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festa della mamma, la miglior vendetta

caramelle di lame

 

Mi sono presa tre giorni di malattia. Alzandomi la mattina scopro che la nuova tappa del dolore che colpisce il mio bambino stamane aveva in serbo che la carne si richiudesse sopra il suo occhietto fanciullo. Nel silenzio dell’alba, quando già una debole luce comincia a filtrare attraverso i doppi vetri del mio appartamento, sono stata svegliata da un rumore minimo. Un suono spaventoso a pensarci adesso. Lì per lì non sapevo a cosa attribuire questo rumore, ero nel dormiveglia, ma poi Piero si deve essere svegliato, deve aver capito a modo suo cosa gli era appena successo e ha cominciato a piangere. Piangere? Erano urla disperate. Mi sono alzata di soprassalto, mi sono curvata sulla sua culla e l’ho preso in braccio e nel frattempo scoprivo quello scempio che il Signore gli ha riservato. E capivo atterrita, terrorizzata, che cosa era stato quel rumorino agghiacciante. La carne che dopo impercettibili ma progressivi spostamenti si richiudeva con un ultimo scatto sul suo occhietto chiuso di fanciullino addormentato. Ho sentito una brutta fitta nella bocca, una lima strisciata sui denti.

Adesso rivedo quest’uomo davanti a me. Questo bastardo, lo rivedo dopo vent’anni e proprio non me ne faccio una ragione. Sono tante le cose di cui ho imparato a farmi una ragione. Nel Nuovo Testamento Paolo dice che il dolore non è altro che “il sovrabbondare della gloria in tutte le tribolazioni”, ma io adesso non ce la faccio più.

La lingua è nata per celebrare il mistero del corpo glorioso.

festa della mamma, la miglior vendetta

Carta di caramelle

Improvvisamente mi sono vista uscire da una bolla acquosa e prendere forma. Improvvisamente è iniziata la mia seconda vita.

La sfera è fatta prevalentemente di acqua. Acqua salata ma limpida. Da qualche minuto sulla sfera si è formato un riflesso nel quale è possibile scorgere i tre quarti di un uomo sulla cinquantina, magro, il volto scavato ma l’aria distinta. La sfera rientra in una costellazione di sfere tutte molto simili tra di loro, tutte fatte di acqua leggermente salata. Tutte raggruppate sopra il labbro.

Quando mi sono accorta che mi era cominciato il sudore freddo ho lasciato la fila allo sportello della stazione e sono corsa in bagno per darmi una sistemata. Ho tamponato il sudore con un fazzolettino di carta che ho buttato via nel cestino e mi sono guardata allo specchio con le mani appoggiate sul lavello. Le braccia mi tremavano ma dopo un pò il mio corpo aveva cominciato a trarre beneficio dal contatto con la superficie fredda del piano liscio in cui sono incassati i lavandini. Mentre esaminavo il mio volto nello specchio sono riandata alla scialba immagine di quell’uomo riflessa nello spicchio della bolla. E gli spicchi di ciascuna delle bollicine di sudore che mi imperlavano il labbro mi replicavano l’immagine di quel bastardo in un effetto prisma che ha sancito in via definitiva il mio odio per questa persona. Tutto qui. Prendere atto di questa rinascita all’odio è stato questione di un minuto. Ho dato due colpetti con la mano per aggiustarmi i capelli e sono uscita dalle latrine rovistando nella borsa alla ricerca del cellulare. Le mie dita, come mosse da un estraneo, frugavano agitate tra uno specchietto sbeccato e il portamonete, restavano impigliate tra la pinzetta delle sopraciglia, il mazzo delle chiavi e la lima per le unghie. Il telefonino non lo trovavano mai. Ancora lì tra carta di caramelle, deodorante e borsellino portadocumenti, poi il caricatore del cellulare. infine il cellulare.

Decisi di tornarmene a casa. Composi il numero del mio capo e lo avvertii: mi sono sentita male per strada, non mi sono ancora ripresa, non posso venire al lavoro.

foto di
Fabio Ciampi

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