a voler tradurre la realtà “contro” le versioni mediatiche devo ammettere, visto il mio momento hegeliano, che il riformismo ottusamente perseguito dal partito democratico, con pertinacia solo apparentemente contraddittoria rispetto alla comune percezione di un soggetto politico amorfo e privo di identità e paralizzato da reticenze e assordanti silenzi, è il frutto più gustoso della politica italiana. il piddì, lui sì, nelle sue varie espressioni e nella storicizzazione dei modi assunti di volta in volta, una stagione politica dopo l’altra, è coerente come solo il personaggio di una tragedia può essere. e pazienza se, inscritto in un destino a cui non ci si può sottrarre, corre a rompicollo verso la sua estinzione. certi flippati e sciroccati di cervello, che dialetticamente agiscono dentro e fuori la creatura veltroniana, ne condividono la medesima sorte.
non può non essere così.
sono serio come serio se non addirittura sacro considero il motivo dell’amorevole cura per i morti.
nonostante le date addietro nel tempo, magari da poco erano stati lasciati andare in pace e poi arrivo io, tomo tomo e costernato della sconcia italia, e mi metto a sfrucugliare n’altra volta nello strapassato e tra le anime di questi loperfidi e criscuoli poveretti.
“E proprio durante una di queste messe, a Candido avvenne di scoprire, un pensiero dietro l’altro, che la morte è terribile non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano: così come suo padre nei ricordi, nei pensieri e nei sentimenti di Concetta. Doveva essere una fatica per il morto, aggirarsi ancora in quello che i vivi ricordavano, sentivano e pensavano; e persino in quello che sognavano. Nella immaginazione di Candido, era come una specie di violento richiamo, un fischio cui corrispondeva una corsa, un bolso e ansante arrivare. Quella che Concetta chiamava l’altra vita, era propriamente una vita da cani.”
per questo lato che la strada divide piazza garibaldi da certi palazzotti fine ottocento affaccia il mio talamo di balconcino alla romana oculodotato, per la vitrea sorveglianza su uomini mai stanchi di ragionarsi la vita e mai paghi di spiegarsi la geografia l’un l’altro, davanti al bar d’angolo che sorge su uno dei vertici della piazza garibaldi o villa comunale. e non tanto caro il sipario, d’orrida geometria, di pitosfori e oleandri che da cotanto anfiteatro (a petto del buon vecchio cisternone) il guardo esclude. e gli uomini immobili mai li diresti comunque ingaggiati nelle selezioni per certe gare finali, discplina olimpica “chi è più dritto campa la casa”.
da questo lato della piazza che corre sotto i balconcini alla romana, e il mio tra quei, si susseguon l’ubi banca carime, isabel pasticceria rosticceria, ultima calzature melluso, il sali e tabacchi, uno studio tecnico di progettazione edile, l’autoscuola appia, piante e fiori la villetta, milan club fedelissimi. ivi termina piazza garibaldi e s’incomincia via bitonto salutati dalla statuetta di una madonna con bambino conservata in un’aggettante edicola votiva, dal muro dell’edificio sulla destra. la vergine col calcagno fieramente premuto su una bomba mollata sopra modugno durante l’incursione aerea del 16/7/43. via bitonto conduce fuori città, oltre la ferrovia, al camposanto.
meh, tutto questo ambaradan solo per riportare due qualche epigrafe cimiteriale.
guardate la protervia mai doma del saccente
FORTUNATO LOPERFIDO
PADRE ESEMPLARE CITTADINO LABORIOSO
CHIUSE LA VITA TERRENA ADDITANDO LA VIA DELLA VIRTù
ALLA MOGLIE ED AI FIGLI INCONSOLABILI
10-10-79 19-11-46
commuovetevi dinanzi a questa abnegazione esplorativa infrantasi contro l’impotenza gnoseologica:
Se facciamo come vuole la legge, vengono a prendere il cadavere. Ci restano solo centocinquanta dollari. Se ce ne prendono quaranta per seppellire il nonno, non ce la facciamo ad arrivare in California… Altrimenti lo ficcano sotto terra come un pezzente.
sentendomi tubercolotico come una ormai esangue, clorotica badilante del Voreux esorcizzo i miei timori allunandomi con Méliès. se il polmone s’ingromma e la nerezza d’inchiostro t’impiomba nella depressione niente risolleva meglio del bagliore magico nel buio amniotico d’un cinematografo, e l’ingagliardir di lanternismi che da principio questo si fu.
per chi non capisce aggiungo solo che siamo dalle parti dell’anaconda ovvero delle metafore sulla germinazione, di Zola e di Vita Maria. come dire o affermare la possibilità di fecondazioni postume.
siamo a fine ottocento, compris? siamo nell’obice del 2010 che si infila come un dito nell’occhio della penultima fin de siècle. siamo al vero, mortale testacoda intersecolare.
Ci sono momenti che sembrano scoccati appositivamente a inveramento del detto ‘nella vita nulla accade per caso’. Adesso imperversa il Padre, trattato con guanti(ni da zarevic) a certi piani alti del ‘romanzo’, e più modestamente affrontato anche dal sottoscritto in chiave prevalentemente patologico-ossessiva. “Di sepolcri, di sepolcruli!”, si potrebbe strillare. Si potrebbe strabiliare. E il tema di far riposare in pace i nostri morti si rovescia sempre nell’inconscio e maldestro tentativo di far riposare in pace le nostre vite hic et nunc.
Questi momenti sembrano comporre il catologo ragionato dell’anaconda, un mondo di solito molto più irragionevole, dove poi ogni cosa cade a fagiuolino occhipinto. Discettando di padri può capitare di passare all’esegesi dei patronimici. Un cerchio blu infinito, e in lui un astro… però sarebbe più un matronimico, e spirituale. Si prega di non andare a pescare tra le maglie blucerchiate l’esemplare tipico di devoto a San Nicola. Già fatto.
Ma le curiose ridondanze fioccano. La Grande Madre Penna che rinomina i suoi toy boys ha visto al cinema il manga in 3D Astro boy?
E vogliamo parlare poi di questi animali e piante, così somiglianti ad esseri umani, che paiono travasarsi da un’opera all’altra?
in questi momenti il mondo interlacciato può diventare una vertigine fatale. Letale per chi legge.
La terza è una traiettoria più dolce, una curvatura dell’anaconda che intercetta il volo ipnotico di un insetto necroforo. Lo scambio fecondo è cosa chiara alla pagina 256:
“Mia madre diede via i miei cani; quando morì, morì con i suoi gatti. Un gatto tigrato le stava acciambellato sul petto, quasi stesse covando la sua morte come una gallina. Un gatto siamese continuò a lungo a gnaolare nella sua stanza vuota.”
Tra coloro che leggo come le grandi asciugatrici americane, memento perpetuo all’essenziale, scopro questa autrice di racconti. Ogni racconto è una crosticina sulle pagine che formano il grande ventre bianco di una cagna colpita da mastite a cui hanno dovuto portare via la cucciolata. Dice che con lei si riedita il minimalismo, esistente come orizzonte narrativo solo nella mente di Gordon Lish. Un genere letterario intriso di devozione ai piccoli dettagli, investiti di significati sempre più ampi, che chiede al lettore un supplemento di attenzione, uno sforzo di compenetrazione da intendersi come piccolo sacrificio che verrà ripagato poi da sincera emozione. Eppure questo, quando si è al cospetto di Amy Hempel o della Munro o di Carver, continua a sembrarmi solo uno dei tanti aspetti dell’esperienza letteraria o della relazione che si instaura tra autore e lettore, e come tale non può esaurire la domanda di sistemazione critica dell’autore tra le varie correnti della contemporaneità, né tantomeno sembra sufficiente alla codificazione di un genere se non tramite l’affermazione di verità parziali sullo stile e sul giro della frase, e senza mai sventare del tutto il pericolo di fuorviare clamorosamente i lettori posti di fronte alla scelta di affrontare o meno quel libro. Perché quel che si impressiona sui fotogrammi di Amy Hempel, minimalista a detta di molti, bestiole antropizzate a parte, è un repertorio incredibile di aneddoti, spigolature (una donna del West Virginia ha tenuto in grembo il figlio non nato per più di quarant’anni. Si è calcificato fuori dalla parete uterina. Intervistata dai giornalisti, la donna ha detto: “Finché il bambino rimane dentro di me, non l’ho perso”.), battute ad effetto e colte strambate, che poco o niente hanno da spartire con l’esasperazione del non detto. Resta la struttura, per niente aristotelica, né hegeliana, né soggiacente ad alcuno dei canoni più o meno conosciuti, ma tutta bucata, slabbrata, in definitiva ermetica. Un respiro cortissimo come romanziere e il fiato corto persino come novelliere per cui è molto vero che Amy Hempel “è tutto nella frase”. Ma quanto sbalordimento si ricava da ogni sua frase?
“Ci ha detto che da ragazzo dava la caccia ai topi, che una volta aveva scuoiato un topo ucciso da una trappola e ne aveva fatto un tappetino in pelle di topo per la casa delle bambole della sorella.”
La delicata ed estenuata Blanche, che insegna il retaggio letterario a ragazzi che non ne hanno molta voglia, ha i nervi a brandelli, problema per il quale non conosce altro antidoto che l’odiosa civetteria dei bagni rigeneranti; lei li chiama peraltro ‘idroterapia’. La cosa rompe l’equilibrio interno dell’organismo ospite KOWALSKI-DUBOIS che vede la propria alcova trasformarsi in uno stucchevole patchwork di cineserie in stile ‘casa di Gerardina Intranuovo’. Il fatal contrappasso imposto da Tennessee Williams alla sua eroina per aver provocato la morte di Alan senza nervi che scriveva poesie, l’uomo che le fece scoprire l’amore, conduce dritto dritto a sentirsi finiti come sotto un tram, inseguendo da quasi sordomuti un desiderio cieco.
La seconda torsione dell’anaconda ci dice quindi che la strada che porta ai campi elisi è lastricata di cippi funerari, e che l’ampliamento del cimitero su cui indaga anche Amy Hempel nelle sue Ragioni per Vivere, è il più annoso degli assilli municipali visto che “se c’è una cosa che la gente non smette di fare è quella di morire”. Il film di Kazan non si spinge a mostrare la morte e i cristiani nel loro decedere, ma in esso è possibile ammirare la madre di tutte le epifanie incarnata dalla signora che vende “corone per i morti”. E per capriccio, o perché siamo sempre sotto il flusso della Hempel, potremmo anche chiamarli “soffi di bimbo”.
Tutto questo mentre Blanche Dubois, preoccupandosi solo di nascondere le ingiurie del tempo sul suo viso, fa di tutto per non diventare una Vita Maria Germinario. Ma è inutile. Tanto valeva arrendersi prima, come fa la mia, di eroina.
Con questo post inauguro una rubrica che ospiterà tutti quei contributi che siano in grado di dare e ricevere luce, di fare in una parola ’sistema’ con un mio lavoro ancora inedito.
Da TuttoLibri, della Stampa di sabato 9 gennaio 2010, riporto alcuni estratti dell’articolo di David Bidussa:
Del corpo di Mameli si potrebbe discutere come di altri corpi nella storia italiana per sottolineare come nel suo caso – a differenza di quelli di Mussolini e Matteotti, di Moro e Padre Pio, di Pio IX e Vittorio Emanuele II – non si siano prodotte emozioni, ma spesso scene meste: da quella della sua lunga agonia al destino del suo corpo dopo la morte.
Lungi dall’essere un padre della patria, Mameli è stato a lungo un “clandestino” nella storia italiana: oggetto di più cerimonie funebri, tutte contrassegnate dall’imbarazzo, comunque dall’assenza del potere pubblico, al più accompagnato dai suoi amici in una condizione di solitudine, comunque di “sconfitta”. Con una città, Genova, che nel momento della morte impedisce alla famiglia di prendersi il corpo e sotterrarlo nella sua città. E una città, Roma, che ospita quel corpo, ma non lo vuole, comunque si sente imbarazzata dalla memoria di una figura che ricorda l’esperienza della Repubblica Romana del 1849 e i suoi protagonisti come un “affronto al papa” fatto proprio nella “Città del Papa”.
[…] Quello del corpo di Mameli è un lungo viaggio di cui vale la pena di riportare le tappe principali […]
Appena morto ( 6 luglio 1849), Goffredo Mameli viene imbalsamato da Agostino Bertani e poi deposto nel cimitero sotterraneo della chiesa delle Stimmate, a Roma. Nel 1871 le autorità ecclesiastiche autorizzano la riesumazione del corpo, ma il nuovo governo italiano non è favorevole a una cerimonia pubblica […] solo dopo la morte di Mazzini si autorizza un funerale pubblico e la sepoltura al cimitero del Verano, a Roma. Ma quella cerimonia è strana: ci sono molti vecchi compagni d’arme, Garibaldi è assente, la famiglia non assiste. Il funerale è civile. Qualcuno intona il Canto degli Italiani, cui segue la lettura di alcuni scritti di Mameli. Quelle parole suscitano il disappunto dei rappresentanti del governo presenti e dunque il corpo viene sepolto in un loculo del cimitero, in attesa di un posto dignitoso. […] nel 1889 Alessandro Guiccioli, figlio di Ignazio Guiccioli, ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849, decide di proporre l’edificazione di un monumento funebre al Verano. Il monumento è costruito e inaugurato nel 1891 e il 26 luglio di quell’anno le spoglie di Mameli vengono sepolte lì. Ma il corpo di Mameli crea ancora imbarazzo. In nome dei buoni rapporti con l’Austria nessuno esegue il Canto degli italiani.
[…] nel 1941, a guerra iniziata, Mussolini rievoca la morte di Mameli per colpa delle armi francesi. Quindi, in piena guerra, per celebrare l’italianità, Mameli torna di nuovo utile. Viene allora deciso di costruire quel sacrario votato dal Parlamento, mai deciso dal governo italiano e che era stato al centro delle polemiche settant’anni prima.
Così, prima ancora della fine dei lavori, le spoglie di Mameli vengono di nuovo riesumate e trasportate all’Altare della Patria per essere poi collocate, in attesa del termine dei lavori, a San Pietro in Montorio, nel quartiere di Trastevere, poco sopra la fossa nella quale erano stati collocati i resti dei caduti per la Repubblica Romana. Come molte cose nella storia italiana, niente è più definitivo di una decisione transitoria, e infatti è lì che ancora oggi si trovano. […]