diario di un giullare timido

Les bon-mots (pour moi. Ça va sans dire)

Pane, uova, burro, latte. Decantare. Lasciamo decantare le cose. Le mafie. Lattuga. Cacciare (nel senso di tirare fuori qualcosa o sbattere qualcuno/qualcosa in fondo a qualcosa). Scolpire. Lenzuola fresche e ben stirate. Cardini (quelli veri però, delle porte). Ricevitore. Prenditore. Carne. Nocelle. Apoteosi. Cartoccio (da cui anche cartuccio, incartocciare, scartocciare e incartocciato). Trimone a vento. Terrazza. Terrone. Muretti a secco. Pellicola. Scapole, inguine, lungo la curva della schiena, l’incavo, i tendini. Strappare. Cassetti. Tele incerate. Telecamere. Tastiera. Capelli, la ricrescita, la radice. L’uccello. Parco auto. Caldaia, termostato, ghiera, doghe in legno, fave, interruttore, lampada, carrozzina, andito, buio, suoni. Solido. Ceramica. Gres porcellanato. Scamazzare, rocciatore, caraffa, condizioni pedoclimatiche, caratteristiche organolettiche, terreno, tralcio, la guida (come manufatto che permette lo scorrimento di un corpo da un punto all’altro). Chiusino. Flessibile (come sostantivo). Fanga e fangaia. Porcaio, carnaio, ginepraio. Pelle e sutura. Antipiretici. Guardia, ladro, gaglioffo. Manutengolo. Cedimento e squarcio. Tenuta stagna. Serpeggiare. Lingueggiare. Nuca, testina e morticini. Acidità. Brutto. Entraglie/gne. Sbranare. Guerriero. Riposo. Eternità. Guanciale, sgabello. Papà. Lampascioni. Subacqueo, gommone, spuma di mare. Muto. “te la vedi tu, adesso.”, “Io non ti pago.”, “Ti mangio il cuore.”, sarabanda, santabarbara e zumpapà!

festa della mamma, la miglior vendetta

novità e altri ippopotami

AI NONNI, AI PAPA’, ALLE MAMME!!!

VENITE A VISITARE LA SUPERNOVITA’: L’IPPOPOTAMO CHE CANTA LA CANZONCINA ‘AUIMBAUE’.

Il mantra gracchiante veniva dall’esterno, quella mattina di Piero. Un megafono su una macchina che girava intorno alla villa; una voce malamente elettrificata si affievoliva man mano che si allontanava oppure tornava più forte quando la macchina indugiava sotto casa. Un punteruolo devastante di voce, quella mattina. Roba che tra Piero, Giovanni e l’ippopotamo si rischiava di spappolarsi le tempie. La ripresa sorda della pena in clamore.

VE LO CONSEGNAMO GIA’ FUNZIONANTE, COMPLETO DI BATTERIE A SOLO TRE EURO.

È BELLO. È L’IPPOPOTAMO ZE’ FILIPPO.

È BELLO DA REGALARE, MORBIDO DA ACCAREZZARE.

È BELLO.

È UN REGALO PER MASCHIETTI E FEMMINUCCE.

L’IPPOPOTAMO CHE CANTA ‘AUIMBAUE’.

È BELLO DA APPENDERE IN MACCHINA. È BELLO DA METTERE IN CAMERETTA.

È BELLO PERCHE’ SI PREME IL SACCHETTO E CANTA LA CANZONCINA.

È BELLO.

È L’IPPOPOTAMO ZE’ FILIPPO.

festa della mamma, la miglior vendetta

Carta di caramelle

La materializzazione di quell’essere umano in fila allo sportello della stazione mi stava strappando sciami d’odio. L’avevo visto il giorno prima, per un istante ma tanto è bastato perché quegli occhi, quel capello, quel giaccone di renna si piantassero in croce nella testa. Legno marcio e scheggiato con un giaccone di renna appeso ad esso per i peduncoli cerebrali. Mi sentivo stampelle di legno nella testa. Una corrente densa e oleosa convogliata interamente dentro all’immagine di quell’uomo: un odio che se ne andava da me e che in me tornava accresciuto del valore aggiunto di quel volto sereno. E se scartavo caramelle il crepitare dell’involucro cartaceo tra le dita mi procurava una fitta dal dolore insostenibile. Poi passava ma mi restava il sistema nervoso crocefisso.

Fiona.

Eh?

Dio sa che stai soffrendo.

Piero quella mattina mandava strilli lancinanti a frantumarsi contro i muri maestri della sua oscurità. Era un buio portante, monumentale. Possente buio del pianto che i medici ancora non si spiegavano. Piangeva fino ad asfissiarsi.

Piero.

‘nghu!

Dio sa che stai soffrendo.

Non sapevo cosa fare. O forse non avevo voglia di fare. M diressi verso il bagno. Ma con lentezza. Poi feci calare la mano brutalmente sulla maniglia e aprii la porta del bagno scaraventando il battente contro la parete laterale. Ci fu in rinculo e sempre fracassando, con una nuova manata, rifissai la porta alla parete. Mi guardava sconcertato, seduto sulla tazza, col Focus tra le mani e i tappi nelle orecchie.

Giovanni.

Sì.

Dio sa che stai soffrendo.

Sì.

letteraria

Giustizia /3

La giustizia umana e quella divina

di Giuseppe Giglio

(Recensione del romanzo Giustizia, di Friedrich Dürrematt - Marcos y Marcos, 2005, pubblicata sul n. 1/2006 diStilos“)

«Ancora una volta voglio sondare scrupolosamente le probabilità che forse restano alla giustizia». Sono tra le prime, sconcertanti, drammatiche note di una lunga «relazione» con cui si apre Giustizia. Felix Spät, giovane e squattrinato avvocato, scrive dell’assurda assoluzione di un assassino. In un noto ristorante della Zurigo degli anni Cinquanta, frequentato dai notabili della città, il consigliere cantonale Isaac Kohler, con un colpo di pistola, uccide a sangue freddo un famoso professore universitario. Lasciatosi docilmente arrestare e incarcerato, Kohler (che non ha mai svelato il movente del suo gesto) convoca Spät, da poco sganciatosi, da «galoppino o poco più», dallo studio di Stüssi-Leupin, l’avvocato più in vista della città, abilissimo intermediatore al servizio dei potentati economici. Dietro ghiotto compenso, Kohler, «perfettamente felice» in carcere, chiede al legale di riesaminare il caso, partendo dall’assurda ipotesi che non sia lui l’assassino. Spät – insospettito, ma costretto ad accettare dal bisogno – capirà poi di essere caduto vittima di un’infernale macchinazione, di essere divenuto, con le sue indagini, involontario istigatore di diversi omicidi, sullo sfondo di complicità e connivenze impensabili. In un Paese che «è uscito dalla storia quando è entrato nel grande giro industriale», il Potere ha ormai piegato la giustizia alle sue esigenze; e Kohler - «un uomo a cui piace giocare la parte di Dio su questo miserabile pianeta», da formidabile burattinaio all’interno di una guerra economica non meglio definibile (gestisce gli affari di Monika Steiermann, diabolica nana a capo di un enorme impero economico, tra le cui attività è anche il traffico di armi) - si diverte a manovrare gli esseri umani come palle da biliardo, persino dal carcere. Giocando à la bande, mandandole tutte in buca, intrecciando con stupefacente abilità la vischiosa ragnatela in cui sono implicati, consapevoli o no, compiacenti o no, i personaggi di questo eretico e magistrale giallo. Una storia complicata, surreale e grottesca, al limite del paradosso, ma filigranata da una scrittura elegante, raffinata, essenziale, allusiva, che cesella quadri di meccanica precisione e obiettività, e che sviluppa al massimo grado la dürrenmattiana tendenza centrifuga parodistica, autodistruttiva e demistificante: tra traffici di armi e prostitute, megere e intoccabili, sparizioni e omicidi, in un Paese che ha prodotto gli orologi di precisione e gli psicofarmaci, il segreto bancario e la neutralità perenne. Un congegno perfetto, che porge al lettore i dubbi di Dürrenmatt circa il rapporto tra la realtà criminale e la finzione “gialla”, ma soprattutto sul significato della giustizia umana e di quella divina, sulla relatività del concetto stesso di giustizia, sul senso del farsi giustizia da sé quando il crimine intuito non può essere dimostrabile, quando a Spät, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale», non resta altro che prepararsi per un «assassinio giusto». Ma dovrà arrendersi al caso beffardo. E sempre al caso Dürrenmatt affida l’inatteso epilogo: uno scrittore (cui era pervenuta la «relazione» di Spät) incontrerà, trent’anni dopo i fatti, Kohler, vecchissimo, e sua figlia Hélène, con cui avrà un lungo colloquio; è l’inizio di una discesa all’inferno, nelle profondità dell’animo umano, per scoprirne lacerti davvero sorprendenti, fino alle difficili, inquietanti domande finali: «Chi è colpevole? Chi dà l’incarico o chi lo accetta? Chi vieta o chi non osserva il divieto? Chi emana le leggi o chi le infrange? Chi concede la libertà o chi la ottiene?». Non è facile rispondere. Ma Dürrenmatt - dopo aver incastonato tanti tasselli nel mosaico di un personaggio-uomo multiforme e irregolare, di cui proprio il triangolo Spät-Hélène-Kohler offre un esempio mirabilmente efficace – ha provato a sollevare il velario su un’irredenta quotidianità: per mostrare, tra visioni apocalittiche, doloroso disincanto e sottile tormento morale, come gli uomini vivano ormai in un labirinto di specchi franti, dove i confini tra etica (ridotta a mero gioco dialettico) e opportunismo, dipendenza e libertà, sono molto sottili, in un mondo in cui persino il diavolo è stanco e in cui si può morire «di quella libertà che concediamo e che ci concediamo»; in un mondo che assomiglia sempre più a «una polveriera in cui non è vietato fumare».

Giuseppe Giglio

letteraria

Giustizia /2

[…] ma in questo caso la sentenza che ho pronunciato su di me e l’esecuzione della sentenza per mano mia è la cosa più giusta del mondo, perché la giustizia può compiersi soltanto tra coloro che sono egualmente colpevoli, così come esiste una sola crocefissione, quella dell’altare di Isenheim, un gigante crocifisso è fissato alla croce, un cadavere atroce, sotto il cui peso si piegano le travi alle quali è inchiodato, un Cristo ancora più spaventoso di quello per cui fu dipinta questa pala d’altare per i lebbrosi; quando videro quel Dio crocifisso, tra loro e questo Dio, che secondo la loro credenza aveva inviato la lebbra, si ristabilì la giustizia: questo Dio era stato giustamente crocifisso per loro. […]

Giustizia, di Friedrich Dürrematt

letteraria

Giustizia

La Crocifissione di Matthias Grünewald - Altare di Isenheim - Musée d’Unterlinden - Colmar.

diario di un giullare timido, funghi patogeni, riflessioni su due ruote

Libertà di una lavatrice

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Le passioni e gli appetiti della società degli uomini: Il Potere Vs La Giustizia. Il papa non serve che sia cattolico così come non serve che un giudice sia giusto. Uomini che sembrano troppo grandi e pesanti per la loro ossatura.

Televisione = società della scarsità delle risorse. I Cesaroni Vs Annozero. Scampoli di commedia all’italiana Vs scampoli di informazione.

Incartamenti di parole e altri peni pieni di euri e scadenze. La lavatrice. Una volta camminava. Non le avevo tolto i distanziali e lei camminava. Era uno spettacolo. Ansia di libertà di una lavatrice.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Una maledizione di guano nella stradetta, di pesce dalla pescheria vicina, di morti.

Di morti maledicenti, ecco, non più maledetti. Uomini morti sderenati da tali sondini che sembran vivi. Emanano odore di fiori incomparabilmente belli e marci.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA INTERNO 12

Il divano-letto-di-morte perennemente aperto. Piace Lance Armstrong stavolta. Non perché debole, no. Ma perché quell’uomo in bici recupera e ricompone la nobiltà dell’uomo, se esiste.

RAPPRESENTAZIONE DELLA VITA ESTERNO 12

Sono di fretta. Mi mettono fretta. Mentre faccio delle cose un ragazzo sui trent’anni mi costringe a interrompere. Una corporatura troppo grossa e pesante per la sua ossatura, sembra uscito da un libro che sto leggendo. Una contrazione sulla faccia gli conferisce un’espressione sofferente. Come se soffrisse mostruose calure da generazioni.

  • Ma questo a che serve? – ha la pastella agli angoli della bocca e anche al centro delle labbra. Ogni volta che quelle si schiudono rimane una fettuccina di questa ricottina a far loro da esile congiunzione
  • Serve, serve – cerco di liquidarlo.
  • E come, spiega.
  • Ok, te lo spiego.
  • Eh, spiega, spiega.
  • Vedi questo? Qui ci devi inserire quello.
  • Ah, davvero? E che ci fai?
  • In questo modo ottieni questo risultato –, penso di aver concluso.
  • Come questo risultato?
  • Questo!
  • Ma quale risultato?
  • Quello che ti ho appena detto! – mi innervosisco.
  • E spiega. Spiega bene – mi fa con un’espressione tra l’implorante e l’ottuso.
  • Allora… -, e gli ripeto tutto quanto.
  • Ma come?
  • Ma come come? Così! -, sono spazientito.
  • Così? E come così? Spiega, spiega bene.

Ripeto tutto come un automa, mentre osservo le sue labbra rosse come sacche piene di sangue fresco e il filamento che ostinatamente si riforma e non si stacca.

Non è, però, il libro che sto leggendo.

altri spot, riflessioni su due ruote

Fikscion, ti prendo a fiskion

Ho sempre apprezzato Annozero (la trasmissione di Santoro) al punto da tenerla come una riserva di biosfera sul Mont Ventoux (dove ci si fa un culo così!) a fronte del paesaggio spettrale della televisione italiana (quella generalista). Quel che mi catturava fino a poco tempo fa non era tanto la qualità (unanimemente riconosciuta) dei reportage quanto proprio lui, Santoro, per quella abilità di drammaturgo in presa diretta che regolarmente sfoggiava. Una capacità di fare racconto con ogni puntata, scoprendo le sua carte poco per volta, come uno sceneggiatore esperto che sa esattamente quando deve metterci quella folata di vento improvvisa, la porta che si spalanca, la finestra che sbatte. E riservandosi poi i carichi di briscola per il suo gran finale, dove trionfava, il Miguelon, regolando tutti in volata (ove mai questo fosse possibile su un traguardo posto in cima al Mont Ventoux). Davvero una perizia da scrittore seriale. Lasciamo perdere, invece, il numeretto di decompressione di Vauro: risatine spesso tirate per i capelli, anche se quando la imbrocca straccia tutti è proprio il numeretto delle vignette con la sua voce recitante che non mi garba.

Ma Santoro, deve essersi appannato lui, proprio. È un po’ che sbanda con la fiction. Dice: ma è a scopo divulgativo. Sarà. Ma la Guerritore che imprestava la voce alla Veronica nazionale era uno strazio. Che se un cavaliere davvero deve affrontare quei toni lì ogni volta che rientra a casetta avrebbe ragione tutta la vita. Questa deriva di Annozero verso la fiction, aggravata dalla puntata sulle operazioni degli Agnelli e della Fiat predatrice int’o munne, sta squassando il mio gruppo d’ascolto. Che mi significa questa finzione di cose verissime sceneggiate e spiettellate poi in grana grossa, cioè fatte male, con atmosfere tipo centovetrine rincoglionita? Sarà che si portano molto la fiction, la docu-fiction e adesso parlano pure di non fiction? Nella fattispecie sarebbe anche più opportuno parlare di non fiction. Nel senso della negazione delle fiction ben fatte.

Se Santoro non ritorna in sé allora è sicuro che i geni del berlusconismo son perniciosissimi, si adattano a qualunque ambiente, mutano loro e mutano tutto quanto. E sono talmente grossi, enormi, che non li vedi neanche più. Sono il tuo mondo e la tua vista; le tue facoltà neanche si dànno più la pena di notarli dal tanto che ci son diventati familiari. Come accade con i monumenti. Solo che questi son dei tali geni. (accento acuto sulla e).

minimi sistemi

la Puglia prima di tutto

Il vetro in frantumi che è l’Italia secondo Scalfari

ma i frammenti modugnesi non fanno che replicare una sola immagine

 

BASTA CON L’IPOCRISIA

(recita lo stesso manifesto)

Poco male per arredo urbano e necrologi.

Però sui cassonetti ci sta proprio ‘a piccione’.

 

 

letteraria

Il ritorno di Cavina, scrittore pizzaiolo

Recensione di Giuseppe Giglio, apparsa sul Riformista del 18 aprile 2009

Gilbert Keith Chesterton diceva che bisognava fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa. E in quest’affermazione c’è tutto il senso dell’avventura chestertoniana, l’avventura del man alive, dell’uomo vivo, protagonista di tante storie del narratore inglese. Ma a volte basta fare il giro della propria casa per avventurarsi tra i sentieri della vita. E aprire una finestra sul mondo, capire di più di sé stessi e degli altri, scoprire insomma una porzione di esistenza. Che è poi la ragion d’essere di un romanzo. È quel che accade ne I frutti dimenticati, l’ultimo libro di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, € 14,50). Un romanzo breve – o un racconto lungo – ambientato ai nostri giorni, in cui l’incontro di Cristiano (il trentenne protagonista, pizzaiolo e scrittore al tempo stesso, come Cavina; o meglio: narratore innamorato delle storie) con uno sconosciuto concide con la prima tappa di un inaspettato viaggio: tra un presente difficile e i sogni della memoria (sogni che volano come mongolfiere), tra le pareti della casa e le viuzze del piccolo borgo romagnolo in cui Cristiano – che è anche l’io narrante – è cresciuto. Ove « era tutto un coltivare frutti dimenticati», una vera e propria festa collettiva, ogni anno celebrata: giuggiole, pere volpine, sorbi, lazzeruoli, cornioli; tutti tirati su con amore.

Un viaggio affidato a una scrittura scarna e asciutta, in cui strettamente e sottilmente si intrecciano autobiografismo e invenzione: a disegnare per linee essenziali luoghi e personaggi reali e simbolici al tempo stesso, a dar voce a una libera e felice fantasia che sdipana e avvolge grappoli di vita vissuta o in divenire; tra amicizie e inquietudini, gioie ed errori, passione e avventure, tra le bancarelle dei frutti dimenticati e frutti della vita non raccolti, o mancati. Con la leggerezza, il candore e l’innocenza che della favola sono propri.

E a proposito di favola, di favoloso: questa storia si potrebbe leggere come un’immaginaria cartolina dalla Romagna, di calviniana memoria; dove il fiabesco e il realistico, perfettamente complementari, cesellano un personaggio-uomo che anche a noi somiglia: inquieto e come alla ricerca di un’antica armonia perduta, o non trovata. Un personaggio che dolorosamente ritrova un padre mai avuto (un uomo «molto stanco che con abiti troppo grandi si avvicina alla fine», quasi al capolinea) al quale decide di raccontare la propria vita disordinata, che sembra sfuggirgli di mano, proprio mentre la sua compagna – che non è più sicuro di amare – sta per dargli (a lui, Cristiano) un figlio: un bimbo con occhietti da canaglia, da «unno invasore», e con i «mignoli perfettamente uncinati». Proprio le stesse caratteristiche di Cristiano: che da bambino, come un intrepido palombaro (sprofondato in una vecchia tuta da lavoro del nonno, con sulla faccia una maschera da saldatore), guizzava con straordinaria agilità nella camera della nonna a caccia di mirabolanti tesori, come fosse in fondo all’oceano, sicuro della protezione dei papà che si era immaginato: D’Artagnan, Sandokan, Jean Valjean, il conte di Montecristo, persino Dio.

I frutti della vita, dunque; quelli cioè che alla vita stessa appartengono, che le conferiscono dignità e senso. Dapprima assaggiati quasi inconsapevolmente, poi insinuati nell’animo, quindi riscoperti da adulto; e vissuti come favola di sé: l’assenza, l’inquietudine, la malattia, il dolore, la morte, la gioia, la fantasia, le cose semplici, i bambini, l’amore. Soprattutto l’amore, la scoperta e riscoperta dell’amore. E il lettore si sente come convitato ad un gioco di intelligenza attiva, pagina dopo pagina. Guizza - anche lui palombaro - nelle profondità cui si spinge il protagonista, a seguirne la difficile rotta. Fino all’epilogo della storia. Quando si torna in superficie, dopo aver recuperato qualche tesoro. Quando la vita finisce e ricomincia. Quando si viene a capo di un agile filo di fantasia che corre lungo le nostre iinquietudini, balugina tra le intermittenze del cuore, si impenna in grappoli di gioia.

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