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le torsioni dell'anaconda

1998 – L’ispido e la carcassa

Un cancello marcio di ruggine annunciava un lungo viale ottenebrato da una giungla di enormi piante abbandonate all’incuria più completa, rovi sterpi e tralci invasivi, in mezzo a cui spiccavano dei gotici mastodonti del regno vegetale: tre giganteschi pini neri lasciati a levitare negli anni e a spandere ombra tutto attorno. Il sole alto sui borborigmi della vita cittadina, fissando una provincia dalle budella in disordine, la vedeva bene questa macchia scura di vegetazione che impeciava la terra e la forava come un buco nero.

La villa era cacciata in fondo al viale e scopriva, di tanto in tanto d’in tra il fitto frascheggiare, i suoi due piani di intonaco cascante: due scatoloni di cemento posti uno sopra l’altro in maniera sfalsata, non combacianti. Il primo, un piano rialzato, era disabitato e mostrava tapparelle abbassate di sghimbescio, sfondate in più di un punto, e altre finestre coperte di assi inchiodate. I tre vivevano quindi solo al piano superiore di un malmesso edificio in fondo ad un viale ai lati del quale premevano altre ville: case basse, imbiancate a calce più compatta, edificate durante il ventennio fascista e che spesso, a voler frugare con spirito d’inchiesta, risultavano appartenenti se non a una stessa persona, almeno almeno a una stessa famiglia. Tutte queste davano sulla strada coi giardini e con i cancelli grandi, una strada che disegnava un impercettibile curvone parabolico e veniva tagliata da stradette in cui, per il solo fatto di esser laterali e minori, pareva che fosse consentito a certi di posteggiare le macchine nel bel mezzo della sede stradale. Se altri aveva da passare con la sua, di macchina, accettava come costume ormai consolidato la seccatura di andare a citofonare ai vari interni del circondario per chiedere di chi fosse l’autovettura che ostruiva il passaggio e se per favore potevano spostarla prima che gli saltassero i cinque minuti. Allora veniva fuori uno che chiedeva scusa, hai ragione, o uno che ti diceva solo un minuto, rientrava nella sua casa e tornava dopo un quarto d’ora, come se nulla fosse, oppure ancora uno più incazzato dell’automobilista bloccato che, inalberando punte perotti tatuate a tutto corpo, si metteva a ringhiare: “A ccioine a’na zembaje le cinghe meneute ah!? A taje o a maje?” E dopo aver agitato minacciosamente mani inghirlandate da ditone nere da gommista faceva segno che potevi andare adesso, scasare, sì però a marcia indietro. Countinua a leggere »

le torsioni dell'anaconda

1998 – Marcella Cardascio

Anche se la stretta di mano non era stata delle più vigorose, Corrado le piacque subito; una di quelle persone a cui avrebbe artigliato i piedi sotto il tavolo, intrecciato gli arti e gli altri organi senza por tempo in mezzo. Ben presto Marcella cominciò ad almanaccare su un eventuale accoppiamento, immaginando che poteva esserci un’intesa sessuale animalesca, all’incirca.

Ma dovettero trascorrere ancora altri giorni, molte volte dovettero ancora beccarsi in pausa pranzo, al servizio ristorazione, prima che Marcella potesse arrossire lusingata per un complimento finalmente esplicito da parte di Corrado.

Lui le disse che aveva una bella chiostra di denti, di un eburneo strepitoso, e che gli sarebbe piaciuto godere più volte al giorno di quel sorriso.

Lei aveva chiesto scusa ebu che?

E lui le aveva spiegato ebu che. Countinua a leggere »

le torsioni dell'anaconda

1998 – Tra la Euripoltrone e il desinare

Per spingerli nel bosco la madre faceva in modo che i figli vi intravedessero legna e bacche da cogliere.

Quando arrivava la domenica mattina Innocenza li teneva sotto pressione.

“Corrado, raccogli i tuoi trenini, su. Vita non uscire conciata a quel modo, aggiustati quei capelli, cambiati quella maglia, non lo vedi che fai schifo?, su. Ho chiesto al negozio se ti volevano prendere.”

“Quale negozio?”, chiese Vita incredula.

CandidiCorredi.”

“Scusa ma se un lavoro ce l’ho già, mi dici che cazzo vuoi ancora?”

“Ma quale lavoro? Ci vuole proprio una faccia di culo per chiamarlo lavoro. Vai a sciacquare i cessi, te ne rendi conto?”

“E con ciò? Porto lo stipendio a casa.”

“Non è adeguato al nostro rango. Chi me lo doveva dire a me di avere una figlia che fa la sciacquina? Vedi di farti vedere in quel negozio.”

“Oh, me l’hai fatto di nuovo. Ma sei scema? Ma chi cazzo ti dà il permesso?”

Innocenza guardava sua figlia e più si scorava. La compativa e si deprimeva.

“Non ho bisogno del tuo permesso e anzi, a questo punto sai che ti dico? Meglio. Meglio se non ci vai a lavorare in quel negozio. Non pensare che mi piaccia che tu ti fai vedere in giro. Ti devi aggiustare, sei trascurata. Te le devo comprare io le scarpe?”

“Sei una stronza”, disse Vita a sua madre.

“Mi permetto di dissentire”, disse Corrado, fino a quel momento tutto intento a tagliuzzare legnetti per le traversine dei suoi binari.

“Tu prenditelo nel culo!”, inveì Vita.

“Guarda che linguaggio”, disse mamma Innocenza. “Ma fuori di casa fai così?”

“Certo che faccio così.” Countinua a leggere »

le torsioni dell'anaconda

1998 - Campi uno, due e ter

Il due novembre, come sempre ogni due novembre, la gente s’andava raccogliendo attorno ai propri cari defunti, affluendo placidamente alle tombe. Folte comitive o sparuti capannelli, ma anche commosse solitudini, raggiungevano il proprio tumulo di riferimento per immergersi quindi nella ciarla dei più svariati argomenti. Si accosciavano sulle pietre, bivaccavano, si intrattenevano in oziose conversazioni.

Una donna, dopo aver appeso la sua borsetta a un ramo di cipresso, attaccava a parlare di un tale di sua conoscenza che ieri sera se n’era andato senza salutare. E coi suoi anziani famigliari ne faceva un caso infuocato.

Un uomo in giacca a vento rossa, con un velo di torba in faccia, i lineamenti rifatti dalla dispepsia, recava un mazzetto di semprevivi coi gambi avvolti nella stagnola e sforzandosi di sorridere raccontava a un manipolo di parenti quanto avesse mangiato pesante la sera prima. “Mamma santissima!”, andava ripetendo ogni volta che uno sbuffo da reflusso tipico lo ingrippava.

Si alzava, in definitiva, dal cimitero qualcosa che non mugghio di dolore bensì murmure di cazzeggio poteva ben dirsi. A conferma del tacito e generale convincimento che discorrendo in quel luogo, in un pigro e più o meno amabile cicaleccio, se non un disteso consuntivo quanto meno dei suoi minuzzoli potevano pervenire in qualche modo ad esser trattenuti presso i cari morti.

La narrazione degli avvenimenti che non li aveva visti protagonisti, o tampoco spettatori, perché né il Signore né in seconda battuta il Fato lo avevano voluto, il semplice racconto anche delle puttanate e una pregevole rassegna di estratti dell’oralità popolare contemporanea, finivano per restituire a questi trapassati, a questa stesa di buonanime, una specie di partecipazione a quella porzione di vita e di storiche circostanze che era loro sopravanzata. Ragguagli dovuti a una parata di ex persone individue.

Poco più in là, su un’antica facciata di loculi edificata sul finire dell’ottocento, e per questo ingiallita dal secolo e passa che era trascorso, un vecchietto più nodoso dei suoi conterranei e coevi ulivi picchiava ripetutamente il suo bastone sulla lapide di tale Cirone Antonia 1904 – 1991. Con una voce decrepita, come doppiato dall’oltretomba che pure lo accerchiava, la ricopriva di insulti: “Bastarda! Io te lo dicevo e tu non mi hai mai voluto ascoltare. Bastarda di una bastarda!”. Imprecazioni che più che suonare come blasfeme eccitavano l’ilarità dei visitatori più vicini alla scena.

Una scena che Innocenza Sblendorio conosceva a memoria poiché non di una prima bensì di monotona replica trattavasi. Countinua a leggere »

diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda

Quando sento parlare di società in sonno metto mano alla bomba all’idrogeno

Verrà la guerra e sarà un sanguinaccio di poppammerda e soregegie insieme a tutti gli squarantottati e persi e alle sgallettate con
inutile scilinguagnolo. Si scanneranno peraltro mariesante rivenduglioli e gianfrulloni, e molti staranno a capa sotto. Sventreranno le casupole abiette. A vista: monconi di tubi di cesso dell’odierna società. Ad affiorare, come torme di ratte a ventaglio: quadrincatori d’elevato sentire, sudanti sangue e sgualdrinacce malvissute ormai bistorte. Un’apocalisse di crolli seppellirà vitemarie e punti corradi. E via andare … con la Storia.

altri spot, le torsioni dell'anaconda, letteraria, minimi sistemi

Duecento misti

Nella strada c’era gente che si chiedeva che diamine fosse quella puzza tutta nuova. Molti si lamentavano che era penetrata nelle loro case e che era davvero insopportabile. Bambini che vomitavano. Brizzolati cinquantenni già preoccupati del proprio cuore che scongiuravano eventuali crisi cardiache magari proprio a causa di questo fetore che faceva star male dal tanto che acciuffava allo stomaco. Una donna che quasi abortiva dal tanto che somatizzava. Un grassone che componeva il numero della locale compagnia dei carabinieri. E quando i carabinieri furono sul posto tutti a indicar loro da dove proveniva questo fiato sulfureo. Il bravo giornalista che giurava di aver visto i muri esterni della casa in questione trasudare liquidi fecali, no, seminali, no scusate fecali, fecali. I due carabinieri correvano nel viale, erano sul pianerottolo con le mani a mascherina sul volto e gli occhi irritati se non proprio lacrimanti. Suonavano. Niente. Suonavano e colpivano la porta. Ancora niente. Forzavano la porta e si ritrovavano coi piedi in un pantano scivoloso. Merda. Merda e silenzio. Merda e nessuno. Si lanciavano un’occhiata d’intesa: era successo altre volte di sorprendere intere famiglie in uno stato di degrado simile. Altre volte uomini e froci disperati e condannati da questo paese da incubo si erano ridotti a non uscire più di casa, abbandonandosi vieppiù e finendo con lo smerdare la casa in ogni angolo. Uno dei due carabinieri apriva una porta e scopriva una donna con uno sbuffo di capelli lunghi e grigi soltanto dietro un orecchio, come chi si fosse dimenticato di sciacquarsi via la pro-raso da quella parte, su un materasso completamente abbrunato di dissenteria. Continuando la perlustrazione entravano in un’altra camera. C’era un ragazzo gattoni che sembrava crogiolarsi nella pleplè, a guardar meglio muoveva a rana le braccia per dipartire i liquami densi e lasciare libera una porzione del pavimento sulla quale andava sistemando traversine e regolando lo scartamento tra i binari. Un carabiniere gli premeva due dita sul braccio, a scrollarlo delicatamente.

Corrado aprì gli occhi.

La radio aperta su Uomini e camion e tutto come sempre. Sempre peggio. Solo un potente puzzo di schifo composito che arrivava dalla finestra. Lo stesso che ammorbava la città.

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Io canto /5

E tanto più dolor, che punge a guaio […]

A tutti quelli che diranno che Hereafter, l’ultimo film di Clint Eastwood, è una cacata.

Intanto è un film che riesce a tenere insieme due cose: 1) la conferma dello schema eastwoodiano qui illustrato; dunque, chi lo ha apprezzato in passato non se ne sentirà tradito. 2) l’originalità. Perché facendo di testa sua, cioè fregandosene come ha sempre fatto, Clint parte da un soggetto incentrato sul ‘paranormale’ e va coraggiosamente a raccontare la sua storia fino in fondo, a interrogarsi su cosa c’è dopo la vita, a esplorare il dolore e la morte. Mettendo in scena la solitudine di un sensitivo capace di entrare in contatto coi morti, con gli strapassati – come dice n’amico mio - , gli riesce bene un controfagotto al pernacchio costante di certa rozzezza atea e materialista. E gli riesce pure con ragguardevole finezza psicologica, senza tessere le lodi di alcuna religione istituzionale. Da vedere e rivedere l’ultima seduta del medium col ragazzino Marcus: sembra un duello alla Sergio Leone, una resa dei conti dove le pistole sono state sostituite dai dolorosi interrogativi esistenziali, e il bello è che sono quasi risolti nel qui e ora.

Intesi ch’a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali, /che la ragion sommettono al talento./ E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali: di qua, di là, di giù, di su li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non che di posa, ma di minor pena.

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Chill’ e ‘vvive!!!

È da quando mi si è piantato nella chiorba il motivo della morte implacata, o per meglio dire, la fissa per le circostanze in cui si manca clamorosamente di onorare comme il faut (non importa il rito scelto per questo) la cosiddetta dipartita, che vado ragionando sulle conseguenze della mala sepoltura e del complementare ma non accessorio, anzi decisivo e storicamente necessario apporto delle onoranze funebri. Al riguardo, può essere altamente illuminante, e comunque caldamente consigliato, il film Departures (vincitore del premio Oscar come miglior film straniero) il quale ha l’enorme merito, tra molti altri, di ripulire il tema da ogni goticismo (si può dire?) per puntare anzi con forza sull’elemento della tenerezza, ossia su quell’aspetto di inerzia e di totale mancanza di difesa che si può cogliere nella figura di un uomo morto. Se per i vivi diventa possibile, rispetto al momento del trapasso di un loro caro, questo tipo di approccio - e si badi , approccio che non rimuove affatto il dolore - allora essi vivi abbandoneranno ogni pregiudizio, e anche ogni superstizione, verso chi ha fatto una professione delle pratiche di ricomposizione e di vestizione della salma. Vedere nel film quanto amore si può imparare, quanta sapienza (per esempio nel lavare un cadavere) non sarebbe stata possibile in questo lavoro se il tanatoesteta protagonista non avesse imparato ciò di cui ho parlato fino alla noia in questo blog: l’amorevole cura per i morti.

le torsioni dell'anaconda, letteraria

Io canto /3

Frate Ruffino fu apostrofato “cattivello” da santo Francesco.

Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, / e suon di man con elle / facevan un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira.

“Che c’è, Corrà?”
“Li hai sentiti anche tu quei rumori?”
“No.”
“Degli scoppi. Delle detonazioni. Delle urla. Come di qualcuno che combatte strenuamente col demonio.”
“Ma vattene a dormire, va’.”
“Ma come? E le voci? Neanche le voci hai sentito?”
“No. Che dicevano ’ste voci?”
“Ho sentito distintamente le grida. Si apostrofavano cosaccio e birbaccione!!!
“Ma vaffangule, Corrà!”

Ed ecco verso noi venir per nave / un vecchio bianco per antico pelo, / gridando: ” Guai a voi, anime prave! / non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo. / E tu che se’ costì, anima viva, partiti da cotesti che son morti”.

Il vecchio seduto sulla solita sdraio in cucina ripeteva che diluvia, che gli fanno male le mani, che un gelo mai sentito prima si è impadronito delle sue povere ossa. I geloni sono diventati piaghe che gli trapassano da parte a parte le mani. Che il demone con cui lotta è il principe delle tenebre, vero, ma nelle tenebre non ardono fornaci, non è vero che c’è un caldo insopportabile, anzi è vero il contrario: una gelatura insopportabile, questo è l’inferno, caro ragazzo. E il birbaccione con cui si scambia mazzate, a cui sferra cazzotti, da cui riceve calci in faccia e nel costato - vedere gli ematomi per credere – altri non è che il vessillifero delle armate di ghiaccio.

diario di un giullare timido, le torsioni dell'anaconda

Ascessi

elevato in ispirito, insensibile alle cose terrene, alle quistioni corporali, all’amor carnale, al secolo. grande santità. svolgo prieghi per le anime del purgatorio, digiuno, reco cerchi in ferro alla carne, parlo lugamente di dio, a satana cacogli in bocca. certe sirocchie mie seguitano l’esempio, conformandosi in cristo crocifisso e benedetto. se non predico sto mutolo.

mansueta l’anaconda, passa da un uscio all’altro e quando si parte da questo mondo grande compunzione nei cuori dei concittadini ché ellaserpe ricordava i miracoli miei.

ho le stimmate.

dio vuole cinquantamila euro per il riscatto.

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