altri spot, letteraria

Violenza della fine e volontà del Signore

Quaranta metri quadri, tettoia e pergolato. Ninì vive praticamente a cielo aperto, arredo scarso: una sdraio di là, sul lato scoperto, dove dormirci come un bradipo su un ramo di cecropia. La strada di edifici fatiscenti e lerci è soffocata dagli odori del carburante del caldo umido giugno delle scarcioffecoibisi della terra non scrollata dai vestiti dei senegalesi, e dai consueti gorgoglii della vita rionale.

Quando è finalmente rincasato è notte fonda, va nel frigo, ne tira via una tazza. Nelle peperonata gelida ci sbriciola sei puramente sette pastiglie di zoloft. Nel foglietto illustrativo alla voce interazioni nulla è detto a proposito del mischio tra setralina e ortofrutta, per cui via col pane intinto in questa zuppetta paranoica. La mano agguanta il vicino telecomando tutto incerottato, il pollice apre sul tre. Enrico Ghezzi sta presentando il prossimo film e nel farlo parla della violenza. Della violenza. Della fine. Della storia. Questa è la sua cadenza per parlare della violenza della fine della storia. Ninì pensa che la violenza della fine della storia è il capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è quella terra bruciata che incuba mine, subito alle spalle del capolinea di Marcianelle. Violenza della fine della storia è la mano di un bambino che colpisce duramente il corpo di un altro che tenta di scappargli via. È strifone.

diario di un giullare timido

No di carne macinata

No importa cosa sei che giudizi ti affibbiano quello che ti appioppano che libri leggi che musica ascolti quale religione l’orientamento politico. Importa solo di come ti canta il sangue di come figliò il tuo ieri di come ti pascoli l’oggi e ti decanti il domani. La percezione dell’incavo del tempo del tuo tempo dei tempi tuoi. No importa la coerenza come te la chiedono gli altri sì importa che tu sappia dire la tua di coerenza o comunicarla o mostrarla facendo scissione del velo.

Oh mio caro individuo.

Incarnarsi come un dio nel suo cristo no incarnirsi no incistarsi come certi cristi.

le torsioni dell'anaconda

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minimi sistemi

come ti resisto io, come non ti liberi tu

riprendo dalla rivista Sud Critica questo mio articolo ispirato dallo sconcio travestimento a cui si è potuto assistere qualche giorno fa: l’Invasore che sale in cattedra mascherato da liberatore

25 APRILE E 1° MAGGIO A MODUGNO. I PADRONI RESISTENTI

di Nicola Sacco

Raggelante celebrazione del 25 Aprile a Modugno. Un corteo sfila per le strade cittadine come un idra a tre teste: ogni testa in cosiddetta rappresentanza delle istituzioni locali. Il sindaco Domenico Gatti, il consigliere provinciale Giuseppe Rana, il consigliere regionale L’Innominato.

In verità essi sfilavano secondo ben diversi criteri di rappresentanza. Proviamo a incolonnarli in ordine di importanza, illuminando al contempo ciò di cui essi sarebbero realmente rappresentativi:

1) L’Innominato: a quanto pare consigliere regionale udc, ma più sicuramente re del mattone a Modugno, cementificatore forsennato, elegantone a vanvera, fautore di un ritorno al vassallaggio diffuso, padrone qui di un partito di sedicente ispirazione democratico-cristiana allo stesso modo in cui può esserlo, padrone, il fondatore di un celebre partito-azienda, ma soprattutto signore assoluto di un paese bruttato da incessanti aberrazioni urbanistiche portate a suon dei suoi stessi progetti, dei suoi stessi cantieri, dei suoi stessi palazzi;

2) Giuseppe Rana: a quanto pare consigliere provinciale, sempre udc, sindaco per due mandati, dunque per dieci anni, gli stessi in cui ha lasciato che la città di Modugno fosse continuamente bruttata (magari dall’Innominato), fino ritrovarsi un centro storico ridotto ad immondezzaio, un paesone come un’unica concrezione di cemento che impazzisce in mille direzioni, e una qualità dell’aria che già come espressione grida vendetta – a Modugno la parola qualità non può in alcun modo accompagnarsi all’aria – , quindi diremo più opportunamente: un’aria pestilenziale, per la quantità di veleni in essa presenti che, studi epidemiologici  ed esperienza diretta alla mano, reca malattia e morte in troppe famiglie del comune. Si deve pure ricordare come durante il decennio Rana il segno del deterioramento spaventoso della qualità della vita sia dato anche da un radicale smarrimento del senso civico negli abitanti modugnesi (complice l’assenza di politiche culturali degne di queste nome) fino a un degrado e a un disagio e a un’angoscia vissuti praticamente ad ogni livello dell’esperienza civica;

3) Domenico Gatti: a quanto pare primo cittadino, sì, insomma, sindaco contro ogni evidenza, degno epigono di Giuseppe Rana, sebbene sia rimasto indelebile nella memoria di molti cittadini, crediamo per il carico di mistero e impenetrabilità che ancora porta con sé, l’arcano messaggio della discontinuità nella continuità, di cui si fece portatore  agli esordi della campagna elettorale del 2011. Alcuni detrattori col sangue agli occhi sostengono trattarsi semplicemente di carico di impenetrabile ipocrisia. Pare, infatti, che durante l’evo Rana, egli fosse uno, il primo, dei suoi assessori all’urbanistica – cosa che lo renderebbe dunque indubbiamente complice nella devastazione di un paese nonché concubino e di Rana e dell’Innominato – e pare, inoltre, che, sempre nello stesso periodo storico, da segretario del principale partito di maggioranza, quello democratico, abbia contribuito, da concubino appunto, a mantenere saldamente in sella il sindaco Rana, il quale, ad onta del perduto amor del Gatti, gli avrebbe anche fatto prima un incantesimo e poi pure una linguaccia nel mentre che passava a sistemarsi tra le fila dell’udc. Grazie a tale incantesimo, infatti, Rana avrebbe potuto insolentire a piacimento il partito democratico senza che questi arrivasse mai non solo a concepire sfiducia nei suoi confronti, ma nemmeno mai una forma di larvato scoramento, di timido distacco, di modesta incomprensione. Insomma, sotto la guida Gatti, si è riusciti nell’impresa di forgiare un partito totalmente esente da sussulti di dignità. Oggi, però, l’aspetto di più problematica decrittazione dell’amministrazione Gatti è questo: cosa aspetta ancora il sindaco a nominare un assessore alla cultura? Come mai quella carica è ancora vacante. Chi non siede su quella poltrona? Qual è il suo disegno? Cosa si nasconde dietro questa non-scelta?

Ora, si dà il caso che via sia un’indagine, condotta e ormai conclusa dalla magistratura barese, su una presunta associazione a delinquere: il sindaco Domenico Gatti sarebbe uno della cricca, l’ex-sindaco Giuseppe Rana sarebbe uno della cricca – altri consiglieri comunali di destra, centro e sinistra sarebbero coinvolti nella medesima cricca -,  … e poi ci sarebbe una sorta di convitato di pietra in questa cricca, un dominus, appunto un Innominato, o forse solo un Non Ancora Nominabile. Oltre che sconfortare, annoia, anche, il dover segnalare come si tratti sempre degli stessi intramontabili prepotenti di Modugno, quantunque si travestano da nuovi o trascorrano dal pd all’udc e viceversa: quelli che cambiano i regolamenti comunali nottetempo, in pieno agosto, mentre tutti dormono o stanno al mare (per favorire gli amici diversamente concubini con nomine intuitu personae ad incarichi tanto inutili quanto strapagati), gli stessi che violano il buonsenso e il buongusto urbanistico prima ancora delle stesse norme urbanistiche, gli stessi che consumano brogli elettorali tramite magheggi tipo inadempienze formali finalizzate all’alterazione della composizione dei consigli comunali, gli stessi cioè, che procedono speditamente con le più innovative tecniche di eliminazione dell’avversario politico , da sinceri e determinati nemici della democrazia.

Questi sinceri e determinati avversari della democrazia, sfilano, dunque, da “liberatori” nel giorno del 25 aprile, in testa ad un estenuato corteuccio. Ancora una volta consumando questo rituale indecoroso delle istituzioni che onorano “il giorno della …”, ovvero della qualunque cosa, senza che nessuno si mostri sensibile a cogliere il grande inganno ravvisabile nel fatto che, nel caso in questione, chi officiava il rito della “Festa della Liberazione”, premeditatamente soprassedendo sulla Liberazione come evento culminante di una civiltà della resistenza madre successivamente di una civiltà costituzionale, ebbene, È, proprio egli officiante, in realtà, l’abusivo della democrazia, o meglio “l’Occupante”.

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SudCritica: “cronache modugnesi”

Una mia partecipazione a Cronache dall’Interno, videorubrica di SudCritica

http://www.sudcritica.it/index.php?option=com_content&view=article&id=400:cronache-modugnesi-video&catid=40:cronache-dallinterno&Itemid=59

diario di un giullare timido, minimi sistemi

italiademmerda

siccome sono arrabbiato col mondo, mi sono bevuto il cervello e ci sono molte cose che mi hanno dato alla testa - dicono, eh? … a me pareva di essere un tipo simpatico, anzi spassoso, quandochenon adorabile - vomito quest’altra invettiva:

ma che intellettuale è uno che parla della crisi e dei relativi ineludibili provvedimenti, ma non mette minimamente in discussione il concetto di crisi e dell’esistenza stessa di questa crisi (pur esistendo, eccome!, le misure di crisi)?

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sono così indie che il blog è fuori moda

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Lo spirito del Tempo

Un intervento di chirurgia estetica presentato in tutta la sua raccapricciante verità di carne niente più che macellata e riassemblata con giunti e punti di sutura. Inizia cosi Time (Kim Ki-Duk sceneggiatore, regista e produttore).

Una donna dal volto nascosto dietro una mascherina, appena dimessa dall’ospedale dopo un intervento di chirurgia facciale, viene urtata per strada da una ragazza di fretta. Nello scontro, fortuito, una foto incorniciata, ritratto del volto di un’altra donna, casca per terra e il vetro sotto il quale la foto era fissata va in frantumi. La ragazza che arrivava di corsa si scusa, raccoglie i cocci e s’incarica di rimettere tutto a posto, portando via con sé la fotografia.

Una donna che sorride ma sembra pazza, in quell’immagine.

La ragazza di fretta è Seh-hee, follemente innamorata del suo uomo Ji-woo ma anche gelosa psicotica, soggetta a esagerati scoppi d’ira nella crescente convinzione che Ji-woo non faccia che guardare altre donne perché stanco di lei. A seguito di una di queste scenate di gelosia, la fotografia raccolta da Seh-hee rimane abbandonata sul tavolino del caffè che i due frequentano abitualmente. E quel che lo spettatore capisce dai primissimi minuti del film è che quel volto, di una donna che sorride ma sembra pazza, sarà destinato ad arcano e penoso peregrinare.

“Mi dispiace di avere sempre la stessa faccia noiosa”, si duole Seh-hee dopo un problematico momento di intimità con Ji-woo.

Quindi lei sparisce. Lui si sente scaricato e nello stordimento cerca di reagire consolandosi in altre avventure, dalle quali, però, trae l’unica certezza della sua vita, quella di amare ancora e profondamente la sua Seh-hee. Ogni volta che Ji-woo è con una donna succede sempre qualcosa, qualcosa che viene ad interrompere e, in definitiva, ad impedire che un atto d’amore possa compiersi tra Ji-woo e una qualunque delle sue donne. Nella stanza di un motel dove si va per scopare, si rompe persino il vetro della finestra.

Nella vita di Ji-woo l’abitudine gioca il ruolo fondamentale di remare contro il Tempo. I suoi interessi sono la fotografia (intesa qui come hobby), il solito tavolino al solito caffè, il parco delle sculture su una spiaggia isolana. Una grammatica della immutabilità segna il Tempo dell’uomo. Il linguaggio della fissità segna, per la precisione, i sei mesi trascorsi dal momento in cui Seh-hee lo ha lasciato.

Ma che fine ha fatto Seh-hee?

Seh-hee è diventata un’altra. Sopraffatta dall’amore morboso per Ji-woo ha desiderato e scelto per sé un altro volto da offrire al suo uomo. Ha creduto di risparmiare a Ji-woo la monotonia del “sempre uguale” sottoponendosi ad un intervento di chirurgia plastica che cambiasse il suo volto. Una scelta drastica e sconsiderata ma che serve a fare di Seh-hee la protagonista del film: un personaggio in conflitto col Tempo, talmente ansioso di consumare e divorare il Tempo, da spingersi in accelerazioni e manipolazioni dei processi vitali sui quali sempre il Tempo dovrebbe essere unico signore, fino ad ottenere cambiamenti troppo innaturali per non essere in aperto contrasto col Dio Tempo. Antagonista Ji-woo che, invece, il Tempo vorrebbe fermare. Da questo dualismo origina l’idea del film, da questo attrito muove la storia di Time.

Seh-hee è diventata colei che ora serve il caffè a Ji-woo, la cameriera del bar frequentato da una vita. La nuova Seh-hee è molto bella e diversa da quella del passato e si presenta a lui senza però avvertirlo della sua vera identità (con un nuovo nome, ancorché simile al vecchio, quindi sotto mentite spoglie). I due prendono a frequentarsi, si conoscono meglio o, per l’esattezza, Ji-woo fa la conoscenza di questa “nuova” donna, mentre lei sa perfettamente chi è lui. Nascerebbe un amore se la follia di Seh-hee non prendesse ancora una volta il sopravvento. Lei si mette a curiosare, anzi, a scoperchiare oscenamente ciò che a volte è bene resti sepolto nell’intimo. Così scopre che Ji-woo non ha chiuso col passato, che se Seh-hee si facesse viva lui tornerebbe con lei, perché ne è ancora innamorato.

Seh-hee adesso deve ammettere a se stessa di essere profondamente infelice, e in un crescendo di pazzia diventa prima gelosa del suo “originale”, cioè di se stessa, poi sempre più violenta nei confronti di Ji-woo. Al punto che si rende inevitabile il chiarimento e il dirgli tutta la verità. Lo fa in un modo straziante e qui Kim Ki-Duk dispiega tutto il suo impressionante arsenale poetico: Seh-hee arriva a un appuntamento con Ji-woo indossando una maschera . Quella maschera raffigura il volto di lei prima dell’intervento, un volto che lui conosce molto bene. Al colmo della dissennatezza lei gli grida: “Sei tu che mi hai reso così!”. Le scene che si susseguono qui, con l’ennesima fotografia-maschera assurdamente sorridente in penosi vagabondaggi, sono di una bellezza estrema.

Prima che la foto che la ritrae com’era prima, diventi una maschera sovrapponibile a qualunque altro volto, Seh-hee la strappa.

Come in Les Amants di Magritte.

Pittura che, benché condizioni la pellicola a un livello estetico - appaiono più d’una volta facce e teste dei protagonisti avvolte in un drappo o in lenzuoli-, non manca di condizionare l’opera anche e soprattutto nei significati che si porta dietro, incidendo profondamente sul cosa si racconta con questa storia: l’asincronicità dell’amore, battiti furiosi che non si prendono, passioni destinate a rincorrersi, specularità di percorsi che non si toccano, non si incrociano, si sfiorano appena e si disperano nell’impossibilità e nell’impotenza. Due percezioni del tempo distorte in direzioni opposte l’una rispetto all’altra.

La cameriera (fu Seh-hee), lasciatasi sfuggire “per sempre” il suo grande amore, torna dal chirurgo plastico per cambiare ancora una volta il suo aspetto. Questa volta vuole diventare irriconoscibile anche a se stessa, dimenticarsi di tutto quello che ha potuto combinare. Viene fotografata dai medici un’ultima volta prima di sottoporsi all’intervento. L’immagine che ne risulta è una donna che sorride ma sembra pazza. La stessa all’inizio del film. Esce dall’ospedale con la foto e viene urtata da una ragazza. I vetri del portafotografie in frantumi. Il film finisce lì dov’era cominciato. O ricomincia. Primavera, estate, autunno, inverno … e ancora primavera.

Oltre che a indicare la nozione di tempo secondo Kim ki-duk, quella circolare, questo epilogo segna anche un momento di dubbio sulla verità della storia appena raccontata, a cui abbiamo appena creduto, cioè sulla verità del film. Come se l’autore invitasse a porre più attenzione sulle vicende della rappresentazione artistica, dove tutto può essere allusione o addirittura inganno. Ma anche mistero. Personaggi che si sdoppiano e si fantasmizzano. Realtà di sogni, realtà da ricercare nei sogni. Universo parallelo.

Il Tempo di Kim Ki-Duk non sarebbe stato così spietato se la follia umana non avesse fatto ricorso a tecniche artificiali ansiose di sottrarsi appunto alla logica del Tempo: azioni sconsiderate, spazientite dal Tempo, che hanno deliberatamente stravolto l’opera del Tempo sui volti dei protagonisti e li hanno portati alla rovina. E tutto senza aver voluto tenere da conto anche una possibilità di clemenza da parte del Tempo, come sembra suggerire Kim sempre in quell’ultima scena in cui si chiude il cerchio e allo stesso tempo lo si riapre: quel Tempo, nonostante scorra inesorabile, avrebbe probabilmente concesso loro un’ultima chance.

minimi sistemi

COSE DI MODUGNO. LA SCOPERTA

a proposito dei predicozzi del potere locale, su Sud Critica un articolo molto interessante

http://www.sudcritica.it/index.php?option=com_content&view=article&id=376%3Aa-modugno-si-dimettono-pure-da-sel&catid=1%3Asudcritica-modugno&Itemid=2

funghi patogeni

Come imparare a camminare su un tacco 15 di fango durante l’attacco speculativo alla festa 40 /5

BLACK OUT! NO POWER! LE MANI A POSTO, NEH?!!!!

Sicuro che per Dorian Gray si trattava della conferma di un inemendabile, provinciale pressapochismo organizzativo mentre per tutto il resto dei partecipanti era solo un piccolo, trascurabile incidente che presto avrebbe trovato rimedio.

Ma chi lo andava a pensare che il magnetotermico stava messo nel Nevada?

I minuti passavano, la corrente non tornava, il festeggiato carambolava nell’oscurità dalle stalle ai casotti della servitù attraversando pantani e merdai vari, scandagliando tombini e aprendosi varchi col machete in una distesa di granturco, alla ricerca dell’interruttore bastardo. Gli faceva luce Tina Pica che aveva con sé, all’uopo, un cero da processione.

Prima di cominciare a parlare di attacco speculativo alla festa 40 sferrato dal Neu’antri Club e da tutto il cucuzzaro imperialista, si udirono svariate interpretazioni circa i motivi del black out:

  1. L’elettricità era venuta a mancare in tutta la regione per un guasto alla centrale
  2. L’elettricità era venuta a mancare in tutto il Mezzogiorno per un delirio di onnipotenza di Equitalia
  3. Il mondo aveva avuto un mancamento a causa del fatto che il Tissi s’era messo a scuoterlo con una potenza inaudita
  4. Gesù non voleva - che cosa non si sa, ma il tizio che non si riconosceva nel patto sociale pretendeva di terrorizzare le genti pronunciando quelle parole, sbarrando gli occhi e rantolando come un cretino. Pare che ’sto strambo sia riuscito a passare in rassegna tutti gli astanti col suo fiato apocalittico (anche perché, in segno di frugalismo, s’era messo a mangiare la biada del cavallo e ce l’aveva ancora fra i denti) e pare anche che fu proprio quando arrivò il suo turno di sorbirselo che DJ S’è Perso abbia maturato la convinzione di eliminarlo fisicamente.

Gli invitati ingannavano il tempo procurando un gran lavoro al mastro biberoniere Giorgio Kulashaker Mancino, il quale, avendo passato tanti anni in una cella di isolamento al buio nella Guyana francese, aveva imparato a fare al buio tuttecose. Solo, data l’altissima domanda di beveraggi alcolici, doveva far fronte al rischio scarsità delle risorse ricorrendo a “freeway cola, idrolitina, ben cola, frizzina, spuma, amaro dom bairo, liquore strega, grappa bocchino, crema di zabaglione zabov, mandarinetto isola bella …”, molte di queste bibite sottratte al corredo funerario dell’ultimo deceduto degli Alcolisti Anonimi di zona. DJ Tommaso Accroccodiconsonantiacasaccio’Erti decideva di contendere al Tissi la palma del più accanito bevitore della serata e andava perdendo a vista d’occhio la sua proverbiale compostezza. Presentato ad una ragazza, delirava “Come? Non mi conosci già? Io sono un noto scienziato adattamentista di Bari …”

Di ritorno dai campi di granturco a nord-est, il Vaccarelli attraversava il patio della villa trotterellando tutto impanicato in mezzo a capannelli di amici immersi in amabile cazzeggio che cercavano di strappargli una parola di speranza sul ritorno della corrente. Ma questi subito si ritraevano sgomenti per il pericoloso roteare di machete di quello.

“Prestami un po’ la tua durlindana” lo aveva pregato DJ S’è Perso.

“Non posso, Andrè, sono diretto verso i campi di cotone a sud-ovest. Mi serve ancora.”

Tale Sergio Rendina, sedicente intellettuale latouchiano, sdottoreggiava: “Bene così, dobbiamo tutti abituarci a consumare di meno. È la decrescita felice”. Il Vaccarelli, udite en passant solo le ultime parole del predicozzo, parve sentirsi insolentito. Ma come? Decreto CresciNico e compagnia bella per mettere su tutto questo caravanserraglio e lo stronzo se ne esce con la decrescita, per giunta felice???? ‘Sto cazzo! Tina Pica già faticava a tenerlo ché gli stava scattando l’ignoranza, tuttavia dalle labbra a cuoricino del Vaccarelli partiva uno sputo violento e teso che andava a dislocarsi nell’occhio destro del Rendina. E mentre la pastella biancastra gli colava giù dall’occhio lungo la guancia, la starlet delle Sacco’s & The City, infieriva sul Rendina: “Tu con le tue menate c’entri come il quattro di spade quando la briscola è a coppe”. Naturalmente, a sbiancare in questo modo l’intellettuale, non altri poteva essere che Briscola Donnadispalle Rida, anche se presentandosi ella di spalle e immersa com’era nell’oscurità, si sarebbe detto che il monito venisse dal nulla. L’eroina del fotoromanzo postmoderno stava imparando a mimetizzarsi coi buchi neri e, come tale, destinata a diventare oggetto di approfondito studio nonché feticcio e astro guida per DJ S’è Perso.

Vedendolo nuovamente allontanarsi, si poteva osservare il singolare fenomeno della fanghiglia che risaliva lungo gli arti inferiori del neoquarantenne. Ove mai la festa fosse ripresa c’era già chi stava pensando di ciulare le sfavillanti protesi gambarie in fibra di tungsteno di Angioletta Cuchy per poi impiantarle alla meglio al festeggiato così da permettergli di tornare a risplendere nel giorno della sua festa.

part five

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