… DUNQUE
04 Ott 2011 Nicola 0 commenti
04 Ott 2011 Nicola 0 commenti
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so.
Ho idea che Camus vada letto, seguito e interpretato, lungo il suo percorso narrativo, ponendo attenzione ai brani in cui mette in scena la morte di una madre.
L’incipit sconturbante de Lo straniero è incredibilmente emblematico (quando si dice: nelle prime righe c’è già tutto) del tono e dei significati dell’intero libro. Verissimo. Eppure esaurisce tutta la sua rappresentatività in questo testo. Vale a dire che esso non rispecchia approdi ed esiti delle prove (gigantesche) successive del medesimo autore. Pare, cioè, che Albert Camus pur continuando a servirsi di arnesi quali assurdità della vita e insensatezza della morte vi imbastisca sopra altro genere di costruzioni; egli si mette alle spalle ogni accostamento al genere dell’assurdo, riuscendo nell’impresa di mantenere in curriculum un’opera che dell’assurdo resta, ad ogni buon conto, un capolavoro. Tanto Lo straniero appare come un disumano esercizio di distanza e di estraneità rispetto al calore della vita, quanto La Peste e La caduta sembrano provare nostalgia dell’umano, nutrite come sono di consapevolezza per quel poco di cui l’uomo è chiamato a rispondere sulla terra e, nondimeno, di frustrazione per i fallimenti che al comportamento dell’uomo sono imputabili.
E così, personaggi drasticamente amorali come l’impiegatuccio Meursault, straniero a se stesso, accanitosi a rivoltellate, senz’alcuna ragione, sul corpo di un arabo, non potranno più godere nei successivi libri di un primo piano così spinto come ne Lo straniero. I motivi dell’esilio e della separazione resteranno al centro dell’opera di Camus ma declinati prevalentemente in una scrittura più morale. Laddove, nello scrittore premio Nobel, “più morale” non vuol dire rigida divisione tra il Bene e il Male, tra innocenti e colpevoli, vittime e carnefici, e via elencando – distinzioni che non si possono operare se non andando giù di un’accetta che certo non appartiene a Camus – bensì tensione costante verso l’individuazione di “un criterio minimo” che deve pur esistere per distinguere l’ingiustizia dal suo contrario. Significativo, al riguardo, l’atteggiamento del dottor Rieux de La peste, il quale precisa che non la salvezza degli uomini gli sta a cuore ma, più modestamente, la loro salute. Ecco, un’opzione morale per Camus può essere, per esempio, quella di provare a fare bene il proprio mestiere.
Ma si diceva dei libri di Camus letti attraverso il racconto della morte di una madre. Vediamo, confrontandoli con l’esordio fulminante de Lo straniero, come cambiano, ne La peste, il passo, la parola, il soffio, il palpito dell’autore dentro alle parole di un personaggio non secondario, anzi bellissimo e indimenticabile, qual è Tarrou:
Mia madre […] in lei amavo la stessa discrezione, e lei sempre ho voluto raggiungere. Otto anni or sono, non posso dire che sia morta; si è soltanto affievolita un po’ più del solito, e quando mi sono voltato non c’era più.
Anche l’anziana madre di Rieux è oggetto di un ininterrotto sguardo di tenerezza da parte del medico e dell’autore, mentre nella città nordafricana di Orano imperversa il flagello che mette a dura prova l’umanità dei sentimenti di tutti gli abitanti.
(continua)
01 Ott 2011 Nicola 0 commenti
26 Ago 2011 Nicola 0 commenti
08 Ago 2011 Nicola 0 commenti
Qualcuno, un Azazel, mi porti all’inferno e colà si porti pure il tormento e la bellezza del mio romanzo. Sì sì, anch’io scrivo solo per Jeshua, Woland e Margherita. Che per questo si additi al mondo la stolida irresponsabilità della camarilla degli “intriganti, conformisti e leccapiedi”, “fratelli in letteratura”, uomini di vaste letture e smagliante cultura, “gioiosamente dediti al loro vuoto” mentre nei vieti cerimoniali si incensano tra tartine e pizzette, per tacere di un “pesce persico au naturel“, delle “uova-in-cocotte con una purée di funghi in tazza”, e il sentimento gli si eleva ad altezze celestiali al cospetto rarefatto dei “filettini di tordo” e delle “quaglie alla genovese”. Io ci ho il mio fornetto dove appronto l’eterna zuppa “ignivomo lago”, sarei disposto a dividerla con la bestia Behemoth e il diavolo mi porti perché nel teatro della vita, e non nell’antivitale teatro del palcoscenico, ho imbrattato le anime belle. Pur non trascurando, prego notarlo, di insozzare la mia, vedomi oppugnato e un tantinello misconosciuto nella potenza figurativa del mio ingegno. Che il tram giustizi, opportunamente decollandoli, i direttori di riviste letterarie dalla “robusta erudizione”. Che qualche mia devota stregaccia rada al suolo le villazze dei parrucconi, loro già rasati con cura, che mi condurranno ai matti.
Alfine posso dire. Il mio, molto inedito, è il miglior romanzo dell’Unione Sovietica del secolo venturo.
20 Lug 2011 Nicola 4 commenti
Capitolo Cultura a Modugno: si dessero le condizioni per un gran bel repulisti di banalità e frasi fatte, in questa città si perverrebbe alla felice scoperta che la realtà è ben oltre ogni immaginazione. Già, perché l’immaginazione pare attossicata dal luogo comune, e questi altro non sarebbe che idea approssimativa, quando non del tutto falsa, della realtà culturale, dunque ‘idea ricevuta’ sullo stato dell’arte locale. L’altra faccia di un conformismo che se fosse spazzato via (cara grazia) lascerebbe posto ad una sola, bellissima reazione: di stupore di fronte a un patrimonio “di cui non se ne ha l’idea”. Appunto.
“Qui non c’è niente, qui non c’è cultura o nessuno la fa”, sarebbe la prima pertinace convinzione a finire a gambe per aria.
Ciò che manca, invece, manca del tutto, manca in senso criminale, è una volontà politica, un principio organizzatore, un orizzonte, un disegno anche di corto respiro; a mancare drammaticamente, in due parole, sono le Politiche Culturali. Precisazione, anche questa niente affatto originale, ma utile non soltanto a erodere terreno al qualunquismo endemico, a sottrarre argomenti a quel luogocomunismo in servizio permanente effettivo che tutto confonde e annega, ma pure anche a reagire nei confronti di chi, dalla imprecisione e dalla indeterminatezza dei concetti – ciò che corrisponde all’azzeramento della coscienza critica -, ha tutto da guadagnare. Primo: non fornire alibi a coloro che già fomentano l’anestesia di massa e che a questa rinuncerebbero solo potendo promuovere un analfabetismo di ritorno.
Si vuole qui segnalare come la scena cittadina sia fitta di ‘attori culturali’: una moltitudine di soggetti (al netto di coloro che lo fanno velleitariamente) che si cimentano in ‘imprese culturali’: poeti, romanzieri, attori, registi per il teatro e per il cinema, danzatori, musicisti e pittori. Molti di questi hanno raggiunto traguardi di una tale rilevanza, addirittura internazionale, da poter essere considerati artisti di vaglia, talenti certificati, ove mai ce ne fosse bisogno, da palmares e onorificenze. Inutile sottolineare come tutto questo (le loro opere, la loro arte) succeda nel totale disinteresse e della città che se n’infotte e delle sue istituzioni, fatti salvi quei passaggi doverosi in cui ‘il fatto importante’ viene notiziato – e magari accompagnato da certo cinismo propagandistico.
Meteore. Meteore per Modugno ma non certo per chi di quel talento, di quella professionalità, di quella risorsa si avvale ogni giorno e, così facendo, la valorizza e la fa fruttare.
Un caso emblematico per tutti: Tommaso Di Ciaula. Scrittore (di poesia e di narrativa) di statura elevatissima, degno di essere collocato tra i giganti della letteratura italiana contemporanea – chi scrive, mentre scrive, temendo di averla sparata grossa, ci pensa su e … e non è che veda in giro tutti ’sti giganti e sì comunque, Tommaso Di Ciaula ben figurerebbe insieme a quei pochi viventi capaci di Letteratura in Italia.
Bene, occorre motivare un giudizio tanto esaltante. Occorre andare a vedere dove sta la sua grandezza. E mostrarla. E se dovessimo riuscire a dimostrare come e qualmente l’autore di Tuta blu meriti di essere considerato uno dei più importanti scrittori italiani, il passo successivo sarebbe quello di gridare allo scandalo per la difficoltà (di reperire i suoi libri) in cui s’imbatte oggi chiunque voglia accostarsi alle sue opere. Dopodiché sarebbe inevitabile invocare un’iniziativa ‘politica’, almeno sul piano locale, per tentare il rilancio o una nuova diffusione dei suoi scritti. Countinua a leggere »
11 Lug 2011 Nicola 1 commento
La storia d’Abramo e d’Isacco non è documentata meglio di quella d’Ulisse, di Penelope e d’Euriclea. Sono favole entrambe. Ma al narratore biblico, all’Eloista, occorre credere alla verità oggettiva del sacrificio d’Abramo; l’esistenza delle norme religiose della vita riposa sulla verità di questa e di simili storie. Egli deve credervi con passione, o almeno – come ammettevano, e forse ancora ammettono, parecchi interpreti illuministici – doveva essere un bugiardo consapevole: non bugiardo innocente come Omero che mente per dar piacere, bensì un mentitore politico, ben consapevole del fine, e che mentiva nell’interesse di una volontà di dominio. Il punto di vista illuministico mi sembra psicologicamente assurdo, ma, anche se lo teniamo in considerazione, l’atteggiamento dello scrittore biblico di fronte alla verità della sua storia resta molto più appassionato e tendenzioso di quello di Omero. Egli dovette scrivere esattamente quello che esigeva la sua fede nella verità della tradizione, o il suo interesse, secondo la convinzione illuministica. In ogni caso, alla sua fantasia libera, inventiva o descrittiva erano posti limiti ristretti, la sua attività doveva limitarsi a redigere efficacemente la tradizione religiosa. Quanto egli esponeva non mirava dunque in primo luogo alla “realtà”, e se pur anche gli riusciva, ciò era pur sempre mezzo e non scopo; mirava invece alla verità. Guai a chi non credeva in essa! Countinua a leggere »
09 Lug 2011 Nicola 0 commenti
[…] Ma il fatto più importante è la complessità nell’intimo degli uomini singoli che in Omero è raramente percettibile, tutt’al più nella forma cosciente fra due possibili azioni: per il resto la molteplicità della vita psichica appare in Omero soltanto nel succedersi e nell’alternarsi delle passioni, mentre agli scrittori ebraici riesce d’esprimere contemporaneamente strati della coscienza sovrapposti l’uno all’altro e il conflitto fra di essi.
I poemi omerici, la cui cultura visiva, linguistica, e soprattutto sintattica, appare tanto più elaborata, sono invece relativamente semplici nella raffigurazione dell’uomo, e in genere anche nel loro rapporto con la realtà della vita che descrivono. La gioia dei sensi è tutto, e in quei poemi lo sforzo maggiore è di rendercela presente. Fra battaglie e passioni, avventure e pericoli, ci mostrano cacce e banchetti, palazzi e abituri di pastori, gare e giorni di bucato, sicché osserviamo gli eroi nella loro vita di ogni giorno, e osservandoli possiamo rallegrarci nel constatare come godano questa loro vita in atto, saporosa e colorita, leggiadramente inserita nei loro costumi, nel paesaggio, nelle cure quotidiane. E così essi c’incantano e ci attraggono e noi viviamo nella realtà della vita loro, e finché udiamo o leggiamo ci è perfettamente indifferente sapere che si tratta soltanto di favole, e che tutto è “inventato”. Il rimprovero, spesso rivolto a Omero, d’essere bugiardo, è un rimprovero insulso; egli non ha alcun bisogno di farsi forte della verità storica della sua narrazione; la sua realtà è forte a sufficienza: ci avvince, ci chiude nella sua rete, e gli basta. In questo mondo “reale”, per se stesso esistente, entro il quale siamo stati attirati, non c’è nessun altro contenuto, i poemi omerici non tengono nulla celato, in essi non esiste nessuna dottrina né un secondo senso segreto. Si può analizzare Omero, come noi abbiamo tentato di fare, ma non lo si può interpretare. Da certe tarde correnti critiche sono state tentate interpretazioni allegoriche che non hanno approdato a nulla. Egli resiste a un tale trattamento: le interpretazioni sono sforzate e bizzarre e non riescono a cristallizzarsi in una teoria unitaria. Le considerazioni di carattere generale, che si trovano sparse qua e là, manifestano un quieto abbandono a ciò che nella vita umane è ineluttabile, ma non il bisogno d’almanaccarvi sopra, e meno ancora un impulso passionale a ribellar visi, o ad assoggettarvisi in una dedizione estatica. Le cose stanno in modo completamente diverso nelle narrazioni bibliche. L’incanto dei sensi non è nelle loro intenzioni, , e se ciò nonostante agiscono vivacissimamente anche sui sensi, avviene perché i fatti etici, religiosi, intimi, ai quali unicamente mirano, si concretizzano negli elementi sensibili della vita. Il fine religioso determina però una pretesa assoluta di verità storica.
24 Giu 2011 Nicola 1 commento
le torsioni dell'anaconda, letteraria
Dunque, anche gli scrittori, come tutti, devono saper stare sul mercato. Questa è una tetra, imbecille cialtronata. Starci per starci, sul mercato, tanto valeva mettersi a produrre panni swift, suolette di gomma, graziose ballerine, spazzoloni, tavolette da cesso, bastoni per le tende, fibre lassative, cerchi in lega, cazzi di gomma, sbattitori elettrici, sacchetti sottovuoto. Basterebbe, per rimanere nel campo dei grafomani e degli amanuensi, clonare un libro (?) di Faloccia o di qualche altro genio della cordata giusta (più che della parola scritta) e si otterrebbe l’ennesimo prodotto seriale, più inutile di una qualunque delle merci sopra elencate ma però con lo scaffale in libreria già bello che prenotato. Niente di più comodo che scrivere ciò che tutti sanno già, niente di più pratico che buttarsi nelle braccia del gusto omologato di massa, niente di più delittuoso che attentare in questo modo alle percentuali di verde “già vergognosamente basse”, niente di più cortigiano che asservirsi al mercatismo, inteso sia come blocco di interessi concreti e molto circoscritti – nel caso italiano si sa bene come questo sia il mercato degli straccioni, il capitalismo provinciale e familiare di familismo amorale –, sia come dottrina (molto ideologica) elaborata da studiosi più interessati alle sorti dell’umano simposio che al proprio tornaconto (ma quando mai?!).
Non si ricorderà mai abbastanza che la prima preoccupazione non è “venderò quello che scrivo?”, bensì “che cazzo sto dicendo? Mi appartiene o sto cedendo a qualche lusinga?”. Fatto e detto questo, chi mai schiferebbe, comunque, un eventuale successo di vendite?
Se non si scrive per dare forma inedita all’inarticolato grido di dolore con il quale ogni giorno, ogni ora e ogni minuto si rinasce alla vita – e per far questo la lingua va reinventata ogni volta –, non resta che scopiazzare gli autori sbagliati nel nome della facile parlabilità. Quando si rimprovera allo scrittore di non farsi capire abbastanza potrebbe darsi pure che lo scrittore sia un cane e faccia cattivo uso dello strumento e delle insegne di cui si fregia, ma potrebbe darsi altrettanto che gli ostacoli alla comprensione siano tutti nel ricettore che fa fatica a sbarazzarsi dei suoi stereotipi di lingua e di pensiero.
13 Apr 2011 Nicola 0 commenti
L’ultima volta che mi scappò non mi riuscì di riprenderlo con me. Sapevo dove trovarlo ma quando lo raggiunsi lui mi disse che non sarebbe più venuto a stare da me. Non era arrabbiato con me. Era solo che riteneva giunto il momento di andare sulle sue gambe. Camminare sopra i suoi stecchi, dalle tenebre alla luce.
Gli chiesi se c’era ancora un’ultima cosa che potevo fare per lui.
«Tipo?»
«Non so. Devi dirmelo tu. Mi puoi chiedere qualcosa che può servirti nella vita. Qualcosa di utile.»
«Non credo che potresti aiutarmi.»
«Proviamo.»
«Vorrei un asino.»
«Ah?!»
«Hai visto che non mi puoi aiutare?»
«Ma che te ne fai di un asino?»
«Tu non ti preoccupare. Me la vedo io di che cosa me ne devo fare di un asino.»
«Sei proprio sicuro che non ci sia qualcos’altro che possa esserti più utile nella vita?»
«Senti, io tanto tempo fa vivevo con mamma in un organetto, se non lo sai. Può sembrare che non c’entra ma adesso voglio un asino, tutto mio, tutto per me, voglio farne la mia casa.»
Un pastore lo conoscevo. Figurarsi se non conosce pastori una come me, amante della campagna, di tutti i frutti del ventre della terra, delle fave, delle cicorielle, dei cardi selvatici… Meh, insomma alla fine l’asino l’ho trovato, sono andata a prenderlo dalla stalla di una masseria, l’ho pagato una fesseria perché Petruccio tanto non sapeva che farsene più. L’ho montato e mi sono fatta a dorso di mulo tutto il percorso al contrario. Ci ho messo cinque ore ma alla fine sono entrata in città, mi sono immaginata addirittura che potessero accogliermi con le palme benedette e invece ho attraversato un po’ di quartieri tra le occhiate incredule della gente e delgi automobilisti.
Finalmente l’ho visto, e anche lui non credeva ai suoi occhi. Quegli occhi che gli sono presto strabordati di gioia oltre le lenti da sole che portava senza separasene mai. Ha pianto proprio come un ciucciariello, e ho pianto anch’io. Dio solo sa quanto ho pianto.
Tra le lacrime ci siamo salutati.
O meglio, ci siamo detti addio.
04 Apr 2011 Nicola 0 commenti