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diario di un giullare timido, letteraria

sbisciolame

mi chiedo se non sono diventato alle volte il cliché dello scrittore squattrinato con l’assillo dell’affitto da pagare, una discreta riserva di rancore destinato ai lettori, e due parole sempre a portata di mano per deplorare il sistema culturale. senza dimenticare il non trascurabile dettaglio del capolavoro certamente pronto per essere dato alle stampe che tuttavia giace ancora inerte tra le altre sue cartule, misconosciuto, esanime, prossimo alle prescrizione come un verbale di multa mai notificato.

essì che protervo come sono non credo né alla scadenza né alla natura sanzionatoria (di eventuali trasgressioni) della mia opera, connotati a causa dei quali sarebbe già bollata come effimera o velleitaria, e l’autore segnalato come il più pernicioso degli appartenenti alla schiatta dei moralisti, numerario alla conventicola dei soloni sempre pronti a fornire plantari correttivi non richiesti, organico alla gens dei fanatici depositari nonché esimi illustratori dell’ideale di Giustizia, riuniti in cupola. (a proposito, appartenni all’IDV, mi svilii per bene e ora son più relativista del re).

ecco, a furia di restare relegato nell’autoreferenzialità potrei anche convincermi di essere uno di quella razza lì, però che si sappia: io non ho mai scritto di Michelino, Dàniel, Ninì, Gerardina, Corrado, Vita Maria, Innocenza, etc., pensando di essere migliore di loro. tutt’altro: io mi sono abbassato al loro infimo livello, e lì, impiombato, sto.

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La pagnotta

Come nelle strutture a catena anche nella successione che qui presento ogni elemento è strettamente legato al precedente, ogni punto è all’origine del successivo. Vi chiedo di smentirmi i nessi:

A) Alfabetizzazione di massa

B) Industrializzazione della cultura

C) Serializzazione della produzione narrativa

D) Letteratura incolore e insapore formattata per le televisioni

E) Crollo della visibilità delle specializzazioni

F) Opinionismo di massa e massificazione dei concetti

G) Brutalizzazione dei codici linguistici

H) Intellettualità ripiegata in un cassetto e nuovo impoverimento intellettuale delle moltitudini

I) Indebolimento della capacità di comprendere i fenomeni complessi e le strutture profonde Countinua a leggere »

letteraria

Ingannamorte

Se l’era andata a cercare lo stronzone.

Ninì e l’autobus definivano insieme un grumo di dolore a quattro ruote che viaggiava su e giù, avanti e indietro, per strade provinciali.

Voleva solo parlare a qualcuno di suo fratello.

Quella volta una signora ben permanentata e vestita di cotone leggero era salita sul pullman, s’era seduta subito dietro di lui, il conducente, ed era bastata qualche sua parola di cortesia, un buongiorno detto cristianamente e, più tardi, un complimento per la guida così pacata e ferma, e ancora: “vuole due tarallini?”, per risvegliare in Ninì quella dolorosa paura della vita che, come un cane stuzzicato mentre dorme, si metteva a tumultuare nella cassa toracica e lo rendeva impossibilmente avido di un sorriso. Di un abbraccio magari.

Quella donna esibiva una tale espressione di benignità che, fatta la sua conoscenza, Ninì non poteva non ritenere giunta la volta buona per parlare finalmente del suo Beppe.

La donna, vedi il caso, s’era sempre gloriata d’essere una specie di missionaria e per questo se ne andava in giro per la città a fare del bene (o credendo di farlo!) facendosi ostinatamente carico dei problemi altrui. Detto più chiaramente: non sapeva farsi i cazzi suoi.

nicola saccoRacconti A Vita Bassa

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altri spot, letteraria, minimi sistemi

Che puoi dire ….

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L’innestatore

Ho idea che Cormac McCarthy si sia come ingaggiato a immaginare la vita di Tom Joad dopo che questi ha abbondonato la sua famiglia in California. Ho idea che abbia preso quest’uomo, lo abbia ribattezzato Cornelius Suttree e calato nel 1951 a Knoxville, Tennessee.

Nel romanzo di Steinbeck ci sono dei frammenti che giuntano il testo paragonabili a delle odi corali, benché prive di strofe e antistrofe, dalle quali scaturisce vento epico che soffia su tutta l’odissea dei Joad, della Famiglia. Ho idea che McCarthy invece abbia riconsiderato questi perni che rammendano la “notte” dei Joad nella loro lunga traversata verso la sconfitta, e li abbia fusi facendoli colare e rapprendere come oro lirico sulle figure del suo teatro d’ombre.

Allo stesso modo il grande romanzo americano transita da una tradizione “socialista” in cui si rappresentano le vicende, diremo collettive, dei più deboli in lotta per la sopravvivenza e contro nemici sempre più grandi e imbattibili, alle sacrosante pippe individuali del singolo irredento, inassolto, malvissuto e poeta.

Con tutto questo c’entra qualcosa il dire che Victor Hugo ed Émile Zola (il mistero della fruttificazione del seme avvicina Germinal e Steinbeck in un modo a mio parere evidentissimo) sono meglio di Marx e Lenin? E a suffragare questa considerazione può servire la ricchezza di sfumature proprio in The Grapes of Wrath, dove convivono un Casy predicatore che spretandosi diventa il più comunista di tutti, e una voce molto più cosciente di quella di un banale sindacalista, che non smette di parlarci dell’ostinazione a vivere e di quella costante dell’uomo che è il perenne suo sussulto di vitalità, quantunque egli sbagli, inciampi e retroceda di “un mezzo passo, mai di un passo intero”, concludendo che in quel passo così faticoso risiede il progresso dell’umanità?

Mi sa che si deve passare di qui, da questi libri, per vedere dove si formano per la prima volta le immagini che, imprimendosi definitivamente nella percezione di ciò che è America, diverranno topiche: scassoni su strade liquefatte dal caldo, uomini accoccolati sui talloni che tracciano segni nella polvere con un fuscello, sgualdrine, puttane, mestatori, grassatori di strada, “delitti che trascendono ogni denuncia”, zotici, trincatori e quadrincatori, derelitti e ratti e negri e galeotti. Si può anche passare per un film di John Ford che una grande fotografia di un espressionistico bianco e nero fa aderire bene al Furore che si legge, film a cui, però, non potrò mai perdonare la mutilazione dell’ultima grandiosa immagine del libro. Avranno anche avuto problemi di censura, o di varia natura, durante la realizzazione della pellicola, ma non si può soprassedere su una scena così potente e straziante, fondamentale nel racchiudere tutto il senso di quanto si è scritto, senza svuotare di significato il solo aver pensato di poter tirare via un film da cotanto romanzo.

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La gara dei rutti

L’impostura è tutta nel credere che lo scompaginamento del discorso artistico portato con la civiltà delle immagini (cioè dall’avvento del cinematografo) sia l’imposizione e la supina accettazione della solita messa in quadro. E invece no, si deve intendere la civiltà di una pluralità di immagini e non di poche varianti di quell’unica e sola che esautora la parola e il pensiero elaborante che la presiede, che alimenta vite vissute per delega, e se proprio ci deve essere qualche mal di pancia, qualche riflusso, che si faccia allora in modo che sia al massimo grugnito e sghignazzo.

Invece sono convinto che il cinema e, andando a ritroso, la fotografia e le arti figurative tutte, non solo non siano colpevoli dell’immiserimento espressivo, cosa che il delinquenziale equivoco della “società delle immagini” indurrebbe a credere, ma che lo rifiutino proprio “politicamente”.

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Parlo a vanvera dunque scrivo

Qua succede che si è talmente capovolta la faccenda che non tiene più neanche l’alibi dei temi complessi che devono passare necessariamente per figurazioni semplici e di facile lettura. Perseguendo ossessa il mito dell’immediata comprensione, l’odierna narrativa italiana, e tutto il sistema che la regge, corre il pericolo di degradarsi a pura innografia e quindi, fatalmente, a canto liturgico che necessita appena di un officiante, due chierichetti e magari un coretto tuseilamiavitaaltroiononho. Invece la struttura agile ce la si deve meritare, come Nietzsche si meritò la pazzia, sennò come fai a criticare la cazzata del “serve un PD più sexy“? Che altro doveva essere questo partito se non appunto una struttura agile? E non è diventato un pasticcino avvelenato questa storia delle categorie sexy spalmate su ogni forma di espressione dell’uomo di cittadinanza italiana a mascherare la mediocrità, la desolazione? A furia di sensualizzare il nulla poi non ci si dovrebbe sorprendere più di tanto se a quel ragazzo che ti faceva così sesso poi non gli si arma la verga. E tu, che eri convinto di sentire addosso a lei il profumo della fica? Te ne tiri uno a mano visto che l’hai trovata seccata come neanche dopo prolungata esposizione a vento di favonio. Perché se non sei Céline non puoi sciacquarti la bocca con la scrittura che riproduce il parlato quotidiano. E dei tanti nuovi Céline se ne son salutate di nascite ma poi ci si è dimenticati di pubblicarne il certificato di morte.

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intra cotenna

E a cosa somiglia questo processo di rappresentazione affidato a spostamenti più o meno regolari (nel tempo e nello spazio) del punto di osservazione se non a quei “movimenti di macchina” che vengono a costituire il valore aggiunto del linguaggio cinematografico? Questo è proprio il cruciale momento dell’apparentamento, della contaminazione reciproca ormai imprescindibile tra le due arti, dello squagliamento dell’una nell’altra, dell’incesto tra sorelle che nei risultati più “alti” dimentica primogeniture, abroga autorità e presunte supremazie.

Però questo post nasce per dire dell’altro, una notazione di servizio. Se cominciate a leggere questo libro qui vi avviso di una cosa: arrivati a pag. 178 dovete decidere se permettere a una mano, a delle dita cattive, di insinuarsi sotto la vostra cotenna e di mettersi a impastare la materia cerebrale, a rovistare con insistenza nelle sedi del dolore. Continuate a leggere solo se accettate questo. Senza contare che fino a pagina 182 ci sono delle cose che c’entrano parecchio con le mie – o, più rispettosamente, il viceversa.

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il mio Suttree

ecco, questo, forse: si scrive per dinamizzare il punto di vista su acque nere stagnanti. per edificare un viadotto a sovrastare una gola in fondo alla quale scorrono i liquami.  per posare delle condotte nella vita e farci passare la verbalizzazione. per articolare con parola anche il mondo preverbale. questo il movente. le posizioni da cui si osserva invece attengono al piano delle scelte stilistiche: da sopra, da sotto, dal di dentro, dal lato. ognuno come può. il vecchio Cormac meglio di molti mentre voga dal suo “schifo”.

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I miei degenerati

Sono scrittore non perché commerci col potere ma proprio perché non intrattengo ancillarità alcuna col potere. Sono scrittore di e in una cultura “altra” rispetto a quella della classe dominante, niente affatto interessato alla facile parlabilità cui quella è pervenuta, estraneo pure anche all’ottimismo da “magnifiche sorti e comunicative” di quella. Sono scrittore, bravo o meno non importa, per predestinazione e quindi per necessità. Sono scrittore proprio perché mi va di ricorrere al dialetto epperò senza ruffianerie, cioè senza glossari, quindi per totale fiducia nel suo potenziale espressivo. Sono scrittore perché vivo attraverso i miei degenerati, i figli di famiglie infelici di RAVB, raccontati nel passaggio dalla loro dimensione chiusa e arcaica all’aria aperta della società che li detesta, e perciò stesso divorati dalle nevrosi, e in tale passaggio resi all’istante dei disadattati senza speranza che come uomini si adempieranno soltanto nella perversione. Sono senza speranza loro perché sono scrittore pessimista io. Pessimista in quanto come scrittore non faccio altro che farmi incrinare, deliberatamente, le mie certezze strutturalistiche. E ogni volta mi rifaccio una verginità strutturalista e ogni volta me la spappolo. Poi, i miei “poveri”: non li seguo con umanitarismo peloso, il modo più facile per abrogarli del tutto; piuttosto me li faccio e da loro mi faccio fare, in senso genitale e quindi creativo. Sono scrittore perché trovo che la più bella novità dell’anno nel panorama del “raccontare” sia quel Sergio Citti filmato da Martone mentre commenta il suo filmato girato una decina di giorni dopo la morte di Pasolini, all’idroscalo di Ostia. La forza di quel racconto è proprio la forma, un loop doloroso, lo stile iterativo e ossessionato, e, letterariamente, la lingua di Sergio Citti, lamentosa, manicomiale, con dentro tutta la nostalgia di sapersi irrecuperabile a ogni ottimismo, ad ogni perfezione. “Ecco qui la maaghina […] erano due le maaghine …”

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