I frutti di Camus
Seguendo, in un percorso squisitamente ideale e simbolico, le madri di Camus, cominciato qui, l’attenzione si sposta sul dono di vita con cui quelle madri arricchiscono l’umanità nelle pagine dello scrittore
Orano, luogo arido sotto il duplice aspetto del clima meteorologico e delle relazioni umane, città in cui “ci si applica a contrarre delle abitudini” (i giovani, ad esempio, si divorano rapidamente nell’atto d’amore oppure si impegnano in una lunga abitudine a due), ebbene Orano rende scomodo il morire.
Orano volta le spalle, in senso propriamente morfologico, a un paesaggio di impareggiabile bellezza, dunque Orano volta le spalle, in senso più allegorico, alla bellezza. Alla bellezza della natura e, in definitiva, della vita. Su Orano, cioè, il sipario si apre come su un luogo compiutamente dell’assurdo. Per quanto la narrazione non sia più in prima persona come ne Lo straniero, questa città sembrerebbe proprio l’elemento di Meursault, il palcoscenico sul quale l’impiegato, indifferente a tutto, potrebbe seguitare a gironzolare.
E così, sull’assurdità di un siffatto vivere s’abbatte l’insensatezza di un assurdo morire: la peste. La trista contabilità dei ratti morti mette fine all’estraniamento come categoria dell’arte. L’esplorazione delle passioni umane può cominciare. Estetica dell’assurdo: punto e fine.
Accanto a “modesti funzionari dediti a onorevoli manie” ecco ora emergere uomini che hanno “il coraggio dei loro buoni sentimenti” come il Joseph Grand che non trova le parole e passa il resto dei suoi giorni a ricomporre all’infinito le prime righe di un romanzo ch’egli avrebbe in mente di scrivere.
I flagelli che la peste reca agli abitanti della città in cui ha scelto di stabilirsi, come si diceva, sono “esilio” e “separazione” : amici, amanti e familiari che per le più svariate ragioni si trovano fuori da Orano e non possono più rientrarvi per le misure di quarantena imposte alla città, lacerati dal desiderio del ricongiungimento con coloro che sono rimasti “prigionieri” all’interno delle mura, sperimentano ad un tempo il dolore di “una memoria che non serve a nulla” e l’ottusità di una condizione priva di futuro. Lo scarto è precisamente qui: esilio e separazione vengono appunto percepiti come pena, non quindi passivamente accettati come in Meursault.
(continua)
11 Ott 2011 Nicola 0 commenti