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altri spot, letteraria

un’idea fissa

Ospitiamo con piacere su questo blog gente che si interroga sulle possibilità che alla scrittura ancora restano.

Si saluti qui l’irruzione pubblica di una giovane critica teatrale alla quale aggiungiamo solo gli auguri per il suo avvenire nella parola scritta.

INDIGESTIONE - NON SOLO D’ARTE - AL KISMET

Liquid Cat: un nome, una garanzia. Di che cosa? Di ironia, provacazione, diversione, creazione e, perché no?, distruzione se necessario. Necessario a cosa? A scardinare gli argini di una cultura addormentata, a darle uno scossone, con l’utilizzo dei mezzi espressivi più inconsueti e disparati. Questa proteiforme entità artistica con base in Toscana, prende il nome da un brodo a base di gatto ed erbe mediche, molto popolare nella Corea del Sud, in virtù delle sue capacità curative contro l’artrite e i reumatismi.

All’interno del festival di teatro e arti visive IRRUZIONE PUBBLICA, i Liquid Cat hanno indetto una gara provinciale di cucina barese, che si è svolta negli spazi del foyer del Teatro Kismet Opera, invitando la cittadinanza tutta a prendervi parte. Il concorso, chiamato ‘Konzum‘, ha contemplato una regolare premiazione:

  • 1° premio: SELEZIONE GRAN GOURMET a cura di THE TRAMP (poliedrico intellettuale, autore di ‘Apulia Coquinaria’ di prossima uscita per la casa editrice ‘Il Melograno’).
  • 2° premio: SELEZIONE CUOCO DELUXE offerta da CHEF LEVANTE (dal 1965 una garanzia nelle forniture per ristoranti e alberghi)
  • 3°premio: RISERVA GAMBERO D’ORO a cura di Emanuele SERPELLI (critico gastronomico e gourmet)

I piatti della gastronomia barese, tradizionali o creativi che fossero, sono stati ‘konzumati’ seduta stante, da un artista che si è prestato a questo gioco: mangiare tutte e cinque le pietanze (baccalà con olive e patate, tartine con paté di olive, risotto al vino con mandorle, due tipi di focaccia barese), ed essere ripreso da una telecamera che trasmetteva le immagini in diretta, su un grande schermo posizionato nel foyer del teatro, con tanto di sedie per chi volesse godersi lo spettacolo. Chiunque si fosse seduto, avrebbe assistito ad una simpatica scenetta: un giovane uomo, con tanto di cappello e tovagliolo bianco al collo a mò di bavaglino, che adagio, quasi fosse investito di una missione, assaporava, gustava, e sul finale, probabilmente satollo, ingeriva a forza, le pietanze che gli venivano parate davanti. A completare il quadretto, sulla umile tovaglia di plastica stampa limoni, una brocca, un bicchiere, e un flaconcino di igienizzante per mani, articolo fortemente inflazionato negli ultimi tempi.

Nell’immaginario collettivo, il Sud è facilmente associato al culto per la cucina e la tavola. I Liquid Cat vogliono esaminare la straordinaria ritualità di questa cucina, ripercorrerne le radici, e scoprire le abitudini più recenti dei baresi a tavola. Questa gran quantità di cibo però, cotto, consumato, digerito, evidenzia la tendenza, tutta moderna, all’esagerazione, al consumismo senza controllo, alla forzatura del limite e allo spreco. Come ne ‘La grande abbuffata’ di Ferreri, la voglia di evasione dei protagonisti li conduce all’autodistruzione, così, oggi, il nostro bioritmo sballato, la frenesia di pasti consumati velocemente e in gran quantità, ci alienano e ci rendono prigionieri della nostra abulia e bulimia. Troppe le pietanze, troppe le forzature alle quali ci sottoponiamo, troppi i messaggi che ci bombardano l’esistenza, facendoci perdere di vista quelli che sono i nostri reali bisogni e desideri. Quello che si legge tra le righe è la necessità di recuperare un equilibrio, di riappropriarsi del proprio sentire, di stabilizzarsi, di contenersi, di rientrare nel limite, e poi semmai, consapevolmente, scegliere di valicarlo.

I vincitori (terzo posto alla focaccia di Rosa Paltera, secondo al baccalà di Anna Lacatena, e primo ‘all’eleganza e alla raffinatezza’ del risotto di Andrea Piterà), hanno ricevuto dei prodotti tipici toscani (olio, vino, pelati, taralli), che fanno parte di un progetto di branding e product placement col quale i Liquid Cat si sono inseriti nel commercio fiorentino a tutti i suoi possibili livelli, con l’irriverenza solita che li caratterizza.

(Sara Tetro)

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parole sbagliate

Guido Montani, col suo libro, è nella cinquina finale di un prestigioso premio letterario del belpaese. Nei giorni che lo vedono alle prese con gli adempimenti della kermesse continua a scrivere racconti come ‘L’uomo degli ombrelli’ e ‘I segreti di padre Rosario’. Ha una moglie e una figlia, delle quali pare non gli importi nulla, perché lui scrive perdendo la cognizione del tempo; può restare a lungo a guardare fuori dalla finestra ma pensando solo alla sua scrittura, può addormentarsi al pc o passare assopito sul divano il resto della notte. Dove viene visitato dai personaggi dei suoi racconti. Racconti dei quali, però, il suo editore non sembra troppo entusiasta, o forse vi è solo indifferente, tutto preso com’è dai giochi e dalle manovre in corso tra i suoi colleghi, i giornalisti e la giuria. Perché Guido Montani pare proprio candidato a vincerlo quel premio. Ma sua figlia non vuole più andare in piscina e allora, visto che ha pagato per tutto l’anno e visto che sa a mala pena mantenersi a galla, decide di prendere lui il posto della figlia alle lezioni di nuoto. Conosce Giulia, l’istruttrice. Guido e Giulia si guardano con curiosità crescente fino a quando lui non le chiede di uscire la sera. Ma Giulia non esce la sera perché deve tornare in prigione. È un’assassina e deve scontare la sua pena. Non si vede ma c’è una lampadina che si accende nella vita di Guido: una nuova interessante storia da raccontare. I due quindi si frequentano, si piacciono, stanno insieme fin sulla soglia della prigione, dove lei quotidianamente lo lascia, per poi ritrovarsi il giorno dopo in piscina.

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diario di un giullare timido, letteraria

I denti bianchi di Pio La Torre

La tre giorni del Caffè Letterario è stata una camera iperbarica fatta arrivare a Modugno grazie all’abnegazione e all’ansia di partecipazione dei ragazzi di Giovani Menti Attive in collaborazione con la scuola di formazione Antonino Caponnetto. Ad un paese ad ossigenazione (dei tessuti) limitata è stata data l’opportunità di farsi somministrare un po’ d’aria pulita. Non tutti quelli che potevano beneficiarne però hanno saputo approfittarne. Già, perché in questo comune, letteralmente ammorbato da un’aria pestilenziale, da anni, si preferisce soprassedere, lasciare andare e mandare in vacca tutto quanto. E anzi no. Forse non è questo. Forse il fatto che ci sia puzza di merda, merda originale, che si diffonde nel centro abitato quasi che questo fosse un unico, sconcio vicolo pieno di miasmi e esalazioni infette, rappresenta per molti un segreto piacere: come quando si molla una loffa a letto e ci si ritira con tutta quanta la testa sotto le coperte per bearsi dei propri odori. Countinua a leggere »

letteraria

La perla scaramazza


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Dentro le mie mani l’inquilino

Da mesi rovisto tra libri e cinema quasi esclusivamente a scopo di ricerca. Voglio dire, non prorpio per il piacere di farlo. Il lavoro cui mi sono dedicato da un anno a questa parte volge al termine ma non smetto di farmi suggerire suggestioni e soluzioni. Sì, perché ci sono sempre momenti, durante questo lavoro, in cui ci si arena, ci si ritrova un po’ scorati in una strada apparentemente senza uscita. Le provi tutte, cambi direzione mille volte, ma tutto quello che escogiti ‘non funziona’, ‘non regge’, o è ‘fuori tono’. Allora può essere importante andare a vedere come altri, in situazioni analoghe, se la siano cavata. Come hanno risolto questi momenti critici. Questo presuppone un gran dispendio di tempo ed energie perché quello che cerchi, a meno di non avere una gran botta di culo, non arriva subito. Devi prenderne di abbagli: sbagliare le letture (tipo Corpus Christine di Max Monnehay) e assopirti davanti ai film (come davanti a Brazil di Terry Gillian). Ma poi t’imbatti in Dentro le mie mani le tue di Marosia Castaldi (722 p., Feltrinelli) e ne L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski e ti ritrovi a considerare che questo lavoro in realtà ti sta facendo impazzire dal piacere; la fatica è ripagata. Per quanto si tratti di un libro di dolore senza speranza nel primo caso, e del film più di terrore che abbia mai visto nell’altro.

letteraria

Laboratorio di scrittore

A prendere vita in queste pagine di Fattacci (di Vicenzo Cerami) sono i lugubri conducenti di una vettura vocata allo schianto. Ex pugili, canari, nani, plebei, marchesi e bon vivants che covano “una sperimentata vocazione al disfacimento”. Entrare per caso nel loro raggio d’azione è una sciagura terribile, significa varcare i cancelli di una depravazione che, consumate tutte le sue estreme esperienze, non ha niente altro da offrire, al finale, se non tragedia. Vite intrecciate da legami tanto fragili quanto totalizzanti per la loro natura morbosa quando non sadomasochistica. I soggetti terzi che intervengono a rompere questi delicati equilibri, questi ordini ipocriti e degeneri, altro non fanno che imboccare, senza saperlo, una via buia alla fine della quale vi è invariabilmente morte.

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Violence

Lo scrivere mio è cimentarsi con le aspirazioni sballate di un’epoca. Interrogare - a vuoto - il vuoto da capogiro che si è creato dopo che gli uomini hanno distorto radicalmente tutti i miti fino a squinternarli del tutto, fino alla loro scomparsa. Grandi narrazioni, ed esemplari, prima pervertite, poi buttate via perché ci si è accorti che per come erano ridotte non si sapeva più cosa farsene. Delle quali non si è serbato niente. Neanche una minuscola traccia. Tutto dimenticato a beneficio esclusivo dell’horror vacui. Un po’ quello che è avvenuto in politica con la consunzione delle grandi ideologie, dipinte da certi soloni come grandi narrazioni. Per l’appunto. Ma pure grandi tagliole.

Tralascio qui il discorso politico e mi attesto più su letteratura e cinema perché ritengo che, come sempre accade, solo queste riescano a segnalare i tratti più allarmanti, anzi angosciosi, del tempo presente che anche il sottoscritto (su scartoffie chissà mai da pubblicare) si sforza di raccontare.

L’impoverimento espressivo dilagante o la generale volgarità dei comportamenti umani, in fondo sono il meno. Pura manifestazione esteriore della violenza bestiale che c’è sotto e che percuote incessantemente il sistema di regole che pretendeva di tacitarla. Di più, i nuovi sistemi di regole sono concepiti per scoperchiare del tutto questa forza animalesca e ancestrale, ideati e orchestrati da soggetti emersi d’impeto prima ma ormai tutt’uno con essa. Quello che lotta per prevalere sulla civiltà non è il grado zero dell’umanità. Ma il Meno di zero di Bret Easton Ellis.

La violenza che sbocca è autistica. Come quella del cacciatore di taglie in Dead Man, di Jim Jarmusch. Di questi si favoleggia che abbia stuprato il padre e la madre e che poi ne abbia mangiato i corpi. Per tre quarti della pellicola pare una stramberia che non merita neanche tanto credito ma in due scioccanti punti del film il bandito si rivela tal quale lo aveva dipinto questa specie di leggenda massacrando i suoi compagni d’arme. O ancora lo psicopatico di Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. La sua furia assassina non ha una ragione e non può essere spiegata. Solo il culo di non incontrarlo sulla tua strada ti può salvare.

Nella valle di Elah un veterano del Vietnam, così somigliante allo sceriffo di McCarthy, deve andare ben oltre la riflessione sugli orrori della guerra. Le diverse declinazioni sulla gratuità del male, variazioni contemporanee sulla banalità cui spesso si accompagna, fanno letteralmente a pezzi l’anima di un padre e dello spettatore. Paul Haggis, sceneggiatore sommo, è il ponte che ci conduce a Clint Eastwood (sono stati collaboratori in Million Dollar Baby) e al suo Gran Torino. Quale brivido insostenibile genera la scena in cui la ragazza rientra tumefatta, massacrata di botte da una banda di bulli del quartiere popolato da immigrati asiatici. Eppure McCarthy, Haggis e Eastwood fin qui possono ancora far sentire la loro fievole voce e ricordare come un tempo, forse, poteva essere diverso. Etica, onore e rispetto, orgoglio. Un senso, in definitiva.

E invece insensato e ottuso è Brad Pitt nella prosecuzione naturale della trasposizione cinematografica di Non è un paese per vecchi: Burn After Reading. L’icona ebete dell’opera è anche la perfetta sintesi del perfetto coglione, senza passato e senza futuro, un presente ristrettissimo, che prolifera nell’odierna società. Anche questo film è pervaso di violenza, e appresso a questa corre, abbracciata mortalmente, la scemenza.

Se un tempo i film horror lasciavano senza fiato oggi i film noir lasciano senza parole. Mappano esistenze già prive di linguaggio o di qualsivoglia codice comunicativo . Esistenze che rispondono raramente agli stimoli, ma soprattutto imprevedibilmente e violentemente.

Si può desiderare la morte di qualcuno che non è un tiranno o un sadico padrone delle nostre vite ma solo un ostacolo, peraltro rimuovibile con minimo sforzo, al perseguimento del nostro scopo. E non avere percezione dell’abiezione di un tale sentimento.

Si vive disorientati in un ambiente interamente disturbato. Si può smembrare un uomo con un trinciapollo e essere soddisfatti di un lavoro pulito.

The Wrestler non poteva che essere Mickey Rourke. Non poteva che essere lui il protagonista del gran guignol allestito da sua maestà la violenza. La quale adesso si permette il lusso di autoinscenarsi. E sghignazzare sfavillante mentre si gode l’effetto che fa.

Le potenze buie della reazione.

Qua non siamo in presenza di figli frutto del loro tempo. Qua siamo dentro un Tempo che divora i propri figli. Non gli dèi che accecano coloro che vogliono perdere. Ma dèi accecati che accecano e perdono indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro.

altri spot, letteraria

Ma non sono un critico letterario, eh …

Sono pagine di storie curiose e di risate, di polle, crete e contrafforti; rocciose o boscose come l’universo che racconta. Fresche nonostante l’acqua calda termale attorno a cui tutto ruota. Libro scavallante tra le groppe della vita come la gambe nude scavallanti dal predellino di una Bentley per porgere all’onor del mondo una stratosferica bellezza russa.

Scritto a flusso, si legge a tonfo. Lingua bombardante come una contraerea quando la narrazione si fa guerrigliera, liricamente commossa quando vuole restituire la solitudine di un cipresso.

letteraria, riflessioni su due ruote

Armstrong e Contador in Astana

letteraria

Quasi una vita

La pianura pugliese. Olivi, seminati, e nessuna apparenza di uomini o di animali. Alberi sostenuti da muriccioli di pietra. È il paese dell’architettura. Anche prima di vedere una città, le capanne rustiche dei campi evocano la forma delle chiese e dei castelli. Ondulamenti come il mare, e strisce di colori come sul mare. Il più piccolo rialzo di terreno è una sorpresa. Ha piovuto la notte, e la pianura è tutta rugosa di rigagnoli come un vecchio viso. È qualche cosa come il fondo del mare, terra nella sua più vera struttura, un grande magazzino vivente di alberi da frutto e di viti. Le viti sono a ceppaia come nel Bordolese o nello Champagne. Nella pianura, soltanto i colori creavano parvenze e illusioni di paesaggio. L’azzurro del mare, le onde rabbuffate lontano, rilevavano il giallo delle spiagge. I fichi col loro pollone ma le foglie ancora non nate. In treno, ancora addormentato, distinguevo il sud, il mio paese, percependo il suo silenzio, quel silenzio tutto suo, remoto, sterminato. E dal finestrino ritrovavo aspetti del mio paesaggio infantile, immutato, e come se mi rimproverasse e non volesse più sapere di me.

Corrado Alvaro

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