le torsioni dell'anaconda, letteraria

I tabù delle tribù

Dunque, anche gli scrittori, come tutti, devono saper stare sul mercato. Questa è una tetra, imbecille cialtronata. Starci per starci, sul mercato, tanto valeva mettersi a produrre panni swift, suolette di gomma, graziose ballerine, spazzoloni, tavolette da cesso, bastoni per le tende, fibre lassative, cerchi in lega, cazzi di gomma, sbattitori elettrici, sacchetti sottovuoto. Basterebbe, per rimanere nel campo dei grafomani e degli amanuensi, clonare un libro (?) di Faloccia o di qualche altro genio della cordata giusta (più che della parola scritta) e si otterrebbe l’ennesimo prodotto seriale, più inutile di una qualunque delle merci sopra elencate ma però con lo scaffale in libreria già bello che prenotato. Niente di più comodo che scrivere ciò che tutti sanno già, niente di più pratico che buttarsi nelle braccia del gusto omologato di massa, niente di più delittuoso che attentare in questo modo alle percentuali di verde “già vergognosamente basse”, niente di più cortigiano che asservirsi al mercatismo, inteso sia come blocco di interessi concreti e molto circoscritti – nel caso italiano si sa bene come questo sia il mercato degli straccioni, il capitalismo provinciale e familiare di familismo amorale –, sia come dottrina (molto ideologica) elaborata da studiosi più interessati alle sorti dell’umano simposio che al proprio tornaconto (ma quando mai?!).

Non si ricorderà mai abbastanza che la prima preoccupazione non è “venderò quello che scrivo?”, bensì “che cazzo sto dicendo? Mi appartiene o sto cedendo a qualche lusinga?”. Fatto e detto questo, chi mai schiferebbe, comunque, un eventuale successo di vendite?

Se non si scrive per dare forma inedita all’inarticolato grido di dolore con il quale ogni giorno, ogni ora e ogni minuto si rinasce alla vita – e per far questo la lingua va reinventata ogni volta –, non resta che scopiazzare gli autori sbagliati nel nome della facile parlabilità. Quando si rimprovera allo scrittore di non farsi capire abbastanza potrebbe darsi pure che lo scrittore sia un cane e faccia cattivo uso dello strumento e delle insegne di cui si fregia, ma potrebbe darsi altrettanto che gli ostacoli alla comprensione siano tutti nel ricettore che fa fatica a sbarazzarsi dei suoi stereotipi di lingua e di pensiero.

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Precisazioni individualistiche

Rendersi inappropriabili ideologicamente comporta l’allegria di un portamento che non consente alle ideologie del momento - il Mercato (dei pezzenti), la Religione (predatrice), la Socialdemocrazia (svendentesi Fuori Tutto), il Socialismo reale (e quello irreale o surreale o fantasioso), il Nazifascismo (distruttivo sempre) - di stendere il proprio manto sacrale sulla singola intelligenza allo scopo di controllarla e magari annichilirla. Se prendiamo ciascuna di queste ideologie e proviamo a chiamarla col proprio nome troveremo che sono tutte omonime nell’Imperialismo e nel Totalitarismo, tutte specializzate in quella mefistofelica (dunque raffinata, per amor del vero) arte di costringere gli uomini in masse indistinte intanto che fan loro credere che si stanno curando l’anima e si stanno realizzando come individui.

Ritrovare un’intelligenza di base, per molta o poca che sia, è invece un traguardo niente affatto scontato visto che comporta il tirar giù l’Intelligenza Superiore dagli altari cui è stata elevata, per poi darle una pedata nel sedere e scoprire, nel mentre che si scompone, che è sempre qualcosa di più e di più pericoloso, oltre la sua superiorità. È l’intelligenza col Nemico. Di noi stessi.

Si consiglia di buttare al cesso ogni identità conquistata, a maggior ragione se ha l’approvazione del mondo intero ed è anche redditizia. Si consiglia di sbattere in fondo a un merdaio le certezze raggiunte. Si consiglia di usare la propria intelligenza per farsi mettere in crisi.

Oddio, si consiglia … non è che proprio si consiglia di fare questo. È che questo è inevitabile e anche naturale per chi vive davvero nella rettitudine. Cioè per chi vive davvero.

le torsioni dell'anaconda

1998 – L’ispido e la carcassa

Un cancello marcio di ruggine annunciava un lungo viale ottenebrato da una giungla di enormi piante abbandonate all’incuria più completa, rovi sterpi e tralci invasivi, in mezzo a cui spiccavano dei gotici mastodonti del regno vegetale: tre giganteschi pini neri lasciati a levitare negli anni e a spandere ombra tutto attorno. Il sole alto sui borborigmi della vita cittadina, fissando una provincia dalle budella in disordine, la vedeva bene questa macchia scura di vegetazione che impeciava la terra e la forava come un buco nero.

La villa era cacciata in fondo al viale e scopriva, di tanto in tanto d’in tra il fitto frascheggiare, i suoi due piani di intonaco cascante: due scatoloni di cemento posti uno sopra l’altro in maniera sfalsata, non combacianti. Il primo, un piano rialzato, era disabitato e mostrava tapparelle abbassate di sghimbescio, sfondate in più di un punto, e altre finestre coperte di assi inchiodate. I tre vivevano quindi solo al piano superiore di un malmesso edificio in fondo ad un viale ai lati del quale premevano altre ville: case basse, imbiancate a calce più compatta, edificate durante il ventennio fascista e che spesso, a voler frugare con spirito d’inchiesta, risultavano appartenenti se non a una stessa persona, almeno almeno a una stessa famiglia. Tutte queste davano sulla strada coi giardini e con i cancelli grandi, una strada che disegnava un impercettibile curvone parabolico e veniva tagliata da stradette in cui, per il solo fatto di esser laterali e minori, pareva che fosse consentito a certi di posteggiare le macchine nel bel mezzo della sede stradale. Se altri aveva da passare con la sua, di macchina, accettava come costume ormai consolidato la seccatura di andare a citofonare ai vari interni del circondario per chiedere di chi fosse l’autovettura che ostruiva il passaggio e se per favore potevano spostarla prima che gli saltassero i cinque minuti. Allora veniva fuori uno che chiedeva scusa, hai ragione, o uno che ti diceva solo un minuto, rientrava nella sua casa e tornava dopo un quarto d’ora, come se nulla fosse, oppure ancora uno più incazzato dell’automobilista bloccato che, inalberando punte perotti tatuate a tutto corpo, si metteva a ringhiare: “A ccioine a’na zembaje le cinghe meneute ah!? A taje o a maje?” E dopo aver agitato minacciosamente mani inghirlandate da ditone nere da gommista faceva segno che potevi andare adesso, scasare, sì però a marcia indietro. Continua a leggere »

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Un altro frammento raso terra

L’ultima volta che mi scappò non mi riuscì di riprenderlo con me. Sapevo dove trovarlo ma quando lo raggiunsi lui mi disse che non sarebbe più venuto a stare da me. Non era arrabbiato con me. Era solo che riteneva giunto il momento di andare sulle sue gambe. Camminare sopra i suoi stecchi, dalle tenebre alla luce.

Gli chiesi se c’era ancora un’ultima cosa che potevo fare per lui.

«Tipo?»

«Non so. Devi dirmelo tu. Mi puoi chiedere qualcosa che può servirti nella vita. Qualcosa di utile.»

«Non credo che potresti aiutarmi.»

«Proviamo.»

«Vorrei un asino.»

«Ah?!»

«Hai visto che non mi puoi aiutare?»

«Ma che te ne fai di un asino?»

«Tu non ti preoccupare. Me la vedo io di che cosa me ne devo fare di un asino.»

«Sei proprio sicuro che non ci sia qualcos’altro che possa esserti più utile nella vita?»

«Senti, io tanto tempo fa vivevo con mamma in un organetto, se non lo sai. Può sembrare che non c’entra ma adesso voglio un asino, tutto mio, tutto per me, voglio farne la mia casa.»

Un pastore lo conoscevo. Figurarsi se non conosce pastori una come me, amante della campagna, di tutti i frutti del ventre della terra, delle fave, delle cicorielle, dei cardi selvatici… Meh, insomma alla fine l’asino l’ho trovato, sono andata a prenderlo dalla stalla di una masseria, l’ho pagato una fesseria perché Petruccio tanto non sapeva che farsene più. L’ho montato e mi sono fatta a dorso di mulo tutto il percorso al contrario. Ci ho messo cinque ore ma alla fine sono entrata in città, mi sono immaginata addirittura che potessero accogliermi con le palme benedette e invece ho attraversato un po’ di quartieri tra le occhiate incredule della gente e delgi automobilisti.

Finalmente l’ho visto, e anche lui non credeva ai suoi occhi. Quegli occhi che gli sono presto strabordati di gioia oltre le lenti da sole che portava senza separasene mai. Ha pianto proprio come un ciucciariello, e ho pianto anch’io. Dio solo sa quanto ho pianto.

Tra le lacrime ci siamo salutati.

O meglio, ci siamo detti addio.

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1998 – Marcella Cardascio

Anche se la stretta di mano non era stata delle più vigorose, Corrado le piacque subito; una di quelle persone a cui avrebbe artigliato i piedi sotto il tavolo, intrecciato gli arti e gli altri organi senza por tempo in mezzo. Ben presto Marcella cominciò ad almanaccare su un eventuale accoppiamento, immaginando che poteva esserci un’intesa sessuale animalesca, all’incirca.

Ma dovettero trascorrere ancora altri giorni, molte volte dovettero ancora beccarsi in pausa pranzo, al servizio ristorazione, prima che Marcella potesse arrossire lusingata per un complimento finalmente esplicito da parte di Corrado.

Lui le disse che aveva una bella chiostra di denti, di un eburneo strepitoso, e che gli sarebbe piaciuto godere più volte al giorno di quel sorriso.

Lei aveva chiesto scusa ebu che?

E lui le aveva spiegato ebu che. Continua a leggere »

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1998 – Tra la Euripoltrone e il desinare

Per spingerli nel bosco la madre faceva in modo che i figli vi intravedessero legna e bacche da cogliere.

Quando arrivava la domenica mattina Innocenza li teneva sotto pressione.

“Corrado, raccogli i tuoi trenini, su. Vita non uscire conciata a quel modo, aggiustati quei capelli, cambiati quella maglia, non lo vedi che fai schifo?, su. Ho chiesto al negozio se ti volevano prendere.”

“Quale negozio?”, chiese Vita incredula.

CandidiCorredi.”

“Scusa ma se un lavoro ce l’ho già, mi dici che cazzo vuoi ancora?”

“Ma quale lavoro? Ci vuole proprio una faccia di culo per chiamarlo lavoro. Vai a sciacquare i cessi, te ne rendi conto?”

“E con ciò? Porto lo stipendio a casa.”

“Non è adeguato al nostro rango. Chi me lo doveva dire a me di avere una figlia che fa la sciacquina? Vedi di farti vedere in quel negozio.”

“Oh, me l’hai fatto di nuovo. Ma sei scema? Ma chi cazzo ti dà il permesso?”

Innocenza guardava sua figlia e più si scorava. La compativa e si deprimeva.

“Non ho bisogno del tuo permesso e anzi, a questo punto sai che ti dico? Meglio. Meglio se non ci vai a lavorare in quel negozio. Non pensare che mi piaccia che tu ti fai vedere in giro. Ti devi aggiustare, sei trascurata. Te le devo comprare io le scarpe?”

“Sei una stronza”, disse Vita a sua madre.

“Mi permetto di dissentire”, disse Corrado, fino a quel momento tutto intento a tagliuzzare legnetti per le traversine dei suoi binari.

“Tu prenditelo nel culo!”, inveì Vita.

“Guarda che linguaggio”, disse mamma Innocenza. “Ma fuori di casa fai così?”

“Certo che faccio così.” Continua a leggere »

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1998 - Campi uno, due e ter

Il due novembre, come sempre ogni due novembre, la gente s’andava raccogliendo attorno ai propri cari defunti, affluendo placidamente alle tombe. Folte comitive o sparuti capannelli, ma anche commosse solitudini, raggiungevano il proprio tumulo di riferimento per immergersi quindi nella ciarla dei più svariati argomenti. Si accosciavano sulle pietre, bivaccavano, si intrattenevano in oziose conversazioni.

Una donna, dopo aver appeso la sua borsetta a un ramo di cipresso, attaccava a parlare di un tale di sua conoscenza che ieri sera se n’era andato senza salutare. E coi suoi anziani famigliari ne faceva un caso infuocato.

Un uomo in giacca a vento rossa, con un velo di torba in faccia, i lineamenti rifatti dalla dispepsia, recava un mazzetto di semprevivi coi gambi avvolti nella stagnola e sforzandosi di sorridere raccontava a un manipolo di parenti quanto avesse mangiato pesante la sera prima. “Mamma santissima!”, andava ripetendo ogni volta che uno sbuffo da reflusso tipico lo ingrippava.

Si alzava, in definitiva, dal cimitero qualcosa che non mugghio di dolore bensì murmure di cazzeggio poteva ben dirsi. A conferma del tacito e generale convincimento che discorrendo in quel luogo, in un pigro e più o meno amabile cicaleccio, se non un disteso consuntivo quanto meno dei suoi minuzzoli potevano pervenire in qualche modo ad esser trattenuti presso i cari morti.

La narrazione degli avvenimenti che non li aveva visti protagonisti, o tampoco spettatori, perché né il Signore né in seconda battuta il Fato lo avevano voluto, il semplice racconto anche delle puttanate e una pregevole rassegna di estratti dell’oralità popolare contemporanea, finivano per restituire a questi trapassati, a questa stesa di buonanime, una specie di partecipazione a quella porzione di vita e di storiche circostanze che era loro sopravanzata. Ragguagli dovuti a una parata di ex persone individue.

Poco più in là, su un’antica facciata di loculi edificata sul finire dell’ottocento, e per questo ingiallita dal secolo e passa che era trascorso, un vecchietto più nodoso dei suoi conterranei e coevi ulivi picchiava ripetutamente il suo bastone sulla lapide di tale Cirone Antonia 1904 – 1991. Con una voce decrepita, come doppiato dall’oltretomba che pure lo accerchiava, la ricopriva di insulti: “Bastarda! Io te lo dicevo e tu non mi hai mai voluto ascoltare. Bastarda di una bastarda!”. Imprecazioni che più che suonare come blasfeme eccitavano l’ilarità dei visitatori più vicini alla scena.

Una scena che Innocenza Sblendorio conosceva a memoria poiché non di una prima bensì di monotona replica trattavasi. Continua a leggere »

diario di un giullare timido

che finale!

diario di un giullare timido

l’immortalità del grafomane

Puoi credere di essere dipendente dal tuo PC, pensare che scriverai ormai solo battendo su una tastiera, magari afflitto da social network addiction, convinto di queste e altre stronzate. Ma sempre, sempre, tornerai a sederti a un tavolo, con carta e penna, per scrivere una lettera d’amore. Anche a babbo morto.

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Chi mi manderebbe gratis in frantumi un malleolo?

È incredibile, ’sto cazzo di materialismo storico impedirebbe finanche l’unica lettura possibile della Shoah: la non lettura, l’impossibilità di un’interpretazione; accettare l’inservibilità di ogni strumento epistemologico reso all’istante vecchio, inutile arnese, di fronte ad ogni nuova strage in un campo di sterminio o alla metropolitana per mano di un fanatico sconvolto farcito di tric-e-trac, o di fronte al suicidio di massa in qualche fattoria deltempiodelsolediarchéondelreverendomoon.

No, cazzo! tutto si spiega invece, e tutto si tiene con l’interesse economico, la cupidigia, la brama di potere, l’accumulazione di ricchezza. E giù con le dotte analisi sempre più a vasto raggio, sempre più internazionali. Perché il locale è solo un riflesso di dinamiche molto più grandi di noi. Così grandi che la mente del giovane marxista, nel tentativo di comprenderle e farle sue (per farci cosa, poi?), scoppia. Risultato: uno sgarzolino via di testa in più a carico del sistema sanitario, del sim, del sert o non so che … Però purtroppo certi santoni resistono, seguitano a officiare liturgie oppressive con indosso i paramenti della moda corrente per non seminare terrore, e provano a riproporre in contesti autorevoli la solfa concettosa della struttura economica, della sua sovrastruttura, della borghesia mondiale et similia a tutte, ma proprio tutte, le categorie dell’esistenza.

Spesso cambia l’insegna dell’azienda o il titolo o l’editore del testo sacro ma sempre di genuflettersi e cospargersi il capo di ceneri al cospetto della Verità si tratta.

Enno, cazzo! dico io, verità un corno! Perché nulla sapete dell’abominio che chiamiamo Uomo, tutto ignorate della fogna del suo mondo interiore, delle sue proiezioni malate, tutto, tutto! Con ciò non intendo fare particolari esercizi di pessimismo sulla sorte dell’uomo che sbanda per calli e per merdai sul globo terracqueo, voglio solo dire che si può deliberare nel Male per qualche imperscrutabile ragione e che, sotto quest’aspetto, nessun reale passo avanti (l’eterno gioco dell’oca della vita) è stato fatto grazie a o nonostante le conoscenze acquisite.

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