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L’Angelus

Quel che seduce del Comunismo, il supervantaggio per dirla tutta, è che un giorno di questi ci smaschera l’Uomo, finalmente! Gli toglie di dosso le «scuse». Sono secoli che ce la dà a bere, lui: gli istinti, le sofferenze, le intenzioni mirifiche … Che ci fa sognare per il gusto di sognare … Impossibile sapere fino a che punto riesce a imbrogliarci, il fesso … È il mistero dei misteri. Sta sempre ben in guardia, imboscato con ogni cura, dietro il suo grande alibi. «Lo sfruttamento da parte del più forte». Una licenza in piena regola … Martire dell’aborrito sistema! Un Gesù Cristo fatto e sputato! …

«Io sono! E anche tu sei! Lui è! noi siamo sfruttati!».

Ha le ore contate, l’impostura! Finita con l’abominio! Spezza le catene, Popòl! Raddrizza la schiena, Dandin! … Non può mica durare all’infinito! Fatti vedere una buona volta! La bella cera che hai! Lasciati ammirare! Esaminare! Da cima a fondo! … Si scopra la tua poesia, ti si voglia bene come si deve e per quello che sei, finalmente! Tanto meglio, dio cristo! Tanto meglio! Prima è meglio è! i padroni, che schiattino! All’istante! Putridi rifiuti! Tutti insieme, o uno alla volta! Ma subito! Seduta stante! Illico et immediate! Neanche un secondo di pietà! Di morte atroce o soave! Me ne sbatto! Ah, non sto nella pelle! Soldi per salvarli, tutta quanta la razza, non ce n’è più! Al carnaio, sciacalli! Nella fogna! Perché stare a gingillarsi? Han mai rifiutato, loro, quelle belve! Un solo povero ostaggio a Re Profitto? Macché! Macché! Manco per il cazzo! Vi capita sott’occhio qualche posapiano? … farlo fuori subito, a fiuto! Quando ci vuole ci vuole! È la lotta! … Star lì a pensarci? L’onore? … Non sono neanche divertenti! Sono sempre più imbranati, più coglioni del vero! Per farci qualche risata, bisogna metterli a capo sotto! …

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Macchine, carcasse e carcasse di macchine

Massimina è il buco nella schiena di una statuina rubata, il tarlo di un sistema che doveva spiegare una volta per tutte, e scientificamente, genesi e palingenesi dell’esistenza; questa meravigliosa figura di donna rappresenta la falla che fa naufragare il sistema di regole che si pretende presiedano all’ordine e all’evoluzione dell’Umano. È Massimina l’inceppamento della/nella macchina. Sempre Massimina ad ingrippare l’ente motore.

Come dai congegni automatici “si ottiene un rendimento che oscilla tra un massimo ed un minimo” e “così anche in ogni concetto”, questo libro spinge avanti concetti che presentano l’oscillazione tra un massimo dell’affermazione dell’amore e dell’amicizia e un minimo della loro negazione. “Due estremi che compongono contemporaneamente il risultato e che rinviandoselo l’un l’altro lo mandano avanti”. Come dire che mandano avanti una storia e un romanzo.

L’ambiguità piena di Anteo Crocioni non consiglierebbe di tracciare ulteriori specificazioni alla materia romanzata. Nella vicenda dell’essere umano che ci racconta per dritto e per rovescio come non sappia egli stesso che cazzo ci fa sulla terra e ciò nonostante accanitamente si interessa della sorte dell’uomo, egli uomo ci smena da un lato la volontà ordinatrice che spieghi le regole dietro le quali corre l’evoluzione, dall’altro l’insensatezza/follia dilagante fuori e dentro di lui, suo malgrado. Ma oggi chi affronta queste poderose tematiche nel Romanzo?

Sarebbe fuorviante giudicare Anteo tutto positivo e magari anche martire. Volponi delinea un uomo, e un sistema con lui, fallace come gli altri, come tutta la “povera umanità incagliata”. La sua accademia per l’amicizia di qualificati popoli fa acqua in più di un punto e a maggior ragione quando sconfina nell’auspicabilità di una società comunista. È di non poco momento, infatti, il brano in cui, messo di fronte al giudice, Anteo (che fino a quel momento aveva risposto per le rime a tutti) incassa un colpo mica da ridere visto che Volponi, con astuzia di scrittore, non fornisce al suo personaggio le parole per una replica puntuale al “presidente del tribunale” che gli va rimproverando la rigidità della società comunista. Lì l’autore lascia a noi d’immaginare come Anteo in qualche misura barcolli. Quel che importa rilevare invece è che il giudice gli rimproveri proprio la società perfettamente comunista, non solo le degenerazioni partitiche impennacchiate di comunismo. Countinua a leggere »

altri spot, le torsioni dell'anaconda, letteraria, minimi sistemi

Duecento misti

Nella strada c’era gente che si chiedeva che diamine fosse quella puzza tutta nuova. Molti si lamentavano che era penetrata nelle loro case e che era davvero insopportabile. Bambini che vomitavano. Brizzolati cinquantenni già preoccupati del proprio cuore che scongiuravano eventuali crisi cardiache magari proprio a causa di questo fetore che faceva star male dal tanto che acciuffava allo stomaco. Una donna che quasi abortiva dal tanto che somatizzava. Un grassone che componeva il numero della locale compagnia dei carabinieri. E quando i carabinieri furono sul posto tutti a indicar loro da dove proveniva questo fiato sulfureo. Il bravo giornalista che giurava di aver visto i muri esterni della casa in questione trasudare liquidi fecali, no, seminali, no scusate fecali, fecali. I due carabinieri correvano nel viale, erano sul pianerottolo con le mani a mascherina sul volto e gli occhi irritati se non proprio lacrimanti. Suonavano. Niente. Suonavano e colpivano la porta. Ancora niente. Forzavano la porta e si ritrovavano coi piedi in un pantano scivoloso. Merda. Merda e silenzio. Merda e nessuno. Si lanciavano un’occhiata d’intesa: era successo altre volte di sorprendere intere famiglie in uno stato di degrado simile. Altre volte uomini e froci disperati e condannati da questo paese da incubo si erano ridotti a non uscire più di casa, abbandonandosi vieppiù e finendo con lo smerdare la casa in ogni angolo. Uno dei due carabinieri apriva una porta e scopriva una donna con uno sbuffo di capelli lunghi e grigi soltanto dietro un orecchio, come chi si fosse dimenticato di sciacquarsi via la pro-raso da quella parte, su un materasso completamente abbrunato di dissenteria. Continuando la perlustrazione entravano in un’altra camera. C’era un ragazzo gattoni che sembrava crogiolarsi nella pleplè, a guardar meglio muoveva a rana le braccia per dipartire i liquami densi e lasciare libera una porzione del pavimento sulla quale andava sistemando traversine e regolando lo scartamento tra i binari. Un carabiniere gli premeva due dita sul braccio, a scrollarlo delicatamente.

Corrado aprì gli occhi.

La radio aperta su Uomini e camion e tutto come sempre. Sempre peggio. Solo un potente puzzo di schifo composito che arrivava dalla finestra. Lo stesso che ammorbava la città.

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il teorema della manomorta invisibile

- Ma i libri che scrivi poi li vendi?

- Ma che cazzo me ne freca a me, scusa???

- Non puoi eludere questa domanda.

- Va bene, allora mi chiedi se vendo. No, io non vendo. Io compro.

- Come?

- Compro, sì, compro. Io scrivo nella carne. E compro corpi, anche guasti. Adesso: fuori dai coglioni, dài, dài, dài!!!!

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a tredici euro

“Che cazzo stai facendo?” disse il ragazzino pelato.

Un ragazzino coi capelli ricci stava cercando di staccare la bottiglia di coca-cola dallo spago che girava intorno al ciuccio e al quale era assicurata una indescrivibile quantità di roba.

“Fatti i cazzi tuoi!” disse quello con i capelli ricci, guardandolo appena con la coda degli occhi e facendo segno di starsi zitto. Riaffondò le mani tra pacchi di pasta e fiaschi di vino.

Il ragazzino pelato fece il giro intorno al palchetto posato sull’erba pietrosa, raggiunse quell’altro alle prese col ciuccio immobile e lo spinse via con violenza.

“Lascia stare la mia casa!”

Quello ruzzolò per terra e si rialzò furente pronto a restituire la pariglia. Ma c’era qualcosa che non gli quadrava.

“La tua casa?”

“Sì la mia casa, hai qualche problema?” Countinua a leggere »

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Sei sulla porta

Da L’odore della pioggia (Ed. Laterza, 1980, pagg. 71) di Tommaso Di Ciaula

Sei sulla porta

con i tuoi nastri

con i tuoi capelli

con i tuoi occhi

con il tuo sesso

tra gradini interminabili di calce

stentati gerani

mulinelli di polvere.

Dentro casa i tuoi vecchi

lupi che ti amano

che farebbero qualsiasi cosa per te,

sulla strada dietro le persiane

la brava gente si ferisce gli occhi

al sole meridiano pur di spiarti:

scrutano il tuo pallore

i tuoi rossori

i tuoi gonfiori

le tue tumefazioni

gli aloni rossi sulle tue pezze,

e tu sei lì sulla porta

sorda immobile pigra

ad odiare ad odiarti

e non hai altra arma

che un grezzo coltello

che odora di aglio

alla tua rabbia.

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Una realtà che levati

Non si ammette irrealtà della parola scritta (vergata nel Romanzo o nella Poesia da uno Scrittore) in quanto nella vita del genere umano non v’è niente di più reale. Più reale anche al cospetto della vita comunemente detta reale. Anzi, se c’è qualcosa di irreale nella vita del genere umano questo qualcosa è proprio la vita reale (comunemente detta), spesso condotta in modalità ’strambare’, appoggiata o impostata su sogni loffi o un po’ sballati, nella migliore delle ipotesi; delirante e segnatamente da incubo, nella peggiore.

Il libro di Giuseppe Giglio viene anche a ricordare queste parole di Vitaliano Brancati: “Il mondo è fatto di buoni libri: senza di essi, dietro di noi non ci sarebbe nulla; il mondo comincerebbe ogni mattina per finire la sera”.

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ciò che non siamo e non vogliamo

la coincidenza tra biografia e opera, dunque, non è un’ideologia ma una deduzione, una decifrazione tratta dalla realtà rimescolata in pagina. quanto è scritto non può non contenere tracce del sé scrivente; lo scrittore insuffla la vita nei personaggi, certo è indispensabile, ma se non ci mette la generosità, cioè se nella storia non ci sbatte se stesso, e se evita di farlo allo scopo di magnificarsi ma anzi lascia intendere o, meglio ancora, mostra del tutto la propria sgradevolezza, ha fatto cosa sacrosanta. quindi saviano non va bene, non è uno scrittore, non un facitore di letteratura.

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ad armacollo

E siamo lì: un racconto nato da un che lo sguardo a caso pone, come Democrito il mondo, è il frutto che viene alla fine di un processo di divagazione e di diletto. “Gli antichi miti” e “le mitiche memorie” presenti per sedimentazione in chi legge, ché se proprio vuole scrivere alla battaglia ci deve andare acculturandosi, non troppo magicamente affioreranno e ne ispessiranno la poetica.

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Dilatata pupilla

Ho rimeditato a lungo lo scioglimento dei dilemmi posti nell’articolo precedente, giungendo alla conclusione che se avessi azzardato delle risposte avrei finito per incasellare temi e trinciare giudizi ai quali avrei potuto anche impiccarmi. Inoltre mi sembrava di tornare su argomenti da me già fritti precedentemente a proposito dell’irriverenza verso verità precostituite e della necessità di mettere in discussione anche quanto si crede di aver guadagnato alle proprie certezze. Temevo di ripetermi e annoiare, insomma. Incasellare è un po’ morire e non è un caso che abbia accusato un impeto di inaridimento, un blocco che finora non avevo mai sperimentato proprio laddove cercavo di fare giù un discorso organico. Decidevo, pertanto, che ero uno incapace a statuire alcunché.

Dice: “allora te scrivi e scrivi ma non hai un progetto sulla lingua”. Bon, a parte che sulla lingua affettivamente non avrei un progetto ma una carta geografica, quella sì … Bon, potrebbe anche darsi. Se proprio oggi dovessi postulare ‘per i capelli’ qualcosa, direi una roba deludente tipo che la letteratura per me è uno sguardo, anzi più che uno sguardo quasi un’occhiata distratta sull’orizzonte del narratore, un racconto appunto senza alcun progetto e nemmeno messo in moto da chissà quale intenzionalità.

La mediazione dell’io che batte. Le lettere. Sulla tastiera. Non magistero della parola, ma trattativa, più che intrattenimento, da marchettaro con la lingua, inteso come caccia all’utile espressivo più immediato – forse per questo si dice “nell’economia del testo … etc., etc.”. Questa mediazione ha qualche rilevanza in quanto quell’io si è formato su altre letture. Da cui perverrei alla banalità che la funzione della letteratura è tutta nell’essere letta. Questa mediazione è degna di attenzione se l’io che la conduce mostra i crismi della genialità. E avendo sostenuto la distrazione dello sguardo, per genialità intendo il culo di ritrovarsi a guardare le cose (per raccontarle) da un punto di vista inedito. Il culo, perché ogni bravo proposito nella scelta dell’osservatorio mi risulta essere fallimentare. Questa la ragione, secondo me, per cui durante tutto il 2010 son stato lì a dire che la massima espressione letteraria dell’anno era Suttree che si muoveva sul suo “schifo” a pelo di melma e di detriti, da lì guardando la vita mentre accadeva sulle rive del fiume. Un movimento più geniale di ogni altro movimento di macchina, steadicam o dolly che sia. Un debito contratto con la cinematografia degli albori, quando i primi macchinicchi manovellati venivano sistemati su un battello della Senna o su un trenino, e via andare, il vedutismo, ma col valore aggiunto della grande tradizione letteraria americana palpitante e scalciante per sgorgare via dalla penna del McCarthy.

Alla fine mi è sembrato che la verità della letteratura sia la primigenia botta di culo nella genesi dei libri che sono poi stati in grado di scavallare i decenni e i secoli in virtù della loro preterintenzionale capacità di spoliazione dell’animo umano. Ovviamente diremo RAUS! ai libri scritti col culo degli altri (quelli più premeditati e al fondo cinici e disonesti nonostante il grande fascino dell’autore seduttore e cretino), ma questa è un’altra storia.

Ad ogni buon conto, ringrazio la lettrice Anna V. per la cortesia che mi ha usato di raccogliere i quesiti che io ponevo e per la qualità delle sue risposte. Apprezzo particolarmente, e sento molto vicino a me, il relativismo da lei mostratoci circa “la verità di chi scrive accolta nella verità di chi legge”. Si scrive per poter dire “io” mentre si compie l’azione perfetta dello scrivere: io mi responsabilizzo con le parole di cui dispongo, pongo in essere un linguaggio e giuro che quelle parole non siano vane: pongo una relazione etica – l’unica possibile dentro questo universo - tra me che significo e significato. Adesso però, il tardoccone che scrive si aspetta anche un chiarimento sul diritto di scrivere ‘vongole’.

Ad ogni buon conto due: lo sguardo. È un filo di crepa che tradisce sempre l’autobiografia, anche quando l’autore le prova tutte per rimpicciolirsi e scomparire. Lo sa bene un critico letterario come Giuseppe Giglio, il quale non per caso colloca in esergo al suo libro, I piaceri della conversazione – Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico, queste parole di Sciascia: “Uno scrittore, quale che sia la forma o il genere in cui si esprime, non si confida e confessa sempre? Nella sua opera non c’è già ogni confidenza, ogni confessione? Ogni buon lettore non è in grado di estrarle e farne testimonianza?”.

Ora, per chi non fosse soddisfatto del gran quaquichigghio che effettivamente ho qui combinato, giocando presuntuosamente con concetti di cui potrei non essere all’altezza, il libro di Giuseppe Giglio, vincitore dell’ultima edizione del premio Cardarelli come migliore opera prima di critica letteraria, costituisce sicuramente il luogo ideale in cui cercare possibili risposte alle domande che ci siam fatti. Non che Giglio incaselli o trinci giudizi, come sopra ho paventato, anzi, rischiara, e di molto, le idee e senza assumere un tono oracolare. Le sue conversazioni - il concetto, la chiave, della conversazione - vengono ad essere un’intuizione di non poco momento per la critica letteraria: tanto la stesura di un dialogo all’interno di un testo letterario costringe l’autore a prendere ” in considerazione le diverse opinioni possibili”, procedendo “a sostituire dogmi e preghiere” (Borges), tanto la conversazione è “un sistema – che rifiuta ogni sistema – di leggere il mondo, di capirlo […]” (Sciascia). Credo che una siffatta impostazione rappresenti un inedito quanto encomiabile bagno di umiltà oltre che un metodo sempre auspicabile per la critica letteraria, un segnale di ritorno entusiastico alla lettura, lettura e riflessione e giudizio nei quali si è smesso una buona volta di spingere avanti i propri preconcetti, in una cornice di ritrovato rispetto per gli scrittori. Se sussistono queste condizioni allora si può negare che la letteratura sia un risultato esclusivo dell’autore, per affermare invece la Letteratura come intelligenza del critico con lo scrittore.

Per appagare quindi la curiosità su come si tiene insieme un discorso critico ambizioso locupletato delle voci di alcuni dei più ‘grandi’ scrittori della storia (Montaigne, Stendhal, Pirandello, Brancati, Savinio, Borges, Alvaro, Sciascia, Durrenmatt e altri ancora) non posso far altro che rimandare alla lettura delle loro conversazioni con Giuseppe Giglio:

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