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THE SHARDS, un romanzo che perfeziona tutto dell’opera di B.B. ELLIS

LE SCHEGGE (Einaudi, 740 pp.) è certo una lettura gratificante per chi segue da tempo Bret Easton Ellis. Non delude, anzi delizia il suo lettore storico, non fa che prendere la biografia dell’autore, letteraria e non, aprirla e dissezionarla per poi riassemblarne i “frammenti” anche con, forse soprattutto con, l’aggiunta di inserti magari estranei e scioccanti, magari bestiali - proprio come fa con le sue vittime il Pescatore a strascico, il serial killer convitato di pietra in tutto il romanzo. D’altra parte troviamo all’interno del libro la sua interpretazione autentica: “a me piaceva raccontare storie e abbellire un episodio altrimenti banale (…) ma non più di tanto, e così aggiungevo uno o due dettagli capaci di rendere la storia effettivamente interessante per l’ascoltatore dandole un che di umoristico o sorprendente o scioccante, e mi veniva naturale”.
Sicuro in The shards ci sono tutti i motivi di Meno di zero, di American Psycho, di Glamorama: la paranoia, lo stordimento con le droghe, le ossessioni, gli incubi, l’interscambiabilità dei ruoli giocati in società, le “pantomime che fanno percepire solo il bordo delle cose”, la bellezza dei corpi dei ragazzi e le efferatezze che su quei corpi si abbattono; ma è altrettanto sicuro che gli stessi motivi qui rifiutano la gratuità enigmatica tipica delle opere precedenti (e che non nego costituisse il loro principale elemento di fascinazione) per essere coerentemente sviluppati ed esaustivamente rappresentati in funzione di una storia nerissima di gelosia, sesso (“una fame basica di sesso che non era possibile né appagare né stoppare”, il desiderio scatenato, di “una ferocia impossibile da gestire”) e morte che fila via compatta sorretta da un magnetismo che fa divorare le pagine.
Ecco allora che questo lettore storico (io lo sono, senza nessun altro merito che averlo letto, beninteso) resta irretito in questa esperienza di rivisitazione di tutto. E non c’è dubbio che il libro abbia tutto per sedurre anche un lettore che di Ellis non abbia dimestichezza. A partire dalla ineccepibile restituzione dell’atmosfera ‘80, la sensazione  così diffusa all’epoca che non ci fosse niente nella vita che avesse un significato salvo la superficie delle cose, la musica di quegli anni spesso commento della sperimentazione continua del vuoto esistenziale, ma anche “gli infiniti piccoli drammi a proposito del nulla”, i capi alla moda su “manichini che fingono di essere umani” che al momento di essere fotografati “nessuno si mise in posa sul serio – perché stiamo già posando”, gli stili di vita “così disponibili riguardo a ogni possibilità”.
A ben guardare, quanto appena elencato vige tuttora, e sono passati quarant’anni, solo più soffocato dal puritanesimo imperante. Così che nel bene e nel male gli eighthies sono un decennio molto più avanti di questi anni 20. Si veda, infatti, come risolve Ellis, da quel buon vecchio enfant terrible che è, narrativamente ed esponendo solo sé stesso, tutta la questione del Me Too, della cancel culture, del politically correct, dell’inclusività linguistica, raccontando di come vanno a finire le lusinghe di un produttore cinematografico nei confronti del Bret scrittore che ha una storia da piazzare: “Sì, tecnicamente ero minorenne, ma nessuno mi aveva fatto del male, non ero stato aggredito, avevo lasciato che accadesse (…) e davvero non provavo nulla né in un senso né nell’altro riguardo a ciò che era avvenuto nella camera da letto del bungalow quella domenica di ottobre. Semplicemente speravo che mi avrebbe condotto a un ingaggio come sceneggiatore, ma c’era la possibilità che ciò non avvenisse: che l’offerta fosse stata effimera, uno scherzo, uno stratagemma che permettesse a lui di assaggiare il mio cazzo”. O ancora: “Non fare il frocetto” dice più d’una volta Bret a se stesso.
Ma non solo questo. Le notazioni di costume nel brano che segue sono sovrapponibilissime alla nostra epoca, mutando quel poco che c’è da mutare:
“Noi ragazzi iniziavamo la giornata dandoci appuntamento per pranzo da qualche parte a mezzogiorno - uno dei posti che preferivamo era il Yesterdays, dove servivano il sandwich Monte Cristo, oppure prendevamo l’ascensore che dal piano stradale scendeva al Good Earth, un ristorante salutista costoso e alla moda dove bevevamo giganteschi bicchieri di tè ghiacciato alla cannella e mangiavamo insalate, o ci ammassavamo in uno dei séparé rossi dell’Hamburger Hamlet per un toast al polpettone dopo ave comprato i biglietti per il successivo film al Bruin (…) e facevamo occasionali puntate alla sala giochi Westworld dove ci sfidavamo a Space Invaders e Pac-Man o gironzolavamo per Postermat ascoltando dischi di band femminili anni Sessanta o andavamo a caccia di musica nuova da Tower Records o da Wherehouse oppure sfogliavamo tascabili in una delle tante librerie disseminate lungo le strade. La serata finiva da Ships, un caffè rétro sul Wilshire, ai margini del Westwood Village, col tetto a forma di boomerang e l’insegna al neon in stile età atomica, dove ordinavamo Coca-Cola e milkshake alla vaniglia e fumavamo sigarette ai chiodi di garofano, un posacenere e un tostapane su ogni tavolo, e ci fermavamo fin dopo mezzanotte. Sperimentavamo con la nuova libertà che si era spalancata di fronte a noi, attivando qualcosa all’interno del nostro gruppo ora che volevamo diventare in fretta adulti e lasciarci alle spalle quello che ormai ci appariva come il soffocante mondo dell’infanzia. Time for mi to fly …”
È un giacimento questo libro.
BEE fa l’esame istologico ai propri sentimenti. Vi procede davvero col vetrino della scrittura, forse mai così completa, alla quale, in comune col minimalismo, resta solo l’attenzione per il dettaglio minimo, pulviscolare, ma che qui però manifesta una sontuosa prodigalità nell’attribuzione delle intenzioni, nelle descrizioni delle psicologie, della cornice losangelina, delle scene d’azione. Insomma non più quello stile scarno e intorpidito ma la rievocazione analitica e ricca di interpretazioni di quel tempo scarno e intorpidito in cui lui e i suoi ragazzi ricercavano con fermo proposito la freddezza, l’anestesia, l’estetica dell’insensibilità, e di come al tempo il lui scrittore (questa volta senza i suoi ragazzi) cercasse di far corrispondere a tali vite, allora come oggi oggetto della narrazione, uno stile privo di orpelli, raffreddato, anzi ghiacciato. E la rievocazione, avviata per riempire le lacune e chiarire le elusioni “perché so che cosa accadde alla fine: conosco la trama segreta”, si volge in tutt’altro che nell’insensibilità, popolandosi invece di venature ed esiti finanche melodrammatici (“ero pronto ad andarmene perché avevo bisogno di guidare per la città e ascoltare musica triste e fumare sigarette pensando a Ryan”), e infine atrocemente melodrammatici.
Su tutto l’abilità di BEE che pur adottando il punto di vista di uno che racconta al passato e a quarant’anni di distanza, e dunque sa come la storia andrà a finire, tanto che spesso anticipa che quella tale situazione non si verificherà mai più nello stesso modo, si dispone a rivivere in maniera così intensa quel 1981 in cui aveva 17 anni da riappropriarsi delle allucinazioni di allora, sperimentandole di nuovo nel presente così da rendersi un narratore totalmente inaffidabile e ambiguo, e come tale favorisce l’effetto sorpresa, anche su se stesso, del susseguirsi degli eventi.
È un romanzo che va al setaccio di fondamenti di realtà da opporre a quella costante sensazione di irrealtà che attanaglia e aliena i protagonisti dei libri precedenti e di questo. Solo che nei precedenti, i personaggi non se ne fregavano, accettavano l’irrealtà come dato di natura. Qui invece, e questa è la differenza, Bret ci prova, è più umano. La bellezza però è che le ambiguità restano tutte. Bret Easton Ellis non smette di sedurre.
La traduzione di Giuseppe Culicchia mi pare sia un capolavoro nel capolavoro. Anche chi non mastica l’inglese si accorge di come scorre liscia, senza inciampi o forzature, una lingua chiara, precisa ed efficace anche quando è alle prese con la descrizione del lato oscuro, irrazionale e caotico dell’animo umano.

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Totalitarismi messi in saga

Un romanzo-studio che, magari senza volerlo, spiega col materialismo le disfunzioni del mondo in cui viviamo. L’esito? Prendersi la parola e non delegarla, soprattutto se è alle viste chi la usa per omologare/annientare l’individuo.
Noi siamo pronti a investire. Viviamo quest’epoca. È solo legge di mercato.

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L’Apocalisse di Pecoraro viene al principio

Lo straordinario, ribollente “zuppone vitale” di uno dei migliori romanzi del XXI secolo

Ripercorrere all’inverso anche il più esile rivolo causale, destrutturare la catena degli eventi, riducendoli ciascuno alle proprie unità costitutive (…) per individuare il punto esatto del non ritorno.

Dopo la catastrofe primigenia, dopo l’essere venuti al mondo, c’è il panico per qualcosa che nel venire al mondo ci ha invaso e che dispiegherà tutta la sua capacità patogena per corromperci e degradarci irrimediabilmente, per farci morire infine come morì Erode, “roso dai vermi”. E la vita è solo una campata di ponte verso la fine. Una toccante fine lunghissima che dura cinquecento pagine belle intense, fitte, turgide, pastose, barzotte, novecentesche, pop, insofferenti, cinico/comiche e altoromanzate.

(…) E questa è una dannazione, non c’è un appiglio, un chiodo piantato da qualche parte che funga da riferimento assoluto, da inizio del ragionamento (…)

La vita in tempo di Pace (Ponte Alle Grazie) di Francesco Pecoraro ha come pretesto la parabola di un tizio che, sedotto da “l’inaudita volontà di superamento insita nel ponte”, sogna col suo mestiere di arrivare a fare ponti ma al massimo diventerà un organizzatore di cantieri. Insomma, non riuscirà mai a realizzare il desiderio di diventare un pontifex. Al fondo, però, il libro è narrazione di tutto quel che residua dall’apocalisse iniziale, seminale e fondante come un Big Bang; il resoconto di un movimento trascinato, come di caduta evitata in caduta evitata, incardinato su di un prolungato, incessante, disperato sforzo ordinatore (tecnico e filosofico) dentro al caos del consorzio umano. Countinua a leggere »

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Ovunque in tempo di pace

Ovunque l’eterna propensione all’alleanza consortile e provvisoria, per obiettivi temporanei e personali.

Francesco Pecoraro

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Peter in caccia d’amore

Il libro di Peter GENITO

L’Assurdo, dall’insensatezza del vivere all’assenza di amore.

In A fioca Nen, l’originale declinazione del concetto tanto caro a Camus: nel ventunesimo secolo postmoderno,  sgombrato il campo da idoli mostruosi, l’assurdità della condizione umana è decisa in prevalenza dall’inaridirsi del sentimento amoroso. Nei quattro racconti che compongono il volume, l’amore è motivo dominante e a volte disperante, e l’autore gli corre dietro ansimante per tutto il Belpaese, dalla Val di Susa al tacco d’Italia.
In questa rincorsa è la ribellione di Peter Genito (esordiente nella narrativa italiana) all’assurdo delle nostre vite.

Si chiama A Fioca Nen, “Non nevica” (Arduino Sacco Editore, Roma, maggio 2014, pagg. 111, € 10.90), la raccolta dei quattro racconti di Peter Genito.

Come dire che c’è freddo ma ad attenuare i rigori dell’inverno neanche un po’ di ovatta, neanche quel che la neve può conferire ad un paesaggio (magari pure dell’anima) con la sua capacità di cambiare volto dalla sera alla mattina ai luoghi più familiari, coprendo, ammantando, ovattando e, allo stesso tempo, generando stupore. L’inverno del nostro scontento, direbbe il Poeta.

Dunque, non nevica. Ovvero, non copre. Non attutisce. In contrasto con la copertina del libro, dove invece è raffigurata finanche una tormenta di neve.

Dunque, contrasti.

I racconti menzionano nei loro titoli tre diverse località geografiche (Val Di Susa, Benevento, Lecce), tranne il primo che invece prefigura tutte le mete del peregrinare che caratterizza i successivi tre.

Tema unitario, un costante eppure squilibrato slancio verso l’umanità e le cose belle e alte che l’umanità sa fare. L’equilibrio, l’identità, la dignità e la pienezza di dell’individuo, sono da riscattare attraverso la sconfitta della solitudine e la conquista dell’amore.

Tutto questo, dentro la narrativa di qualità di Peter Genito.

Campano d’origine, piemontese per caso, trapiantato a viva forza nella campagna toscana, dove lavora come Direttore di Biblioteca a Figline Valdarno.

Leggi qui un’intervista a Peter Genito del 2010.

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Il mattone di Calvino. 60 anni dopo

Un paese che se ne va sotto il cemento.

Leggilo su SUDCRITICA.

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Lunedì 4 agosto, a Modugno si parlerà di queste e di altre “corrispondenze d’amorosi sensi”. Ore 19.30, Libreria Paideia

Amaduzzi poggiò la mano sul registro. “Questi sono i verbali della prima commissione della circoscrizione che dirigo. Siamo alla quarta seduta consecutiva sull’area verde attrezzata per cani, si discute e ridiscute, senza costrutto e senza metodo …”.

[…]

“E a me di queste storie che me ne fotte?” grugnì Lovero unendo all’insù le dita di una mano e portandosele verso il petto, più volte.

“Fai finta di non capire? I temi da trattare sono sempre insufficienti per giustificare le sedute delle commissioni, e quindi i consiglieri cercano di spolpare al massimo quei pochi argomenti su cui è richiesto un parere, allungando il brodo con le più inverosimili giustificazioni: lo scopo? Dedicare alla materia il maggior numero di sedute possibili, per incassare i gettoni di presenza, più i rimborsi alle aziende di cui sono dipendenti”.

[…]

“E va bene, mi hai convinto. Me ne occuperò io”.

“Come ti pare, aspetto e spero! Intanto, per quanto mi riguarda, da questo mese bloccherò il pagamento dei gettoni di presenza ai consiglieri, e per quelli già liquidati farò intervenire la guardia di finanza!”.

“Hai proprio ingranato la quarta … Non vorresti concordare il da farsi?”

“Io non concordo un bel niente” sbraitò il dirigente.

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L’ombelico del mondo

Ingredienti per trionfare al premio letterario “Ilmondoruotaattornoannoi”

“Io vado con Renzi alle primarie, così io e te mettiamo un chip anche lì.” Franceschini a Letta

“Ogni volta che gli parlo lo convinco che non deve diffidare di me. Enrico, stai sereno. Poi però legge i giornali e ricomincia.” Renzi

“Napolitano dovrebbe liberarci di Letta.” Squinzi

“Letta ha fatto un grande lavoro.” Renzi

“La direzione rileva la necessità e l’urgenza di aprire una fase nuova, con un nuovo esecutivo che abbia la forza politica per affrontare i problemi del paese con un orizzonte di legislatura.” O’piddì

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“L’antica brama di chi scrive”. Il lavoro integrale su Nuovi Tegumenti. Si ringrazia madame Beatrice Blasonai per la gentile ospitalità



Prima e dopo che un corpo a corpo tra l’avvenente (d’avvenenza pseudoceltica e “piacevolmente scimmiesca”) professore arrivato dall’Europa negli Stati Uniti e la bramata dodicenne indigena di Ramsdale, Lolita è una lotta all’arma bianca tra lo scrittore deprivato della sua lingua madre e la giovane, già di per sé molto neo, lingua americana, la quale poi, allo straniero che tenti di abitarla e possederla, finisce per risultare anche più acerba e prepubere. Lo suggerisce lo stesso Nabokov in un bellissimo commento al libro, laddove peraltro si misura, tanto brevemente quanto incisivamente, con i temi universali della letteratura: erotismo e sensualità (anche se dovremmo più appropriatamente oggi leggere l’endiadi come erotismopornografia, con l’erotismo al posto della sensualità e la pornografia al posto dell’erotismo), “realtà” e fantasia individuale, realismo e simbolismi di portata psicanalitica, morale e godimento estetico, moralismo e norma dell’arte. Certo, la carnalità innominabile, eppure così magistralmente nominata, che corre tra Humbert Humbert e la poco più che bambina Dolores Haze/Dolly/Lolita/Lo (talora anche ma Carmen), deve essere letta per quella che è, ossia l’oggetto di una storia straziante, la storia di un orrendo sopruso perpetrato da un malfattore ai danni di una fanciulla. Questo va detto senza mezzi termini e la trama, al dunque, questo è. Eppure, che sprofondo nell’arte!, quanta bellezza insostenibile di tormentato amore, quanta “amorosa oscurità” si sprigiona dalle pagine di questo libro.

La storia di un individuo mostruoso rattratto nel suo “buio misericordioso”, un elemento condiviso con l’incessante fantasma di Lolita, non con la giovanetta in carne e ossa, perché con questa egli si gode la luce del giorno, e perché la piccola e a volte banale, volgare, accidiosa Lolita non sa decifrare “gli abominevoli geroglifici della sua lussuria”, dunque non con questa infelice creatura nella “sua prima adolescenza di puledra”, ma col suo spettro, l’ossesso professor Humbert ripara nel suo inferno.

“D’un tratto, signori della giuria, come un sole distante e terribile sentii albeggiare (sotto la smorfia che mi deformava la bocca) un ghigno dostoevskiano.”

Eppure, c’è ancora da intendersi sull’orrendo sopruso, e diciamo pure obbrobrioso crimine.

Quel che Nabokov mette in scena non è un crimine sessuale che si consuma e magari si reitera ad opera di un maniaco disgraziato, ma una strutturatissima passione per quelle che nel libro vengono chiamate ninfette, un culto da raffinato intenditore, come potrebbe essere quello di un dotto antiquario o di un profondo studioso di storia dell’arte, o ancora, di un appassionato entomologo. E proprio come lo specialista che ama la sua disciplina (al punto da considerarla arte superba) non cerca altro che un capolavoro di riferimento a cui sacrificare l’intera sua esistenza (difatti, in questi casi l’opera d’arte diventa ossessione, concubina ossessione) con lo scopo di penetrarne il mistero e ambendo all’impresa vitale di rivelare al mondo tale mistero in tutta la sua bruciante bellezza, così Humbert, voce narrante, imbattutosi nella più meravigliosa di tutte le ninfette possibili ne fa una divinità, “un demone immortale travestito da bambina”, da ringraziare con grida lancinanti e ululati. Quando Lolita “nettareo biancore” irrompe nella storia, infatti, scompare la mania nel suo aspetto più patologico ed entrano in gioco altri fattori (ingredienti di un grande romanzo) ma soprattutto entra in gioco la natura castrante dell’amore totale. Non è un caso che solo verso l’epilogo della vicenda narrata, Humbert realizzi finalmente che cosa gli aveva sempre evocato la figura di Lo: la fulva Venere di Botticelli.

Il criminoso disegno del maturo e anche mite professore arrivato d’oltreoceano non può in alcun modo essere assimilato alla necessità di soddisfare pulsioni criptopedofile – il professor Humbert non commetterebbe mai uno stupro che, tra le oltre cose, troverebbe di una depravazione sommamente antiestetica -, ma viene piuttosto a coincidere con una incontenibile furiosa speranza d’amore, “arcobaleni di fango ribollente … simboli della mia passione”, pronta a negare l’infanzia a una bambina (”derubarla del suo giglio”) con distruttività non diversa da quella che abbiamo abbondantemente imparato a conoscere nei più quotidiani casi in cui l’uomo o la donna richiede/impone l’annientamento dell’identità del proprio partner; furia di speranzoso amore, in nome del quale dare via anni e anni di vita, spianare le strade d’America, “le liriche, epiche, tragiche ma mai arcadiche plaghe d’America”, finendo al contempo per annichilire e distruggere l’oggetto d’amore. Se si vuole, il delitto è anche più indicibilmente mostruoso. Eppure, la narrazione di questa abiezione enormemente innalza Lolita e la consegna a futura memoria.

Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile, brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’amais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller.

La si vede trascorrere, Lolita, dalla maliziosa consapevolezza erotica alla mocciosaggine esasperante alla triste coscienza dell’inganno subito e, di nuovo, alla scaltrezza attiva dell’inganno da perpetrare con la complicità del doppio dello scrittore Humbert, il drammaturgo Quilty.

L’attrazione tra i due, alla deriva verso una parodia di incesto (in quanto il diabolico Humbert aveva programmaticamente sposato la madre di Lolita, Charlotte), non può che schiantarsi contro un duro nulla (”l’escrescenza dura, contorta, teleologica”). Nel frattempo però Nabokov ha decretato la prevalenza degli Dei della semantica sui filistei della patta ermetica così che uno dei rapporti più torbidi che si possa immaginare non conosce mai, nelle pagine di questo libro, una sconcezza, mai una turpitudine, mai una violazione oscena che sia tacciabile come insopportabile violazione delle persone. Il tasso di letterarietà è altissimo e pertanto, si deve ripetere, la narrazione di questa abiezione, enormemente, innalza Lolita e la consegna a futura memoria.



Può essere utile l’accostamento con L’incantatore, racconto scritto da Nabokov in lingua russa nel ‘39, quindici anni prima di Lolita. Utile non per congetturare sulla più o meno dubbia moralità dell’autore. Ma per seguire un percorso che resta solo e squisitamente artistico. Un medesimo soggetto accomuna le due opere ed è la penna di Nabokov a illustrare L’incantatore come il primo, piccolo palpito di Lolita. Il doloroso spasmo di assimilazione estetica che infradicia Humbert mentre contempla la plasticità del tennis di Lolita (”nell’arabesco dei suoi movimenti”) è lo stesso provato dal quarantenne senza nome di fronte allo spettacolo della bambina che pattina. Solo, ne L’incantatore, il motivo della pedofilia è praticamente dichiarato, tanto più evidente in quanto inversamente proporzionale alla figuretta priva di sessualità della “ragazzina” dai tratti infantili molto più marcati che in Lolita. Tuttavia, i suoi buoni lettori converranno che si tratta di “pura invenzione artistica”. Ma a parte ciò, è l’evoluzione della scrittura nabokoviana che rileva: alla bambina del ‘39 spunteranno la malizia, la consapevolezza e la carica erotica di Dolores Haze a misura del racconto a cui spuntano le ali del romanzo. Questo solo è davvero interessante e, anzi, sommamente apprezzabile. Non certi psicologismi (”tutto il racket psicanalitico”) da cui Nabokov rifugge e invita a rifuggire in nome della sua antica faida con i “vudù freudiani”. Leggere questi suoi libri può essere esperienza di valore solo se si è in grado di cogliere, flaubertianamente, ben altro: la sapienza con cui si arricchisce di indizi il testo, la precisione degli universi, la compattezza artistica, l’intima coerenza che si svolge a partire da determinati presupposti.

L’attrazione che l’immaturità esercita su di me potrebbe stare non tanto nella bellezza limpida, pura, giovane e proibita di una bambina fiabesca, quanto dalla sicurezza datami da una situazione in cui infinite imperfezioni colmano l’abisso fra il poco che è dato e il molto che è promesso – il grande, irraggiungibile grigio-rosa. Mes fenêtres.”

Lo scrittore diventa tale, in pienezza e maturità, quando il suo sentimento fiducioso e predolorico è definitivamente sepolto in un passato che non ha alcuna chance di riaffiorare.



Orbene, Nabokov ha adorato “ogni poro e ogni follicolo” della pubescente lingua a cui stava dichiarando il suo amore. Peraltro, non esattamente la lingua inglese, ma la Lingua. Quella che gli serviva in quel momento e che gli è sempre servita per scrivere, quella che si ripresenta sempre vergine, tormentosamente vergine,come ogni scrittore sa, all’inizio di una storia. Quella che fa disperare e toglie il sonno, che allatta e che si allatta, cresce e stratifica, si mestrua e poi si insemina, e poi si riproduce, sorride e poi pian piano sfiorisce e perde tutta la sua luce e … infine … diventa “l’ombra piccola e congelata di se stessa”.


Determinazioni e riflessione entro sé dell’essenza artstica

Kubrick - complice il divino Sellers che sul set fa quello che gli pare - scorge in Lolita il motivo della tensione linguistica che si fa ossessione e poi vero e proprio incubo di inappropriabilità, e perciò si mette a tirare allo spasimo, e con ragione da vendere, la figura di Clare Quilty, il drammaturgo che fa impazzire Humbert, la proiezione irraggiungibile del frustrato professore europeo. Tanto che per prevalere su quello, Humbert sarà costretto ad andare per le spicce, di buone rivoltellate, lui seduttore sofistico.

Peter Sellers quasi quasi doveva fare solo un cameo ma conquistandosi la parte a suon di numeri da fuoriclasse, asseconda Kubrick (o se lo trascina, che importa) e il film è nell’opera. Tra i due si forma come una specie di precipitato di genio e … niente più Lolita … niente più scabrosità, né mostri né pedofilia. 

Clare Quilty, protagonista assoluto con i suoi travestimenti, la sua trama barocco-espressionista come la sua magione, onnipresente, se getta la maschera dell’istrione ti angoscia nella sua declinazione di uomo senza volto, persecutore diabolicamente ingegnoso non nelle vesti del giustiziere/moralizzatore ma in quelle del talento maggiormente dotato che giustamente pretende la propria affermazione (sulla mediocrità e, inevitabilmente, nello spazio del film), restando giustiziato dalla paranoia. La partita a scacchi, l’enigma, lo specchio, il doppio. Anche se stilemi risaputi e abusati in esercizi interpretativi di ogni risma, Lolita è sempre stato un magistrale approfondimento artistico di questi. La dodicenne è solo il criterio di riduzione a unità delle scissioni che ci tormentano. Il medium.


Lolita medium significa Lolita come punto di contatto tra la finitezza singolare del professor Humbert e l’Uno essenteClare Quilty posto come altro da Humbert.

Lolita, coscienza infelice che realizza cristianamente l’unificazione in Spirito tra ebraismo veterotestamentario, desiderante e laborioso, e autocoscienza immutabile di termine fisso (pura astrazione).


letteraria

“L’antica brama di chi scrive” /post scriptum

Lolita medium significa Lolita come punto di contatto tra la finitezza singolare del professor Humbert e l’Uno essente Clare Quilty posto come altro da Humbert.

Lolita, coscienza infelice che realizza cristianamente l’unificazione in Spirito tra ebraismo veterotestamentario, desiderante e laborioso, e autocoscienza immutabile di termine fisso (pura astrazione).

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