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Lo spasmo di Ian

Va bene, allora ci torno sopra.

Ammetto di essere calato al peccato. Sul mio altarino personale c’è Di Pietro che fa capolino da un santino dietro un cero acceso. Di fianco al santino c’è pure la tessera dell’Italia dei Valori. Sono stato dark a quindici anni. Grunge dai diciassette ai venti. Poi mi sono innamorato del teatro e di ‘un maestro’. Ho scritto un primo libretto per raccontare i miei vent’anni e i modelli che mi ritrovavo allora. Ghiandole si apre su un concerto degli Al Darawish (oggi Radio Dervish) nel centro sociale Brioscine Meridionali, che fu forse la mia ultima esperienza giovanilistica, ma non per questo il concerto non fu strafantastico con il cuore che mi si apriva e mi si fondeva con tutta quella ressa per la bellezza della musica e della festa. Cosa che non accadrà mai più ai Radio Dervish. Sono stato iscritto per troppi anni ad Economia e Commercio, fidanzato in casa per sette anni e pettinato con la riga a destra. Ho pubblicato Ghiandole pagando milleduecento euro in tre rate bimestrali. Mi sono dato definitivamente alla scrittura e lavoro all’Auchan per finanziarmi la passione. Poi sono arrivati i Racconti a vita bassa e Quarup e non voglio stare a menarla ancora con questo intrico splendido e nodoso. Da qualche tempo il tesseramento all’IDV. Ieri sera però ho visto questo film . La colonna sonora ha inevitabilmente risospinto la mente verso la mia adolescenza. Lo script invece me l’ha riportata sul mio presente e futuro di scrittura: la strepitosa asciuttezza di una vicenda narrata senza leziosismi e romanticherie, in un cupo bianco e nero (non poteva essere immaginato diversamente un racconto sui Joy Division). Tutto per me è monito di andare all’osso.

Asciugare io asciugo. Ma resta lo spasmo di Ian.

 

letteraria

disSATISFICTION

Giampaolo Serino potrebbe anche tornarci su:                                                                              Guarda l'immagine nelle sue dimensioni reali.

 

[...]Naturalmente, si potrebbero fare altri nomi “promettenti”. Ad esempio Nicola Sacco, barese, del ‘74, che ha pubblicato i bellissimi Racconti a vita bassa (Quarup, 2007) o Antonio Manzini, sceneggiatore e attore, che ha scritto Sangue marcio (Fazi, 2005) e sta per tornare con un libro Einaudi; e nomi di promesse poi non mantenute, scrittori bravissimi al primo libro e caduti poi sul secondo, come Mario Desiati (in Neppure quando è notte ha scritto uno degli incipit più belli degli ultimi anni, poi è entrato anche lui nella grande famiglia di Siciliano…).

Rimarrebbero infine le donne - Fabrizia Pinna detta Bizia, Per tutte le altre destinazioni (Quarup, 2007), ragazza notevole sotto tutti i punti di vista; o Rosella Postorino, La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007) o addirittura Rosa Matteucci, se non fosse che la pubblica Adelphi. Ma, da inguaribili maschilisti, siamo convinti che l’ultima donna capace di scrivere sia stata Virginia Woolf. Che non era neppure italiana.

Luigi Mascheroni,  (Il Domenicale)

 

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Il contesto

Con arroganza ripetete a memoria / quel che non sapete / idee-spray schiuma /di vecchie e nuove idee / (più vecchie che nuove) /che le vostre / labbra squagliano e sbavano / come appena ieri in braccio alla mamma / -La mamma la mamma- / il gelato di crema. E colano / dalle vostre barbe di protomartiri / coltivata impostura / finzione di una maturità che vi faccia / uguali al padre e idonei dunque all’incesto. / la mamma / tutto qui il problema / la donna che sta nel letto di vostro padre / e voi annunciate il suo regno / e sotto la barba avete facce / di sanluigi del neo-capitalismo / tutte le tare dei Gonzaga in quel volto affilato / tutte le tare della borghesia nel vostro / lui cresciuto tra i nani e i buffoni / tra i gobbi e gli impotenti / distillato dal malfrancese / e fu santo perché mai guardò in faccia sua madre / che era donna / e voi la guardate in faccia e pensate / che è una troia se sta nel letto di vostro padre / perché siete più santi di lui anche se non lo sapete / e siete cresciuti anche voi / tra buffoni nani e impotenti / tra l’oro e la luce / la barba dunque a rendere tenebrose / le facce di magnaccia delicati / di invertiti / pervertiti / e Robespierre che non aveva barba / ride di voi della vostra rivoluzione / il suo teschio ride / la sua polvere / la sua estrema omeomeria che più vale / di tutta la vostra vita / cioè del fatto che siete vivi e lui morto / e anche Marx che aveva la barba ride / Ride in ogni pelo della sua barba / ride dei gusci vuoti che vi ha lasciato / sonagliere che tintinnano / del seme essiccato del seme spento / e voi ve ne parate come muli da fiera / le scuote nell’ozio nell’insoddisfazione nel disgusto / (il seme vivo di Marx è in coloro che soffrono / che pensano / che non hanno bandiere) / ridono Robespierre e Marx / ma forse anche piangono / dell’uomo non più umano che in voi si realizza / del pensiero che non pensa / dell’amore che non ama / del perpetuo fiasco del sesso e della mente / con cui annunciate il regno delle madri / e that is not what I meant at all / that is not it, at all / non questo non questo / e nemmeno noi volevamo questo / noi buffoni / viziosi / corrotti / noi padri / nemmeno noi / poiché prostituivamo la vita ma intendevamo l’amore / prostituivamo la mente ma intendevamo il pensiero / la ragione / il sesso / l’uomo e la donna / il maschio e la femmina / il dolore / la morte. / Diceva Talleyrand che la dolcezza del vivere / conoscevano solo quelli che come lui / avevano vissuto prima della rivoluzione / ma dopo di voi (non dopo la vostra rivoluzione / ché non la farete) non ci sarà più / reliquia riflesso eco / della dolcezza del vivere / né di voi resterà storia / se non negli archivi del federal narcotic bureau. / l’uomo umano ha avuto la sua luna / umana dea / quieto lume d’amore / voi avete la vostra / grigia pomice vaiolosa / deserto degno delle vostre ossa non più umane / natura morta con le morte ampolle del senno / ma già non sapete niente / dell’ariostesca fiaba di Orlando / del suo senno recuperato da Astolfo / in un viaggio lunare / del senno sigillato in un fiasco / come il vostro (ma irrecuperabile / è il vostro). Il fiasco natura morta / il fiasco cilecca dell’eros / come Stendhal diceva / in italiano nel testo / Stendhal che voi non conoscete / Stendhal che parla / la lingua della passione cui siete morti.

(Da Il contesto, Leonardo Sciascia)

letteraria

segnalo

diario di un giullare timido, letteraria

La Repubblica porta ritardo

Scusate ma non riesco a tenerlo dentro:

ho scritto un libro (Racconti a vita bassa) cercando di illustrare un mondo di esistenze sbagliate, vite piene di scompensi morali e fisici, bambini di otto anni già molto smaliziati ma vittime di crescite anomale il cui futuro è un approdo di perversione; predestinazione alla criminalità; un collegio monastico con tutta la violenza fisica delle suore che porto ancora dentro di me; bambini dispersi, ritrovati e di nuovo abbandonati; una dedica a tutte quelle persone che vivono nella totale perdizione e che non intravedono il giorno in cui riusciranno a ritrovarsi; la desertificazione del suolo e l’inaridimento dei rapporti umani; vite vissute per delega, secondo il condizionamento se non la prescrizione di qualcun altro, vuoti interiori incolmabili, arsura morale da parte degli adulti e, per converso, infanzia violata anche da matta bestialità; e nessuna bellezza a far da paciere col mondo.

Le storie intrecciate di Dàniel e Michelino bambini, Gerardina la genitrice possibile e falsa, della quale mi affascinava il percorso che porta una donna, che si sente benefattrice perché fa la carità e raccoglie i bambini per strada, a non sentire più nulla, come per una sorta di legge del contrappasso, finisce per non sentire più nulla sia fisicamente che metaforicamente. L’ho punita in questo modo perché è una persona che ha costruito tutto sulla falsità, sull’ipocrisia, come ce n’è nella nostra provincia: bigottone che fanno finta di occuparsi degli altri ma, quando qualcosa le tocca da vicino, eccole manifestare il loro spietato egoismo.

L’adolescente Olga, ben lontana dalla maturità perché costretta a subire la violenza dell’universo che la circonda: un ragazza in conflitto con tutto e tutti e che colleziona una serie di scelte sbagliate. Olga, diversamente dagli altri personaggi, possiede una famiglia ma evidentemente non le serve.

Tutto un mondo in cui la famiglia non esiste ma di cui, paradossalmente, se ne sente la mancanza, e tuttavia non si tratta tanto di nostalgia della famiglia intesa in senso tradizionale quanto di una rete degli affetti, di legami profondi e reali.

Infine, Riccardo. Spaventevole quanto naturale evoluzione dei personaggi da me creati.

Insomma, tutta una geografia umana ignorata, come nota Giuseppe Giglio, una commedia di demenza e dolore.

Poi un bel giorno arriva R2 (La Repubblica del 20 ottobre 2008) e titola I BAMBINI PERDUTI DI PUGLIA .

Tenere ben presente che si tratta dell’inchiesta di prima pagina della sezione R2 de La Repubblica.

Il giornalista scrive: Abusati, violentati, picchiati. Sono 50.000 i minori abbandonati in Italia, la maggior parte nel Sud. Così, mentre l’adozione è un terno al lotto, le comunità si riempiono di bimbi. Condannati alla solitudine […]
un esercito di ombre condannate ad un limbo: quasi nessuno torna a casa […]
nuovi orfani, figli di genitori falliti… non esiste un elenco di adulti pronti ad accoglierli.

Dopodiché passa in rassegna l’opinionismo di alcune belle teste d’uovo. Nell’ordine, Nostra Famiglia: “parliamo di devianza giovanile e non ci accorgiamo che a esondare è la devianza degli adulti”; il sociologo Giuseppe Moro: “Bruciamo una generazione confondendo l’autodistruzione con la normalità”; il sociologo Saverio Abruzzese: “La precarietà devasta genitori immaturi e la famiglia allargata si disintegra”; Famiglia Dovuta: “è una società tacitamente costruita per l’abbandono… qualche domanda è lecita sugli interessi che si muovono attorno all’agonia delle nostre relazioni; la priorità non è nemmeno più aiutare i figli traditi dall’egoismo, ma salvare gli adulti dal nulla che li uccide; la patente per i genitori”.

Mi si perdoni la presunzione:

MA IO CHE AVEVO DETTO?!

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il delitto dei giusti

Una fiaba tragica di Giuseppe Giglio

 [questa recensione è stata pubblicata su Pagine dal Sud (aprile/giugno 2008), rivista trimestrale di politica, cultura e letteratura edita a Ragusa a cura del Centro Studi Feliciano Rossitto]

 

In una splendida valle, un paradiso incastonato tra le montagne del Sud-Est della Francia, un vecchio contadino sdipana i fili della memoria. E racconta della vita di un piccolo borgo di quella vallata, nella regione del Maubert, in cui la stirpe degli Arnal – che da diverse generazioni instancabilmente lavora nei boschi, nei pascoli e nelle piantagioni - detiene un’indiscussa reggenza morale. Un dominio sugli uomini che da sempre pare nutrito dell’esercizio di virtù legate alle quotidiane necessità, senza eroismi e magnificenze, fin quasi a conferire il prestigio del soprannaturale alla reputazione degli Arnal (una famiglia in cui «matrimoni tra cugini riportavano in seno al gruppo chi se n’era temporaneamente allontanato»), a comporre un’epopea familiare dell’onestà e della giustizia. Il vecchio Arnal è l’imponente patriarca: membro di spicco del consiglio comunale per oltre quarant’anni, Consigliere – così lo chiamano i valligiani - conta più del sindaco e del parroco. Tutti si rivolgono a lui per un consiglio, e in tanti ogni domenica febbrilmente lo attendono, depositario di verità, infallibile oracolo.

In quell’oasi di serenità, cui una natura di prepotente bellezza fa da fascinoso controcanto, Maurice e Clémence Arnal, fratello e sorella, condividono ogni gioco, ogni scoperta. E i primi brividi di una sensualità prepotente. Bella, sorda e selvatica, affascinata dai prati, dagli alveari e dai boschi, Clémence se ne sta «sdraiata sull’erba vecchia raspata dalla neve, la pancia sulla terra riscaldata, la testa nelle braccia piegate, le cosce stese e i polpacci che battevano l’aria con moto alterno». Fino a quando indecifrabili vertigini d’infanzia improvvisamente esplodono, e rendono il corpo di Clémence - «fin troppo consapevole di essere isolato dai rumori del mondo» - «sensibile a tutti i fremiti della vita», fino alle estreme conseguenze. Ma quell’amore proibito scatena una tremenda reazione della famiglia, che giunge a compiere un gesto orribile, una meschina congiura della vita contro la vita: il delitto dei giusti.

Reca questo titolo uno dei più significativi libri di André Chamson (1900-1983)), edito per la prima volta nel 1928 (titolo originale: Le crime des justes), uscito in Italia nel 1947 nella Medusa, la prestigiosa collana mondadoriana, e ora  finalmente riproposto da Marcos y Marcos, a rendere il giusto omaggio ad un intellettuale - amico di Gide, Malraux e Valéry, tra i maggiori narratori del Novecento francese - quasi dimenticato nel nostro Paese. La voce  narrante, alter ego dello scrittore, sembra riscoprire un vecchio capriccio di Gesualdo Bufalino: «Raccontare un ricordo lo fa diventare una fiaba», con felice riferimento al potere ludico della memoria, che guida lo scrittore all’artificio dell’invenzione. Ma se Il delitto dei giusti  ha della fiaba l’agilità e la leggerezza, nel libro dominano i toni dell’apologo. E un amore incestuoso appena accennato – uno schizzo vergato con rapide ma pregnanti pennellate (non la morbosa e affascinante  profondità dell’amore tra il raffinato “dilettante” Ulrich e sua sorella Agate, per esempio, ne L’uomo senza qualità di Musil; e neanche l’incesto, tutto giocato sull’ambiguità, del landolfiano Un amore del nostro tempo) - diviene agile manovella per sollevare un pesante velario sulle debolezze, le ipocrisie e i perbenismi di una piccola comunità dell’inizio del secolo scorso, ma che molto somiglia a tanta odierna società, sempre più povera della moneta più preziosa: quella del vivere.

Nessun delitto può appartenere ad un uomo giusto; e neanche ad un uomo eccezionale. E invece Consigliere – per difendere una reputazione su cui il narratore lascia intanto intravedere nere ombre, per coprire uno scandalo che li avrebbe travolti – pare avocare a sé e alla famiglia una sorta di «diritto al delitto», come il dostoevskijano Raskol’nikov. Ma Consigliere non ha affatto la statura di quell’enorme personaggio, e neanche la tragica irresoluzione di Lafcadio, il gidiano eroe dell’atto gratuito. È soltanto un uomo schiavo della propria mania di grandezza, con cui il tempo (il destino? il fato?) si diverte a giocare, quasi a conferire vivida sostanza ad un aforisma di Eraclito l’Oscuro: «Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo». E il finale del racconto sembra andare proprio in questa direzione.

«Un libro sta tutto in come finisce. La fine deve essere spaventosa. E ci deve essere un re», disse una volta un oracolante contadino (che non sapeva leggere) a Leonardo Sciascia. E lo scrittore subito notò che quel vecchio agricoltore stava reinventando la tragedia greca, «quella che i suoi pari di più che duemila anni addietro chiedevano ad Eschilo e Sofocle, che ascoltavano negli anfiteatri tra gli ulivi, di fronte al mare». La fine de Il delitto dei giusti è spaventosa. E c’è anche il re: nudo, ma sempre ammantato della sua orribile regalità. Al lettore la catarsi.

 

Giuseppe Giglio

letteraria

Giuseppe Giglio vive a Randazzo, in Sicilia. Studioso e critico di letteratura (si occupa prevalentemente del novecento), scrive su diversi periodici letterari.

In questo spazio, credo, cercherà di assolvere al meglio, per quel che gli compete, il compito di portare senso dentro “questo nostro piccolo mondo, assai greve”, maneggiando gli strumenti della critica militante e personalizzando con la sua biografia di colto lettore.

In questo blog, alla pagina bibliografia, è riportata la bella recensione che Giuseppe Giglio ha scritto su Stilos dei miei Racconti a vita bassa.

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fior da fiore

Sacco è come le Superga in una pubblicità di tanti anni fa, o si odia o si ama.

Il decespugliatore che si può comprare al lunedì.

La solitudine dei numeri primi è un brodino knorr allungato fino all’inverosimile… metafore matematiche spalmate in ogni buco fino alla nausea. Una lingua monocorde e banale come il suono di un citofono… robina da menopausate.

L’Eco di Paperopoli o i Meridiani… fare i weltroniani a tutti costi… cazzo! almeno sui libri… no!

Somministratrice di queste e altre esilaranti purghette, battutista seriale, fabbrichetta di stilettate, inanellatrice di magistrali similitudini contemporanee, fotagrafa stramba del postmoderno, è di questa ragazza che voglio parlare: Fabrizia Pinna.

Anche lei appartiene alla razza scrittora, ma ciò che più sorprende del suo Per tutte le altre destinazioni, è la difformità stilistica rispetto agli enunciati che ci dispensa per via orale o per altri canali di comunicazione diversi dall’oggetto libro. Cosa che credo possa essere testimoniata da chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerla di persona e al contempo leggere Blonditudo e Réclame d’Afrique (i due racconti che compongono il suo volume). “Un controllo feroce dell’aggettivazione” dicono i suoi recensori, non un avverbio di troppo, mai uno scivolone nei territori dello smanceroso nonostante la storia svolga la vita della protagonista Giulietta sulla direttrice esperienza del dolore - ricerca degli affetti - autoassegnazione di un orizzonte, e pure nonostante una miracolosa immacolata concezione, o giù di lì. Ciò che della sua biografia resta nella sua prosa è un deposito leggero di freschezza e un certo strabismo di divertito sguardo.

Circa la parte meno risolta del libro, il secondo e più breve racconto, che ha effettivamente il limite di uno sfilacciamento che Per tutte le altre destinazioni non meritava, vorrei comunque segnalare il pregevole tentativo di esplorazione nelle zone più limacciose delle esistenze protagoniste. Pur andando a sfrangersi in una traiettoria meno significativa della precedente si assiste alla coraggiosa messa in scena di qualche salutare complicazione che lascia ben sperare per il suo futuro di scrittrice.

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PARRUCCONI

Per rispondere a Biz:

mi sembra sempre troppo facile sparare a palle incatenate sul libro maggiormente premiato dal mercato. Non che tu abbia torto, tuttavia La solitudine dei numeri primi mi sembra una di quelle opere, se vuoi scusa per il termine, che si presta a giudizi favorevoli e contrari, entrambi con eguale legittimità. In altre parole, ribadisco la mia opinione ma al tempo stesso trovo centrata ed esatta la tua critica. E ti assicuro che non si tratta di terzismo, equidistanza ecumenica, viltà nel non voler riconoscere di aver forato. Ora però ti rivolgo un quesito un po’ ingenuo, un po’ provocatorio e un pò no: e se quel titolo fosse stato presente nel catalogo Quarup?

Magari adesso mi risponde anche qualche altro lettore di questo blog che, puttana miseria, non so più come stanare. Va da sé che scherzo e che continuerò a scrivere di ciclismo impipandomi dell’appeal.  

diario di un giullare timido, letteraria

la combriccola delle lettere ultime

Una giornata di fine agosto.

-Guarda, una drogata. Mi ritrovo per moglie una drogata…

-Che razza di vita è questa? Non te ne accorgi? Che cosa siamo diventati, Tony? Dei falliti. Non lo capisci che siamo dei falliti?… Ti pianto, Tony. Non ne posso più di questo schifo…

-Ma sì, sì che se ne vada…

Chiuso il libro di Paolo Giordano. Da presunto autore di 34 anni non posso che restare ammirato di fronte a questo libro. Non so chi e cosa ci sia dietro ma certo è che il risultato finale è una storia coerente con dentro tutte le parole al posto giusto al momento giusto, un dolore che ti lega fino al’ultima pagina e mai una sbavatura. Bravo o bravi?

Il dialogo riportato sopra è esattamente quel che mi è rimasto nelle orecchie quando ho dovuto smettere di guardare (ma non di sentire) il film di stasera. Dovevo medicarmi una ferita di sette giorni piuttosto estesa sotto il ginocchio evolutasi in noiosa infezione. Nello schermo la parabola di Tony Montana correva verso la sua autodistruzione e io cercavo di staccare la garza da una concrezione rossonerastra. Rivista ancora una volta la sagoma di Al nella sequenza finale, lui sbracato nel suo trono, rintronato dalla paranoia e dai monitor della videosorveglianza, non potevo fare a meno di pensare che tutto questo faceva sempre un pò Riccardo III. Leggete questa tragedia storica shakespeariana e capirete quanta parte possa avere anche nello spiegare la psiche di un blogger. Essendo questa strettamente legata al motto Chi mi ama mi segua.

E il film? Che film era? La risposta è facilissima.

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