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diario di un giullare timido, letteraria

Quando il romanzo lo scrive il film

E a proposito di ‘far decantare le cose’, torno solo ora dalla lettura di Gomorra, dopo aver lasciato che si accumulasse polvere sul libro per ben tre anni. Acquistato alla sua prima uscita e subito deposto in uno scaffale della mia libreria, avrei voluto che sul fondo del caso Saviano si depositassero tutte le distorsioni mediatiche per poi poter sprofondarmi nella lettura del libro finalmente chiarificato ma, ahimè, devo constatare che non è mai stato possibile in tutto questo tempo togliere l’ingombro del film e degli oscar mancati, della scorta, della fatwa dei casalesi, delle polemiche sui giornali, dei nuovi interventi giornalistici di Saviano e del conseguente, rinnovato clamore attorno all’affaire. E poiché sospettavo il libro un po’ troppo schiacciato sul cronachismo, per non perdermi completezza di informazioni a sicuro rischio di obsolescenza, mi son dovuto affrettare a leggerlo. Ma non diversamente da come affronto la lettura quotidiana de la Repubblica: compulsivamente. Nell’ossessione di avere il presente interamente monitorato, dominato e posseduto, e nella penosa illusione che quante più numerose e dettagliate sono le informazioni che dal presente riesci a ricavare tanto più accresciuta, puntuale, agguerrita e centrata sarà la capacità di scavo della tua lingua al cospetto della realtà. Il tutto secondo una logica però malata, che ottiene l’effetto opposto: ti porta pian piano lontano dai libri ma sempre più addosso ai quotidiani, ai settimanali, alle notizie on-line. Ecco, Gomorra l’ho letto con questo personale spirito di stare andando lontano dai libri e più vicino, anzi sempre più dentro la mia personale coazione a ripetere l’inutile lettura di articoli, critiche, recensioni della cosa. Un demente girare attorno alla cosa a scapito della discesa, dello smarrimento NELLA cosa.

Aggiungo però, a lettura ultimata, che Saviano ha scritto un libro di grande valore e che tale valore vada inscritto in qualche branca delle discipline intellettuali ma non certo nella Letteratura, ambito nel quale mi sembrava claudicasse.

E poi di Gomorra: Saviano ha scritto il libro ma il romanzo l’ha scritto il film. Li si pongano a confronto e, a parte l’ovvia considerazione che senza il libro non ci sarebbe il film, mi si dica in quale dei due mezzi espressivi si rintracciano i segni di una grande narrazione.

letteraria

Giustizia /3

La giustizia umana e quella divina

di Giuseppe Giglio

(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 diStilos“)

«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».

Giuseppe Giglio

letteraria

Giustizia /2

[…] ma in questo caso la sentenza che ho pronunciato su di me e l’esecuzione della sentenza per mano mia è la cosa più giusta del mondo, perché la giustizia può compiersi soltanto tra coloro che sono egualmente colpevoli, così come esiste una sola crocefissione, quella dell’altare di Isenheim, un gigante crocifisso è fissato alla croce, un cadavere atroce, sotto il cui peso si piegano le travi alle quali è inchiodato, un Cristo ancora più spaventoso di quello per cui fu dipinta questa pala d’altare per i lebbrosi; quando videro quel Dio crocifisso, tra loro e questo Dio, che secondo la loro credenza aveva inviato la lebbra, si ristabilì la giustizia: questo Dio era stato giustamente crocifisso per loro. […]

Giustizia, di Friedrich Dürrematt

letteraria

Giustizia

La Crocifissione di Matthias Grünewald - Altare di Isenheim - Musée d’Unterlinden - Colmar.

letteraria

Il ritorno di Cavina, scrittore pizzaiolo

Recensione di Giuseppe Giglio, apparsa sul Riformista del 18 aprile 2009

Gilbert Keith Chesterton diceva che bisognava fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa. E in quest’affermazione c’è tutto il senso dell’avventura chestertoniana, l’avventura del man alive, dell’uomo vivo, protagonista di tante storie del narratore inglese. Ma a volte basta fare il giro della propria casa per avventurarsi tra i sentieri della vita. E aprire una finestra sul mondo, capire di più di sé stessi e degli altri, scoprire insomma una porzione di esistenza. Che è poi la ragion d’essere di un romanzo. È quel che accade ne I frutti dimenticati, l’ultimo libro di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, € 14,50). Un romanzo breve – o un racconto lungo – ambientato ai nostri giorni, in cui l’incontro di Cristiano (il trentenne protagonista, pizzaiolo e scrittore al tempo stesso, come Cavina; o meglio: narratore innamorato delle storie) con uno sconosciuto concide con la prima tappa di un inaspettato viaggio: tra un presente difficile e i sogni della memoria (sogni che volano come mongolfiere), tra le pareti della casa e le viuzze del piccolo borgo romagnolo in cui Cristiano – che è anche l’io narrante – è cresciuto. Ove « era tutto un coltivare frutti dimenticati», una vera e propria festa collettiva, ogni anno celebrata: giuggiole, pere volpine, sorbi, lazzeruoli, cornioli; tutti tirati su con amore.

Un viaggio affidato a una scrittura scarna e asciutta, in cui strettamente e sottilmente si intrecciano autobiografismo e invenzione: a disegnare per linee essenziali luoghi e personaggi reali e simbolici al tempo stesso, a dar voce a una libera e felice fantasia che sdipana e avvolge grappoli di vita vissuta o in divenire; tra amicizie e inquietudini, gioie ed errori, passione e avventure, tra le bancarelle dei frutti dimenticati e frutti della vita non raccolti, o mancati. Con la leggerezza, il candore e l’innocenza che della favola sono propri.

E a proposito di favola, di favoloso: questa storia si potrebbe leggere come un’immaginaria cartolina dalla Romagna, di calviniana memoria; dove il fiabesco e il realistico, perfettamente complementari, cesellano un personaggio-uomo che anche a noi somiglia: inquieto e come alla ricerca di un’antica armonia perduta, o non trovata. Un personaggio che dolorosamente ritrova un padre mai avuto (un uomo «molto stanco che con abiti troppo grandi si avvicina alla fine», quasi al capolinea) al quale decide di raccontare la propria vita disordinata, che sembra sfuggirgli di mano, proprio mentre la sua compagna – che non è più sicuro di amare – sta per dargli (a lui, Cristiano) un figlio: un bimbo con occhietti da canaglia, da «unno invasore», e con i «mignoli perfettamente uncinati». Proprio le stesse caratteristiche di Cristiano: che da bambino, come un intrepido palombaro (sprofondato in una vecchia tuta da lavoro del nonno, con sulla faccia una maschera da saldatore), guizzava con straordinaria agilità nella camera della nonna a caccia di mirabolanti tesori, come fosse in fondo all’oceano, sicuro della protezione dei papà che si era immaginato: D’Artagnan, Sandokan, Jean Valjean, il conte di Montecristo, persino Dio.

I frutti della vita, dunque; quelli cioè che alla vita stessa appartengono, che le conferiscono dignità e senso. Dapprima assaggiati quasi inconsapevolmente, poi insinuati nell’animo, quindi riscoperti da adulto; e vissuti come favola di sé: l’assenza, l’inquietudine, la malattia, il dolore, la morte, la gioia, la fantasia, le cose semplici, i bambini, l’amore. Soprattutto l’amore, la scoperta e riscoperta dell’amore. E il lettore si sente come convitato ad un gioco di intelligenza attiva, pagina dopo pagina. Guizza - anche lui palombaro - nelle profondità cui si spinge il protagonista, a seguirne la difficile rotta. Fino all’epilogo della storia. Quando si torna in superficie, dopo aver recuperato qualche tesoro. Quando la vita finisce e ricomincia. Quando si viene a capo di un agile filo di fantasia che corre lungo le nostre iinquietudini, balugina tra le intermittenze del cuore, si impenna in grappoli di gioia.

diario di un giullare timido, letteraria

I piccoli amici

Da tempo vado contemplando Il Piccolo Principe.

Da tempo ho smesso la lettura del Piccolo Principe e ne ho cominciato la contemplazione.

L’aver parlato de L’amico ritrovato su questo blog, probabilmente mi sta offrendo il destro per rispolverare risorse comuni ai due libri. A partire dal concetto di amicizia come matrimonio dell’anima, formulato esplicitamente nelle pagine di Uhlman ma non per questo meno presente e meno possente dentro quelle di Antoine de Sainte-Exupéry.

Dicevo della mia estasi contemplativa. Potrebbe sembrare un eufemismo per attenuare il carico di banalità nell’espressione: Il Piccolo Principe, il mio libro sul comodino. Ma comunque la si metta io continuo a vedere, neanche fosse la televisione, il Piccolo Principe. Continuo a vedere il libro, dove a pag. 15 ho appuntato: il non vedere eccita la creatività. Il piccolo principe non ha bisogno di un adulto che gli spieghi le cose (anche perché “i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta“) ma di qualcuno che lo aiuti a creare il proprio mondo.

Si parla qui di un libro che lotta contro la damnatio memoriae: la cancellazione del nostro essere stati bambini. Ed è esattamente in questo punto delle mie considerazioni che mi sono venuti in mente Dàniel e Michelino dei miei RAVB, su quella forza ansiogena che agisce nel secondo di non doversi mostrare bambini e su quel puntellare del primo: “Guarda che siamo dei bambini“. E contemplo quindi la dedica di Sainte-Exupery: A LEONE WERTH, quando era un bambino.

Contemplo il misuratore di grandezza (il disegno riportato anche in questo post). Lo strumento che misura quanto davvero si è grandi è quello in grado di dirci quanto capaci siamo di vedere oltre le apparenze. E come l’elefante dentro al boa anche il disegno della pecora: non la pecora ma una cassetta con tre forellini. Ricavo, da questo, persino consigli di scrittura, sull’arte di nascondere che aiuta a far vedere le cose. Altri consigli di scrittura sono ricavabili dalle magistrali caratterizzazioni dei vari personaggi incontrati dal piccolo principe nel suo viaggio attraverso sei pianeti prima di arrivare alla Terra.

Contemplo la bellissima prefazione di Nico Orengo, scrittore che niente altro ha prodotto che fosse in grado di interessarmi.

Contemplo le inquietanti analogie tra gli accadimenti del libro e la biografia del suo autore. Le contemplo con le lacrime agli occhi.

Contemplo i quarantatré tramonti come il passaggio all’età adulta: il giorno triste in cui si impose a un bambino di sei anni di rinunciare al disegno. In quello stesso giorno il bambino di sei anni potette assistere a ben quarantatré tramonti.

Il significato di crescere: imparare a fare a meno della cura degli altri.

Contemplo la poesia primigenia di questo libro. Straordinario, per me, l’uomo d’affari che conta le stelle nel cielo allo scopo di possederle (”E che te ne fai di queste stelle?”, “Che cosa me ne faccio?… Niente. Le possiedo.” , ” E a che ti serve possedere le stelle?”, “Mi serve ad essere ricco.”)

Contemplo il piccolo principe epifanico ai bordi delle mie lenzuola insonni e faccio tutto quello che mi ordina senza mai trasgredire.

“Quando un mistero è così sovraccarico non si osa disubbidire.”

letteraria

da Racconti a vita bassa

La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste.

IL PICCOLO PRINCIPE, ANTOINE DE SAINTE-EXUPÉRY

 

PASSAGGI 

1.

L’acqua la portava Ciccillo. E pure il rombo. Cioè Ciccillo portava l’autocisterna e portava l’acqua. Le galline svolazzavano strepitanti che sennò le investiva l’autobotte in arrivo, per poi tornare a comporre il loro quadretto comunitario nel polverone alzato dalla corsa dell’autocarro. Quando le galline, e altri pennuti in gran parte malaticci, si mettevano improvvisamente a svolazzare voleva dire che stava arrivando l’acqua. E quelle non poche volte che c’era stata una grande morìa delle galline voleva dire che l’acqua non arrivava e non sarebbe arrivata per lunghi tempi. E neanche Ciccillo. Sarebbe arrivato. Va da sé che Ciccillo non sarebbe arrivato anche nel caso in cui fosse morto lui. Mah! Comunque…

2.

Carmen aveva fatto tutto da sé. Il cassone di eternit che fungeva da cisterna dell’acqua se l’era sistemato tutto da sola sul soppalco che poggiava sopra la piccola costruzione in acciaio laccato bianco.

Alle sei del mattino la prima cosa da fare era tirare giù la veranda di plastica trasparente per ricavarne la zona giorno. Estrarre il cartone del latte dalla borsa-frigo rubata in un supermercato. Apparecchiare per la colazione. Lo zucchero è in un boccaccio. Aprire lo stipite e scoprire a fianco allo zucchero la bottiglia di whisky. Ricordarsi ogni mattina che ha smesso di bere, Carmen, e che in quella bottiglia ci ha messo il succo di amarena. Riscoprire ogni nuovo giorno di vivere in una voliera il cui proprietario può decidere di spostare, in un qualunque momento e secondo un suo capriccio, in altro punto del suo personale universo. Countinua a leggere »

diario di un giullare timido, letteraria, riflessioni su due ruote

l’amicizia è sagra

Alloggiavo in una pensionaccia di via Nizza. Ero a Torino per presentare Ghiandole alla Fiera Internazionale del Libro. Fissata in Piazza Italia, alle ore 14,00 del secondo giorno della kermesse, la presentazione collettiva degli autori della collana on the road (Prospettivaeditrice) mi chiamava a discettare di romanzo o letteratura (o giù di lì) generazionale. Ma questa era solo la punta dell’iceberg, diciamo la versione più consolatoria. Quel che poco si sa è che per la pubblicazone del mio libro avevo dovuto scucire 1200 euro, pagati in tre comode rate bimestrali di 400 euro ciascuna e, per la partecipazione in Fiera in veste di autore, mi era stato richiesto dall’editore la stipula di un contratto di agenzia con Interrete, gestita da un altro autore della stessa scuderia prospettica, contratto in cui si pattuiva un mio correspettivo di 750 euro a fronte di un’attività promozionale che non ha prodotto alcun risultato perché non c’è mai stata.

“Sacco, ma il contratto con Interrete non l’hai ancora fatto?” mi telefonò l’editore.

“No.”

“Muoviti, allora, sennò non posso accreditarti per la Fiera.”

Si trattava quindi solo di una dazione di testoni propedeutica alla partecipazione al Salone. Sapevo benissimo che avrei fatto meglio a starmene a casa a guardare il Giro d’Italia che iniziava proprio in quei giorni. Ma volli essere della partita. Non me ne pento anche perché mentre cenavo in solitudine nel ristorante sardo gestito dalla stessa pensione ebbi modo di conoscere i miei due vicini di tavolo. Due ragazzi di Novara che erano stati in Fiera per il loro puro piacere di lettori, i quali, ascoltando un mio resoconto telefonico della giornata, mi attaccarono un bottone di amicizia.

Così ho conosciuto Peter. Nell’agosto dello stesso anno fui ospite di Peter a Novara. Tra le altre cose facemmo una gita lungo il lago Maggiore fino poi in Svizzera. Questa gita meriterebbe di essere raccontata per bene solo per la varia umanità incontrata per strada e nelle soste e per il nostro particolare stato d’animo nell’estate del 2006, ma qui non c’è modo di farlo. Dico solo che in una pizzeria sul lago, dove ci fermammo a prendere un birra intorno all’una del pomeriggio, la signora calabrese che gestiva il posto, chiacchierando con quelli che dovevano essere i suoi unici avventori della giornata, si informò su di noi e sui motivi di quella nostra escursione. Per poi concudere con:

“Embè, fate bene. L’amicizia è sagra.”

letteraria

scarti

Se deve mettere una sua creatura di fronte a un muro di dolore, Colm Tòibìn non sceglie mai la scompostezza, mai il lamento sguaiato. Anzi, attua e fa attuare, ai suoi Madri e Figli, manovre diversive, i famigerati scarti laterali, di cui questo autore irlandese si dimostra maestro.

Non succedeva da troppo tempo alla narrativa che mi capita tra le mani questa capacità di sospendere il tempo, di dilatarlo e di divagare (apparentemente), allo scopo di raccontare quello che si perde man mano che si vive. La persona cara che scompare o l’adolescente costretto a scoprire a cosa deve rinunciare mentre si fa adulto. I silenzi dei molti personaggi, refrattari a dirci qualcosa di loro, non tengono a lungo, sono come gli strati di ghiaccio dell’ultimo racconto, Un lungo inverno: custodiscono l’amaro calice nell’attesa di rivelarlo col disgelo. Ma sempre questo disgelo porta altro da quel che si credeva. Porta cioè quella piccola illusione che serve per stordirsi ancora un po’ e per negare il dolore ancora un po’. E più lo nega il dolore, questo libro, più efficacemente lo descrive: tacendolo ma non potendo controllare quello che sotto la pelle si muove, tumultua e preme per uscire. Un prete in famiglia è, di questi, il racconto di cui più si è parlato. A ragione. Non per la scabrosità dell’argomento, d’altra parte ci sono frati e cazzi anche nel primo racconto. Bensì per la presenza dell’anziana madre del prete che sembrerebbe ostinarsi a non vedere - hanno scritto alcuni - temendo di dovere affrontare il giudizio di un’intera comunità. Le sue figlie vorrebbero che si allontanasse per una vacanza in modo che le venga risparmiata l’umiliazione del processo a cui verrà sottoposto l’altro suo figlio, prete, per essere implicato in uno scandalo sessuale con adolescenti. Con tutti i dettagli che usciranno poi sui giornali. Immaginarsi la vergogna per un genitore. Ma lei, Molly, decide di restare; guardando negli occhi il suo ragazzo prima che venga arrestato gli dice: “Faremo del nostro meglio per te, Frank”.

Semplicemente. E mi viene da aggiungere: grandiosamente. Countinua a leggere »

altri spot, letteraria

I teoremi del pubblico ministero

Le scuole di scrittura creativa sono doping letterario. Le loro regole, insegnate e applicate costantemente dai soliti furbetti del quartierino narrativo italiano sono colpevoli di drogaggio delle patrie lettere. Il doping letterario consiste nell’uso (o abuso) dei trucchetti del mestiere (di scrivere) allo scopo di aumentare artificialmente il rendimento del libro e le prestazioni dell’autore. Poco si sa degli effetti collaterali causati dalle sostanze fornite al testo mentre evidenti sono i miglioramenti in termini di statura culturale e risultati commerciali. Da precisare, tuttavia, che sul lungo periodo il doping letterario può arrecare gravi danni fisici e psicologici all’autore fino a causarne la scomparsa per anonimato. Il doping letterario dovrebbe essere reato e concorrere alla configurazione della frode culturale.

Tutto quello che le scuole di scrittura possono insegnare lo si può apprendere più agevolmente e senza sputtanarsi migliaia di euro da questi tre libri

(se proprio vogliamo!)

Tutto il resto che c’è da imparare è già nei libri indimenticabili della letteratura italiana e straniera.

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