Quando la presi in affitto, questa casa, pensai che fosse un buon riparo anche rispetto al caldo. Confidavo nelle mura spesse di una casa antica. Altrettanta fiducia riponevo negli alti soffitti a volta che avrebbero consentito al calore di disperdersi salendo verso l’alto. E invece domenica scorsa, una domenica di fine luglio, alle tre del pomeriggio non c’era scampo al tormento. Senza condizionatore in casa sono uscito sul balcone del palazzotto ottocentesco (nella foto è una finestra nella facciata gialla sul lato sinistro) con la grinta feroce che se caldo atroce doveva essere, che me lo prendessi tutto in pieno. Farsi una sigaretta mentre ti sbatte in faccia quel flagello africano de “la favugna” è come farsi del male due volte. Un accanimento scioccamente letterario che prova a sintonizzarsi su frequenze da “morte del Principe”.
La sorpresa era tutta nel silenzio. Un delirante silenzio, oserei dire, se si esclude il tappeto sonoro del frinire delle cicale. Pensare che il Corso Vittorio Emanuele, sul quale si affaccia la mia camera da letto, per il resto della settimana è afflitto da una circolazione automobilistica di una demenza da competizione, quando invece ora non vi era traccia dell’essere umano, né di qualsivoglia forma di vita, ma manco li cani (come suol dirsi), faceva impazzire dallo spaesamento.
Dalla mia specola privilegiata posso godere di una vista prospettica della via centrale. Gli edifici generalmente bassi si susseguono a partire dal punto di fuga laggiù, segnato da quello che chiamiamo grattacielo: una concrezione di cemento di dieci piani capace da sola di stravolgere la skyline modugnese (nella foto però questa saracinesca non c’è). E solo quella domenica i palazzi più antichi mi si sono rivelati in tutta la loro evidenza ottocentesca (quando non di origine XVIII secolo).
Guardando in basso invece notavo con preoccupazione i cassonetti sulla strada straripanti di rifiuti (cosa che comincia ad accadere con troppa frequenza anche qui): sacchi di ogni colore troppo gonfi, vescicole pronte a schiattare, evocanti palle gustose di gelato alla frutta sistemate sul cartuccio. Magari! La realtà era invece fatta di marciapiedi lerci di unto, tanfo e generale putridume fermentante insieme alle scorze di anguria e alla pastasciutta avanzata e buttata via. Segno comunque che c’era vita da qualche parte ma aveva deciso di starsene tappata in casa. In questi casi non conviene neanche prendere la via del mare.
Volevo un fernet, giusto per non lasciarmi scappare il colpo di grazia di mia spettanza, ma i bar sotto casa erano chiusi. Di aperti non c’erano neanche i banchetti di mandorlari e olivari protetti da lacere incerate turchesi. Un ulceroso, funereo meriggio mi sembrava, e mi soccorrevano in proposito le impressioni di Brancati su “la ripresa buia della luce”.
Non pioveva da quasi due mesi.
Nel meteo regionale non riecheggiava che la frase: sulla Puglia bel tempo. Sulla Puglia bel tempo. Sulla Puglia bel tempo. E nella grafica commentata dal colonnello dell’areonautica il sole, bello come un’arancia, perseverava diabolicamente sul tacco d’Italia. E sullapugliabeltempo , scandendo ogni santa giornata di oltre quaranta infami gradi, finiva per risuonare come una cantilena sinistra, un invito a cedere, a ninnarsi carne sudata, a disfarsi. Una cantilena funebre.