In tutti i paesi la morte è un fine. Giunge e si chiudono le tende. In Spagna, no. In Spagna si aprono. Lì la gente vive tra mura fino al giorno in cui muore e viene portata fuori al sole. Un morto in Spagna è più vivo come morto che in qualsiasi altro posto al mondo: il suo profilo ferisce come il filo di un rasoio.
E a cosa somiglia questo processo di rappresentazione affidato a spostamenti più o meno regolari (nel tempo e nello spazio) del punto di osservazione se non a quei “movimenti di macchina” che vengono a costituire il valore aggiunto del linguaggio cinematografico? Questo è proprio il cruciale momento dell’apparentamento, della contaminazione reciproca ormai imprescindibile tra le due arti, dello squagliamento dell’una nell’altra, dell’incesto tra sorelle che nei risultati più “alti” dimentica primogeniture, abroga autorità e presunte supremazie.
Però questo post nasce per dire dell’altro, una notazione di servizio. Se cominciate a leggere questo libro qui vi avviso di una cosa: arrivati a pag. 178 dovete decidere se permettere a una mano, a delle dita cattive, di insinuarsi sotto la vostra cotenna e di mettersi a impastare la materia cerebrale, a rovistare con insistenza nelle sedi del dolore. Continuate a leggere solo se accettate questo. Senza contare che fino a pagina 182 ci sono delle cose che c’entrano parecchio con le mie – o, più rispettosamente, il viceversa.
ecco, questo, forse: si scrive per dinamizzare il punto di vista su acque nere stagnanti. per edificare un viadotto a sovrastare una gola in fondo alla quale scorrono i liquami. per posare delle condotte nella vita e farci passare la verbalizzazione. per articolare con parola anche il mondo preverbale. questo il movente. le posizioni da cui si osserva invece attengono al piano delle scelte stilistiche: da sopra, da sotto, dal di dentro, dal lato. ognuno come può. il vecchio Cormac meglio di molti mentre voga dal suo “schifo”.
L’evocazione di un ciclo organico sballato, come il ribaltarsi del naturale avvicendamento delle stagioni, è il tentativo di rappresentare allarmi e pericoli dalle connotazioni apocalittiche : la confusione tra sfera dei morti e sfera dei vivi stravolge a tal segno il processo di conoscenza della realtà da creare un universo particolarmente terrorizzante. la ruota dell’essere ne è oscenamente sovvertita. una roba da fornire un canone autorevolissimo anche per l’interpretazione di Romero e dei vari zombies da B-movies. per tacer di Sergio Citti che da quel suo film del 1989, per finezza lirica, esce come un gigante del pensiero occidentale. altroché.
invece è chiaro che a costituire il primato del medesimo pensiero è solo l’anaconda .
Vita Maria Germinario si reclude o da altri è reclusa per le vie della manipolazione mentale in quanto è negata un’onorevole sepoltura ad un suo congiunto. negare gli onori funebri ad un uomo è una profonda violazione di imperativi ben più antichi di quelli giudaico-cristiani; un sepolcro irrisolto induce confusione tra regno dei morti e pretese dei vivi, e per questa ragione è avvertito come “contronatura” (nondimeno parliamo di un problema mitico). il movimento inevitabile, complementare e anzi simbiotico a una siffatta condizione di morti con un piede ancora nel mondo dei vivi, è il vivo che discende nella tomba per un condotta appunto spettrale: Vita Maria murata viva, intombata. e i germogli a impazzire nella madre terra finché non si sarà ristabilito il corretto ciclo organico.
Sono scrittore non perché commerci col potere ma proprio perché non intrattengo ancillarità alcuna col potere. Sono scrittore di e in una cultura “altra” rispetto a quella della classe dominante, niente affatto interessato alla facile parlabilità cui quella è pervenuta, estraneo pure anche all’ottimismo da “magnifiche sorti e comunicative” di quella. Sono scrittore, bravo o meno non importa, per predestinazione e quindi per necessità. Sono scrittore proprio perché mi va di ricorrere al dialetto epperò senza ruffianerie, cioè senza glossari, quindi per totale fiducia nel suo potenziale espressivo. Sono scrittore perché vivo attraverso i miei degenerati, i figli di famiglie infelici di RAVB, raccontati nel passaggio dalla loro dimensione chiusa e arcaica all’aria aperta della società che li detesta, e perciò stesso divorati dalle nevrosi, e in tale passaggio resi all’istante dei disadattati senza speranza che come uomini si adempieranno soltanto nella perversione. Sono senza speranza loro perché sono scrittore pessimista io. Pessimista in quanto come scrittore non faccio altro che farmi incrinare, deliberatamente, le mie certezze strutturalistiche. E ogni volta mi rifaccio una verginità strutturalista e ogni volta me la spappolo. Poi, i miei “poveri”: non li seguo con umanitarismo peloso, il modo più facile per abrogarli del tutto; piuttosto me li faccio e da loro mi faccio fare, in senso genitale e quindi creativo. Sono scrittore perché trovo che la più bella novità dell’anno nel panorama del “raccontare” sia quel Sergio Citti filmato da Martone mentre commenta il suo filmato girato una decina di giorni dopo la morte di Pasolini, all’idroscalo di Ostia. La forza di quel racconto è proprio la forma, un loop doloroso, lo stile iterativo e ossessionato, e, letterariamente, la lingua di Sergio Citti, lamentosa, manicomiale, con dentro tutta la nostalgia di sapersi irrecuperabile a ogni ottimismo, ad ogni perfezione. “Ecco qui la maaghina […] erano due le maaghine …”
L’anaconda perché mi pareva ben potesse significare “scandalosa bestia”, e mi serviva un’immagine per lo scandalo di cui volevo parlare. Mi tocca precisare: scandaloso non il rettile in sé ma la simbologia fallica che i serpenti incarnano nell’immaginario collettivo. Mi dovevo servire, su un piano simbolico, del livello di scandalo che può essere raggiunto e provocato nella percezione comune dall’ostentazione e dall’ostensione in piena luce di un fallo dalle dimensioni “grandiose” (un anaconda appunto) per richiamare l’attenzione su quanto davvero e unicamente merita la qualifica di “moralmente scandaloso”: la violazione dell’intimità operata da una determinata struttura sociale (hegelianamente uno stato, pasolinianamente un potere). Ho cercato quindi di raccontare - articolando sul doppio motivo della reclusione/occultamento del “brutto” e del decoro nelle sepolture dei morti - il conflitto storico, eterno e immanente, tra valori sociali (più o meno legittimi e condivisibili) esteriori, da un lato; e dall’altro le ragioni intime (allo stesso modo più o meno legittime e condivisibili) profonde, notturne e irrazionali come le potenze buie, di chi teme più di ogni altra cosa l’esposizione “agli occhi di tutti” delle proprie miserie e vergogne o anche, puramente e semplicemente, della propria intimità. Se, in definitiva, mi ritrovo a raccontare la mia società, questo accade non per programma concepito a tavolino ma per una sorta di emersione ineluttabile della società stessa, manifestazione la cui prepotenza è tutta nelle spinte ascensionali prodottesi con l’adozione di quella precisa chiave.
affermo pasolinianamente, cioè, che la lingua mondadoriana (mi riferisco alla narrativa e agli autori italiani della scuderia mondadori), nella sua veste di facile parlabilità, nella sua essenza di fluente semplicità che del dire non conosce inciampi né rattrappi né sbalzi, è perciò la lingua della “cultura ufficiale”, la quale cultura, come la “storia ufficiale”, è scritta (con ciò intendendo: enunciata, espressa) dai vincitori. come tale essa rinuncia all’avventuroso, al piacere dell’escursionee dell’inatteso, abiurando così anche all’incursione nell’inatteso. in poche parole rinuncia all’invenzione. e non v’è chi non veda come questo fenomeno abbia ben poco di artistico. il “vincitore” letterario, o colui che ambisce ad esserlo, non ha che da non avere coraggio, non ha che da evitare di osare. PROGRAMMATICAMENTE. questa è la lingua del potere, lingua morta e lettera morta poiché di essa, e dei libri in cui è scritta, niente rimarrà. è, questa, una previsione talmente facile perché consegue dalla totale mancanza di metafora, di espressività e di valore simbolico, riscontrata negli oggetti osservati.
la lingua non si staglia sullo scrimolo per proclamare la sua costernazione abbaiando alla sconcia italia. ci arriva appena, spolmonata e ascetica, sfiancata dalle impervie rampe. slombata la lingua che impara a “morire in bici”. s’acceca e si spaura quando che è al sommo, sicché la vertigine la ributta indietro. ricacciata giù per lo stesso versante appena scalato, tutta rovesciata e rattorta, ellalingua riattacca l’erta del dire le cose, ora anfanando ora cantando, quando imbestiando quando ricamando, ma sempre alla caccia della migliore adesione alla realtà (andata in fuga). non ha il gusto della pesca nel torbido perché non è ruffiana né cialtrona né puttana. la mia lingua. RAVB era cognazione d’affetti coi via di testa. e lo stesso l’Anaconda. sarà per il pessimismo di una visione della vita in salita ma almeno è costretta a ricercare la migliore funzione espressiva dei mondi che sceglie di narrare. ben altro che scrivere per mondadori! nevvero, saviano? nevvero, piccole editrici autodistruttive, fresche fresche del nuovo imperativo di mimesi mondadoriana?
nel momento in cui la lingua raggiunge la vetta sa che ha appena un attimo per gridare la sua invettiva congestionata, che poi non ha più tempo e deve rotolare giù a “svolgere il compito cui è stata chiamata” (direbbe qualcuno).
che fa lo scrittore, ancorché scrittore civile? non affronta l’arte di dire le cose, bensì l’erta di dire le cose.
Per il solo fatto che mette in musica la versione di Hölderlin, l’Antigonae di Carl Orff del 1949 si inserisce senza dubbio tra le metamorfosi filosofiche , poetiche e politiche del motivo di Antigone nella storia e nella sensibilità tedesca. È collegata alle interpretazioni hegeliane, ai dibattiti ispirati da Hegel e Hölderlin e alle teorie di Nietzsche sulla tragedia […] Il lavoro di Orff ha suscitato un disagio psicologico-critico. Molti lo hanno trovato seducentemente brutale. Altri solo brutale. Nell’Antigonae, coro e corifeo hanno un peso monumentale. Il loro modo di esprimersi è, come in tutto il resto della partitura, bruscamente sincopato, percussivo, testualmente articolato sino a rappresentare lo Sprechgesang. Mentre Honegger orchestra in modo tradizionale, il timbro e la struttura dell’orchestra di Orff puntano a degli effetti «neo-ritualistici» ed «etnografici». Le batterie di pianoforti segnano il ritmo dominante. Gli xilofoni, le marimbe, i tamburi di pietra, i carillon, i tamburelli, le nacchere, i gong di Giava, un’incudine, una congerie di tamburi africani, i cimbali turchi danno ai discorsi e alle odi corali un tono martellante, febbrile, ma anche piattamente metallico, quasi traslucido. Sono i vecchi patrizi di Tebe, tremanti, capziosi, eppure solenni e talvolta ispirati, come Sofocle può averli visti declamare, cantare e danzare. Secondo me ci sono episodi dell’Antigonae di Orff che riescono a rievocare l’effetto della tragedia meglio di ogni altra variante o imitazione.