conversazione
31 Ott 2012 Nicola 0 commenti
31 Ott 2012 Nicola 0 commenti
Retrovisore cinematografico per una migliore speculazione sugli ‘80, questo il titolo del mio nuovo libro.
Citofonare esterno giorno. Che ve lo butto dal balcone. O ve lo butto ad ogni buon conto.
24 Ott 2012 Nicola 6 commenti
la superba Beatrice Blasonai, critico letterario di Nuovi Tegumenti, mi informa come e qualmente sia pressoché pronto un suo lavoro d’analisi avente ad oggetto “troppa grazia”.
Che dire?
Troppa grazia, mia regina.
sulla sovranità l’italia slenta e cede, Blasonai giammai recede. il Sacco, pur niente affatto pubblic(at)o, ancora la bagna e la prurigina, unico in occidente, per indi deliziarla.
21 Lug 2012 Nicola 0 commenti
Quaranta metri quadri, tettoia e pergolato. Ninì vive praticamente a cielo aperto, arredo scarso: una sdraio di là, sul lato scoperto, dove dormirci come un bradipo su un ramo di cecropia. La strada di edifici fatiscenti e lerci è soffocata dagli odori del carburante del caldo umido giugno delle scarcioffecoibisi della terra non scrollata dai vestiti dei senegalesi, e dai consueti gorgoglii della vita rionale.
Quando è finalmente rincasato è notte fonda, va nel frigo, ne tira via una tazza. Nelle peperonata gelida ci sbriciola sei puramente sette pastiglie di zoloft. Nel foglietto illustrativo alla voce interazioni nulla è detto a proposito del mischio tra setralina e ortofrutta, per cui via col pane intinto in questa zuppetta paranoica. La mano agguanta il vicino telecomando tutto incerottato, il pollice apre sul tre. Enrico Ghezzi sta presentando il prossimo film e nel farlo parla della violenza. Della violenza. Della fine. Della storia. Questa è la sua cadenza per parlare della violenza della fine della storia. Ninì pensa che la violenza della fine della storia è il capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è quella terra bruciata che incuba mine, subito alle spalle del capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è la mano di un bambino che colpisce duramente il corpo di un altro che tenta di scappargli via. È strifone.
04 Giu 2012 Nicola 0 commenti
“la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti.”
Joseph Grand, volendo imparare a trovare le parole, scopre che la donna che lo ha lasciato, e alla quale sempre pensa, avrebbe potuto essere trattenuta se solo, a un dato momento, egli fosse riuscito a trovare le parole. Ma non ha potuto.
Adesso il Romanzo, come si conviene, tutto ricomprende: l’amore, il cinismo, la pietà, l’astratto (non più l’assurdo della peste), la paura, il diritto alla felicità di ogni uomo.
La scrittura di Camus lievita come un’estate feroce: flutti ininterrotti di Romanzo inondano le sue pagine. Il microcosmo di Orano, vetrino da esperimento per le passioni di un’umanità al limite tra disgregazione e solidarietà – così, molto felicemente, recita il testo della quarta di copertina – è puntualmente indagato in ogni suo recesso. La peste è un romanzo talmente ambizioso che una volta riuscito non può non essere classificato patrimonio dell’umanità. Il suo vertiginoso coefficiente di difficoltà, insito nel non irrilevante problema di restituire in modo credibile al lettore un universo colpito dalla peste, diventa quindi il tratto più prestigioso dell’opera. Questo avviene perché, ad onta della natura tutta finzionale dell’espediente narrativo della pestilenza, mai, davvero mai, quella che tecnicamente si chiama sospensione dell’incredulità viene a subire contraccolpi. In maniera molto volgare, o in due parole, siamo dalle parti della lettura avvincente.
La congerie umana gode qui di una rappresentazione completa e approfondita. Abbiamo visto Joseph Grand, adesso mette conto parlare della straordinaria figura del padre gesuita Paneloux. Sembrerebbe sulle prime, un teologo colto e integerrimo, una specie di prefetto della congregazione per la dottrina della fede, pronto a giustificare la pestilenza come punizione biblica venuta a colpire i molti che hanno perso di vista Dio o che si sono troppo adagiati sulla sua misericordia impedendosi così di soddisfare il suo “divorante affetto”. A mio parere, il personaggio viene omaggiato da Camus di un’eccellente retorica e di una grande capacità evocativa e visionaria (la sua prima omelia sul castigo divino resta un ‘evento’), il che consente all’autore di meglio precisare il suo dissenso dall’interpretazione religiosa senza però ridurre a macchietta l’uomo di chiesa né banalizzare la stessa chiesa. Camus può prendere rispettosamente ma fermamente le distanze da un approccio filosofico che non condivide: la giustizia divina che s’abbatte sul mondo per ripulirlo dalla colpa. Ove mai Paneloux riveli un limite, questo non andrebbe individuato nel dogmatismo di un retrivo ministro di dio ma al più nel suo procedere in un sistema sì dotto da scontare un certo distacco dal mondo degli uomini, una freddezza, al cospetto del dolore, che non è di alcun beneficio alla religione medesima. “Paneloux è un uomo di studio, non ha veduto morire abbastanza.”
Ma poi la peste cos’è? Un portiere comincia col delinearla in conformità con quelli che sono gli intenti allegorici dell’autore: “Se fosse stato un terremoto! Una buona scossa e non se ne parla più … Si contano i morti, i vivi, e il gioco è fatto. Ma questa porcheria di peste! Anche coloro che non l’hanno la portano nel cuore”.
Le scelte morali
Tarrou ha una sua morale, qual è? La comprensione.
Rieux, a sua volta, quella di curare la miseria.
E ancora, la morale del Narratore (il quale interviene in prima persona a pag. 101): “dando troppa importanza alle buone azioni si finisce col rendere un omaggio indiretto e potente al male: allora, infatti, si lascia supporre che le buone azioni non hanno pregio che in quanto sono rare e che la malvagità e l’indifferenza determinano assai più frequentemente le azioni degli uomini”. Il Narratore si fa “storico dei cuori straziati ed esigenti che la peste diede allora a tutti i nostri concittadini.”
Poi c’è Cottard, il prototipo dell’uomo che si trova meglio da quando nella sua città s’è installata la peste.
Il giornalista Rambert non fa che escogitare fughe da Orano perché non crede nell’eroismo, anzi peggio, lo crede omicida. E ciò che egli trova davvero importante nella vita è “che si viva e che si muoia di quello che si ama”.
Camus ci prova, tenta di sfidare l’assenza di senso dell’esistere, estende il contagio fino a quando questo non ha eliminato tutti i giudizi di valore. “Si accettava tutto in blocco”, scrive sfidando la sue stessa creazione letteraria, quella che gli sta alle spalle. Con questo suo estremo tentativo, prova a sterilizzare l’amore fino a creare un mondo insensato, basato sulla “pazienza senza futuro” e su “un’attesa incagliata”, nel quale gli uomini restano uccisi come mosche. Ma resta, per così dire, vittima della immensa sua costruzione. Adesso non può fare a meno di osservare “l’appetito di calore umano che spinge tuttavia gli uomini gli uni verso gli altri”, e li spinge fino anche alla spasmodica ricerca di quei “torridi piaceri che li difendevano dal gelo della peste”.
20 Ott 2011 Nicola 0 commenti
Un uomo che lavora, la povertà, il futuro lentamente chiuso, il silenzio delle sere intorno alla tavola, non vi è posto per la passione in un tale universo. Probabilmente Jeanne aveva sofferto. Era rimasta, tuttavia; accade che si soffra a lungo senza saperlo. Gli anni erano passati. Poi era fuggita, e beninteso non era fuggita sola. “Ti ho amato molto, ma adesso sono stanca … Non sono felice, se parto; ma non si ha bisogno di essere felici per ricominciare”. Questo, pressappoco, gli aveva scritto.
Joseph Grand, a sua volta, aveva sofferto; avrebbe potuto ricominciare, come gli osservò Rieux. Ma ecco, a lui mancava la fede.
Semplicemente, pensava sempre a lei. Quel che avrebbe voluto fare, era scrivere una lettera per giustificarsi. “Ma è difficile”, diceva, “ci penso da molto tempo. Sin tanto che ci siamo amati, ci siamo intesi senza parole. Ma non ci si ama per sempre. A un dato momento, avrei dovuto trovare le parole per trattenerla, ma non ho potuto”.
pagg. 64-65
16 Ott 2011 Nicola 0 commenti
Orano, luogo arido sotto il duplice aspetto del clima meteorologico e delle relazioni umane, città in cui “ci si applica a contrarre delle abitudini” (i giovani, ad esempio, si divorano rapidamente nell’atto d’amore oppure si impegnano in una lunga abitudine a due), ebbene Orano rende scomodo il morire.
Orano volta le spalle, in senso propriamente morfologico, a un paesaggio di impareggiabile bellezza, dunque Orano volta le spalle, in senso più allegorico, alla bellezza. Alla bellezza della natura e, in definitiva, della vita. Su Orano, cioè, il sipario si apre come su un luogo compiutamente dell’assurdo. Per quanto la narrazione non sia più in prima persona come ne Lo straniero, questa città sembrerebbe proprio l’elemento di Meursault, il palcoscenico sul quale l’impiegato, indifferente a tutto, potrebbe seguitare a gironzolare.
E così, sull’assurdità di un siffatto vivere s’abbatte l’insensatezza di un assurdo morire: la peste. La trista contabilità dei ratti morti mette fine all’estraniamento come categoria dell’arte. L’esplorazione delle passioni umane può cominciare. Estetica dell’assurdo: punto e fine.
Accanto a “modesti funzionari dediti a onorevoli manie” ecco ora emergere uomini che hanno “il coraggio dei loro buoni sentimenti” come il Joseph Grand che non trova le parole e passa il resto dei suoi giorni a ricomporre all’infinito le prime righe di un romanzo ch’egli avrebbe in mente di scrivere.
I flagelli che la peste reca agli abitanti della città in cui ha scelto di stabilirsi, come si diceva, sono “esilio” e “separazione” : amici, amanti e familiari che per le più svariate ragioni si trovano fuori da Orano e non possono più rientrarvi per le misure di quarantena imposte alla città, lacerati dal desiderio del ricongiungimento con coloro che sono rimasti “prigionieri” all’interno delle mura, sperimentano ad un tempo il dolore di “una memoria che non serve a nulla” e l’ottusità di una condizione priva di futuro. Lo scarto è precisamente qui: esilio e separazione vengono appunto percepiti come pena, non quindi passivamente accettati come in Meursault.
(continua)
11 Ott 2011 Nicola 0 commenti