Pedalate belle rotonde
Salire per restare soli. Spingere più forte degli altri sempre per restare soli. Andare alla conquista della vetta, laddove dimorano gli dèi. Perché ascendere in bici è sempre spiare con lo sguardo, frugare nell’Olimpo, sondarvi una qualche disponibilità, una benevolenza. Ma non tanto e non solo quello. Restare a spellarsi l’anima sulla roccia spellata. Quando ti chiedono chi te lo fa fare? rispondere di rivolgere la stessa domanda agli asceti, anacoreti e mistici di ogni ordine e grado che vanno a rinchiudersi in una grotta. E se non ne vedono il nesso allora aggiungere che sono cattofascisti di prima grandezza.
E poi d’improvviso l’Olimpo non è più l’Olimpo ma è San Giovanni Rotondo. I tornanti ti stanno conducendo giusto verso Santa Maria delle Grazie. Nelle testa ti stanno scorrendo dei fotogrammi nei quali ci sono pellegrini accaldati che ghermiscono altri fotogrammi attraverso i loro cellulari lampeggianti sulle spoglie di padre Pio. Mai ti rassegnerai a chiamarlo San Pio. L’acido lattico ha rotto gli argini: le immaginette, le statue a grandezza naturale, i grani di rosario, i libri sul frate, sono veleni nel sangue che i muscoli potrebbero rifiutarsi di smaltire. I polmoni bruciano come vi fosse stata scolata dentro una manciata di sabbia. Allora ti ricordi del fazzoletto che porti sempre con te. Ce l’hai nella tasca sul dorsale. Quello che tutti i devoti che sono stati a San Giovanni Rotondo conservano. Nel convento del frate, dopo aver visitato la cella dove spirò, si passa in un’altra stanza, quella in genere più affollata. Sofferenti di varia natura si accalcano attorno a una vetrina. Un garbuglio di cerotti, garza e ovatta imbrattati di sangue e un fazzoletto, ben spiegato dietro il vetro, con una macchia nerastra al centro che si stempera in un più ampio alone affumicato su tutta la superficie restante del cotone. Non ricordi bene: era forse l’espettorato di Padre Pio? Quando sei lì devi sfoderarne uno tuo, di fazzoletto, e passarlo più volte sul vetro, strofinarlo e baciarlo subito dopo. E conservarlo come fosse quel che di più caro al mondo ti è mai stato concesso di possedere. Quel fazzoletto adesso lo usi per asciugarti il sudore sulla faccia. E speri ingenuamente che lenisca la tua fatica di ciclista. Sotto le infinite arcate della chiesa nuova vedesti lei tra i banchi, di fianco al marito e al figlioletto. Quanto la amavi. Quanti muri avresti scalato in bici per la rabbia di averla persa? Lo vedi che hai ancora la forza di scattare qui, su questo colle proibitivo? Ogni volta che giri un tornante puoi guardare giù, vedere una striscia di terra piatta come un tavoliere. Si srotola dal rocchetto sul quale sei salito. Ti piace? La vedi come si ondula in lontananza? Come ventilata, increspata di Murge. È la Puglia che vorrebbe riavvolgersi attorno alla bobina di roccia che ti stai sciroppando. Ti piace? E sotto la terra è matta come un cavallo e mezzo.
18 Lug 2009 Nicola 2 commenti