, contratto in cui si pattuiva un mio correspettivo di 750 euro a fronte di un’attività promozionale che non ha prodotto alcun risultato perché non c’è mai stata.

“Sacco, ma il contratto con Interrete non l’hai ancora fatto?” mi telefonò l’editore.

“No.”

“Muoviti, allora, sennò non posso accreditarti per la Fiera.”

Si trattava quindi solo di una dazione di testoni propedeutica alla partecipazione al Salone. Sapevo benissimo che avrei fatto meglio a starmene a casa a guardare il Giro d’Italia che iniziava proprio in quei giorni. Ma volli essere della partita. Non me ne pento anche perché mentre cenavo in solitudine nel ristorante sardo gestito dalla stessa pensione ebbi modo di conoscere i miei due vicini di tavolo. Due ragazzi di Novara che erano stati in Fiera per il loro puro piacere di lettori, i quali, ascoltando un mio resoconto telefonico della giornata, mi attaccarono un bottone di amicizia.

Così ho conosciuto Peter. Nell’agosto dello stesso anno fui ospite di Peter a Novara. Tra le altre cose facemmo una gita lungo il lago Maggiore fino poi in Svizzera. Questa gita meriterebbe di essere raccontata per bene solo per la varia umanità incontrata per strada e nelle soste e per il nostro particolare stato d’animo nell’estate del 2006, ma qui non c’è modo di farlo. Dico solo che in una pizzeria sul lago, dove ci fermammo a prendere un birra intorno all’una del pomeriggio, la signora calabrese che gestiva il posto, chiacchierando con quelli che dovevano essere i suoi unici avventori della giornata, si informò su di noi e sui motivi di quella nostra escursione. Per poi concudere con:

“Embè, fate bene. L’amicizia è sagra.”

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L’altra faccia dei miei sodali

Nel 2007 ho frequentato una scuola di sceneggiatura a Napoli, in piazza del Gesù. Organizzata bene, tra i docenti c’erano registi e sceneggiatori come Paolo Sorrentino, Antonio Capuano, Heidrun Schleef, Stefano Incerti, Giorgio Arlorio; produttori come Nicola Giuliano e Angelo Curti.

Tra i corsisti si formarono spontaneamente delle coppie di scrittori che avrebbero dovuto dare un saggio di sceneggiatura alla fine del percorso formativo. Io non ero in una coppia bensì in un trio, con tali Luca Liguori e Maurizio Palmieri. Inutile precisare che avevamo ben più alte ambizioni che mettere insieme un semplice saggio di fine corso. Tirammo fuori due soggetti, entrambi a uno stadio avanzato di sceneggiatura. Per farlo ci procurammo una sorta di buen retiro sino a Procida, una casetta con veranda dove sfornare le nostre idee in tutta tranquillità e senza distrazioni di sorta. Il febbraio 2007, per chi se lo ricorda, era caldissimo. Scrivevamo in veranda, cucinavamo pesce fresco di paranza andando a procacciarcelo direttamente dai barcaioli che rientravano nel porticciolo. Maurizio era dotato di un’ispirazione straripante e io e Luca dovevamo spesso limitarci a disciplinare o organizzare le sue idee a getto continuo.

Tra fortune alterne nel giudizio dei nostri insegnanti la scuola finì a maggio. Dopo il diploma ci diedero appuntamento al secondo livello, master che si teneva a Roma e al quale, per motivi di ordine economico e lavorativo, non potetti prender parte. Maurizio e Luca hanno proseguito e i nostri contatti si sono inevitabilmente rarefatti.

Maurizio Palmieri (come sceneggiatore) e Luca Liguori (come regista) sono, oggi, arrivati a Hollywood. Decretato vincitore il loro cortometraggio in un concorso a Capri, dopo aver ricevuto il primo premio dalle mani di Michael Redford e Mike Figgis, sono stati spediti ad Hollywood per la proiezione della loro La raccolta differenziata nella rassegna W Napoli, l’altra faccia di Gomorra.

Per me questa è stata una notizia pazzesca. Pazzesco è apprendere oggi che a un certo punto della mia vita ero lì, magari a quei livelli lì, senza saperlo. Pazzescamente sottile è la linea che divide la tua vita normale, fatta della consapevolezza di dover lavorare sodo, da … Hollywood. E comunque pazzesco è il fatto che oggi due miei amici siano arrivati fino a lì. Con tutto quello che comporta. Credo non poco. E tutto questo è, per diverse vie, una grande fonte di felicità per me.

Stiamo parlando non solo dell’altra faccia di Gomorra ma direi anche dell’altra faccia della raccolta differenziata. Laddove non arriva l’educazione civica ci arriva una maschera della commedia dell’arte (di arrangiarsi). Non le sirene ecologiste, non i tromboni delle tematiche ambientali, riusciranno mai a ficcare nelle teste di certe famiglie (molte) la necessità della r.d. bensì l’espediente, il raggiro, il paraculo. Ma l’altra faccia del raggiro a Napoli è la creatività, anche una certa perizia artistica, l’originalità, la recita, il teatrino, la tarantella: tutti fattori indispensabili affinché l’inganno riesca. Al finale, di una innocua presa per il culo resteranno i sacchetti della differenziata. Converrà usarli.

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Lo spasmo di Ian

Va bene, allora ci torno sopra.

Ammetto di essere calato al peccato. Sul mio altarino personale c’è Di Pietro che fa capolino da un santino dietro un cero acceso. Di fianco al santino c’è pure la tessera dell’Italia dei Valori. Sono stato dark a quindici anni. Grunge dai diciassette ai venti. Poi mi sono innamorato del teatro e di ‘un maestro’. Ho scritto un primo libretto per raccontare i miei vent’anni e i modelli che mi ritrovavo allora. Ghiandole si apre su un concerto degli Al Darawish (oggi Radio Dervish) nel centro sociale Brioscine Meridionali, che fu forse la mia ultima esperienza giovanilistica, ma non per questo il concerto non fu strafantastico con il cuore che mi si apriva e mi si fondeva con tutta quella ressa per la bellezza della musica e della festa. Cosa che non accadrà mai più ai Radio Dervish. Sono stato iscritto per troppi anni ad Economia e Commercio, fidanzato in casa per sette anni e pettinato con la riga a destra. Ho pubblicato Ghiandole pagando milleduecento euro in tre rate bimestrali. Mi sono dato definitivamente alla scrittura e lavoro all’Auchan per finanziarmi la passione. Poi sono arrivati i Racconti a vita bassa e Quarup e non voglio stare a menarla ancora con questo intrico splendido e nodoso. Da qualche tempo il tesseramento all’IDV. Ieri sera però ho visto questo film . La colonna sonora ha inevitabilmente risospinto la mente verso la mia adolescenza. Lo script invece me l’ha riportata sul mio presente e futuro di scrittura: la strepitosa asciuttezza di una vicenda narrata senza leziosismi e romanticherie, in un cupo bianco e nero (non poteva essere immaginato diversamente un racconto sui Joy Division). Tutto per me è monito di andare all’osso.

Asciugare io asciugo. Ma resta lo spasmo di Ian.

 

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1988-1991

Grazie ad ALIAS del 6 dicembre scorso, uscito con una copertina su la Bibbia Gotica (Arcana, pp. 433, euro 19,50) di Nancy Kilpatrick, ho potuto rituffarmi nei miei sedici anni, età in cui esplorai i territori della new wave e la sottocultura dark. Decisi di essere della partita, un goth, di calcare quella scena lì e di diventare uno in nero. Ricordo che indossavo dei jeans elasticizzati neri, un po’ scaduti sul cavallo, visto che ero e sono tuttora un senza culo, nel senso che non ho chiappe. Non temevo il ridicolo e non mi fregava se mi ridevano dietro. Ancora oggi mi capita, anche sul lavoro, che mi domandino: “Nicola, e il culo? L’hai lasciato a casa?”. Ma tornando ai tempi, mi piace ripercorrere quel mondo di dark alle vongole. Ricordo anche che pensai di arrivare a spararmi della roba in vena per raggiungere un certo stato mentale e dell’anima, che forse mi mancava.

E se questo non successe qualcosa voleva pur dire. Vuol dire che alla fine della fiera era sempre meglio tornare la domenica a mangiare la lasagna della mamma. Il chiodo fisso della magrezza fino al sabato, ma la domenica è sempre domenica. Dovevo essere quello che la Kilaptrick definisce un poseur. Ci si fermava a qualche cannetta e neanche troppo spesso, ché a sedici anni con la paghetta settimanale di dieci mila lire dove potevi andare? Ci si imbucava nelle feste, ancora fatte in casa, a Modugno, Bitonto e Palo del Colle, dove si riusciva a forzarle a tal punto che un diciott’anni impostato sui trenini e pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe poteva anche svoltare non dico sui Christian Death o Siouxsie and the Banshees ma sui Cure e i Depeche Mode, beh questo sì. Il concerto dei Depeche Mode a Pasadena era senza dubbio il momento che prediligevo e chi mi procurava deliquio. Il look prevedeva scarpe con punta metallica abbacinante, maglie e camicie larghe abbottonate bene fin sotto il mento e portate rigorosamente fuori dai pantaloni ma poi ognuno personalizzava come più gli garbava, con spilloni e impermeabili tenebrosi. Le zazzere sguinciate portavano poi gli adulti che ci osservavano a una pericolosa criminalizzazione dei nostri barbieri. Voglio però tornare su un punto: la magrezza come dogma di fede. Ma l’avete visto oggi Robert Smith?

   

Gradite risposte di darkacci sopra i quaranta.

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La Repubblica porta ritardo

Scusate ma non riesco a tenerlo dentro:

ho scritto un libro (Racconti a vita bassa) cercando di illustrare un mondo di esistenze sbagliate, vite piene di scompensi morali e fisici, bambini di otto anni già molto smaliziati ma vittime di crescite anomale il cui futuro è un approdo di perversione; predestinazione alla criminalità; un collegio monastico con tutta la violenza fisica delle suore che porto ancora dentro di me; bambini dispersi, ritrovati e di nuovo abbandonati; una dedica a tutte quelle persone che vivono nella totale perdizione e che non intravedono il giorno in cui riusciranno a ritrovarsi; la desertificazione del suolo e l’inaridimento dei rapporti umani; vite vissute per delega, secondo il condizionamento se non la prescrizione di qualcun altro, vuoti interiori incolmabili, arsura morale da parte degli adulti e, per converso, infanzia violata anche da matta bestialità; e nessuna bellezza a far da paciere col mondo.

Le storie intrecciate di Dàniel e Michelino bambini, Gerardina la genitrice possibile e falsa, della quale mi affascinava il percorso che porta una donna, che si sente benefattrice perché fa la carità e raccoglie i bambini per strada, a non sentire più nulla, come per una sorta di legge del contrappasso, finisce per non sentire più nulla sia fisicamente che metaforicamente. L’ho punita in questo modo perché è una persona che ha costruito tutto sulla falsità, sull’ipocrisia, come ce n’è nella nostra provincia: bigottone che fanno finta di occuparsi degli altri ma, quando qualcosa le tocca da vicino, eccole manifestare il loro spietato egoismo.

L’adolescente Olga, ben lontana dalla maturità perché costretta a subire la violenza dell’universo che la circonda: un ragazza in conflitto con tutto e tutti e che colleziona una serie di scelte sbagliate. Olga, diversamente dagli altri personaggi, possiede una famiglia ma evidentemente non le serve.

Tutto un mondo in cui la famiglia non esiste ma di cui, paradossalmente, se ne sente la mancanza, e tuttavia non si tratta tanto di nostalgia della famiglia intesa in senso tradizionale quanto di una rete degli affetti, di legami profondi e reali.

Infine, Riccardo. Spaventevole quanto naturale evoluzione dei personaggi da me creati.

Insomma, tutta una geografia umana ignorata, come nota Giuseppe Giglio, una commedia di demenza e dolore.

Poi un bel giorno arriva R2 (La Repubblica del 20 ottobre 2008) e titola I BAMBINI PERDUTI DI PUGLIA .

Tenere ben presente che si tratta dell’inchiesta di prima pagina della sezione R2 de La Repubblica.

Il giornalista scrive: Abusati, violentati, picchiati. Sono 50.000 i minori abbandonati in Italia, la maggior parte nel Sud. Così, mentre l’adozione è un terno al lotto, le comunità si riempiono di bimbi. Condannati alla solitudine […]
un esercito di ombre condannate ad un limbo: quasi nessuno torna a casa […]
nuovi orfani, figli di genitori falliti… non esiste un elenco di adulti pronti ad accoglierli.

Dopodiché passa in rassegna l’opinionismo di alcune belle teste d’uovo. Nell’ordine, Nostra Famiglia: “parliamo di devianza giovanile e non ci accorgiamo che a esondare è la devianza degli adulti”; il sociologo Giuseppe Moro: “Bruciamo una generazione confondendo l’autodistruzione con la normalità”; il sociologo Saverio Abruzzese: “La precarietà devasta genitori immaturi e la famiglia allargata si disintegra”; Famiglia Dovuta: “è una società tacitamente costruita per l’abbandono… qualche domanda è lecita sugli interessi che si muovono attorno all’agonia delle nostre relazioni; la priorità non è nemmeno più aiutare i figli traditi dall’egoismo, ma salvare gli adulti dal nulla che li uccide; la patente per i genitori”.

Mi si perdoni la presunzione:

MA IO CHE AVEVO DETTO?!

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