Le scuole di scrittura creativa sono doping letterario. Le loro regole, insegnate e applicate costantemente dai soliti furbetti del quartierino narrativo italiano sono colpevoli di drogaggio delle patrie lettere. Il doping letterario consiste nell’uso (o abuso) dei trucchetti del mestiere (di scrivere) allo scopo di aumentare artificialmente il rendimento del libro e le prestazioni dell’autore. Poco si sa degli effetti collaterali causati dalle sostanze fornite al testo mentre evidenti sono i miglioramenti in termini di statura culturale e risultati commerciali. Da precisare, tuttavia, che sul lungo periodo il doping letterario può arrecare gravi danni fisici e psicologici all’autore fino a causarne la scomparsa per anonimato. Il doping letterario dovrebbe essere reato e concorrere alla configurazione della frode culturale.
Tutto quello che le scuole di scrittura possono insegnare lo si può apprendere più agevolmente e senza sputtanarsi migliaia di euro da questi tre libri
(se proprio vogliamo!)
Tutto il resto che c’è da imparare è già nei libri indimenticabili della letteratura italiana e straniera.
Mi sono presa tre giorni di malattia. Alzandomi la mattina scopro che la nuova tappa del dolore che colpisce il mio bambino stamane aveva in serbo che la carne si richiudesse sopra il suo occhietto fanciullo. Nel silenzio dell’alba, quando già una debole luce comincia a filtrare attraverso i doppi vetri del mio appartamento, sono stata svegliata da un rumore minimo. Un suono spaventoso a pensarci adesso. Lì per lì non sapevo a cosa attribuire questo rumore, ero nel dormiveglia, ma poi Piero si deve essere svegliato, deve aver capito a modo suo cosa gli era appena successo e ha cominciato a piangere. Piangere? Erano urla disperate. Mi sono alzata di soprassalto, mi sono curvata sulla sua culla e l’ho preso in braccio e nel frattempo scoprivo quello scempio che il Signore gli ha riservato. E capivo atterrita, terrorizzata, che cosa era stato quel rumorino agghiacciante. La carne che dopo impercettibili ma progressivi spostamenti si richiudeva con un ultimo scatto sul suo occhietto chiuso di fanciullino addormentato. Ho sentito una brutta fitta nella bocca, una lima strisciata sui denti.
Adesso rivedo quest’uomo davanti a me. Questo bastardo, lo rivedo dopo vent’anni e proprio non me ne faccio una ragione. Sono tante le cose di cui ho imparato a farmi una ragione. Nel Nuovo Testamento Paolo dice che il dolore non è altro che “il sovrabbondare della gloria in tutte le tribolazioni”, ma io adesso non ce la faccio più.
La lingua è nata per celebrare il mistero del corpo glorioso.
Ammetto di essere calato al peccato. Sul mio altarino personale c’è Di Pietro che fa capolino da un santino dietro un cero acceso. Di fianco al santino c’è pure la tessera dell’Italia dei Valori. Sono stato dark a quindici anni. Grunge dai diciassette ai venti. Poi mi sono innamorato del teatro e di ‘un maestro’. Ho scritto un primo libretto per raccontare i miei vent’anni e i modelli che mi ritrovavo allora. Ghiandole si apre su un concerto degli Al Darawish (oggi Radio Dervish) nel centro sociale Brioscine Meridionali, che fu forse la mia ultima esperienza giovanilistica, ma non per questo il concerto non fu strafantastico con il cuore che mi si apriva e mi si fondeva con tutta quella ressa per la bellezza della musica e della festa. Cosa che non accadrà mai più ai Radio Dervish. Sono stato iscritto per troppi anni ad Economia e Commercio, fidanzato in casa per sette anni e pettinato con la riga a destra. Ho pubblicato Ghiandole pagando milleduecento euro in tre rate bimestrali. Mi sono dato definitivamente alla scrittura e lavoro all’Auchan per finanziarmi la passione. Poi sono arrivati i Racconti a vita bassa e Quarup e non voglio stare a menarla ancora con questo intrico splendido e nodoso. Da qualche tempo il tesseramento all’IDV. Ieri sera però ho visto questo film . La colonna sonora ha inevitabilmente risospinto la mente verso la mia adolescenza. Lo script invece me l’ha riportata sul mio presente e futuro di scrittura: la strepitosa asciuttezza di una vicenda narrata senza leziosismi e romanticherie, in un cupo bianco e nero (non poteva essere immaginato diversamente un racconto sui Joy Division). Tutto per me è monito di andare all’osso.
Improvvisamente mi sono vista uscire da una bolla acquosa e prendere forma. Improvvisamente è iniziata la mia seconda vita.
La sfera è fatta prevalentemente di acqua. Acqua salata ma limpida. Da qualche minuto sulla sfera si è formato un riflesso nel quale è possibile scorgere i tre quarti di un uomo sulla cinquantina, magro, il volto scavato ma l’aria distinta. La sfera rientra in una costellazione di sfere tutte molto simili tra di loro, tutte fatte di acqua leggermente salata. Tutte raggruppate sopra il labbro.
Quando mi sono accorta che mi era cominciato il sudore freddo ho lasciato la fila allo sportello della stazione e sono corsa in bagno per darmi una sistemata. Ho tamponato il sudore con un fazzolettino di carta che ho buttato via nel cestino e mi sono guardata allo specchio con le mani appoggiate sul lavello. Le braccia mi tremavano ma dopo un pò il mio corpo aveva cominciato a trarre beneficio dal contatto con la superficie fredda del piano liscio in cui sono incassati i lavandini. Mentre esaminavo il mio volto nello specchio sono riandata alla scialba immagine di quell’uomo riflessa nello spicchio della bolla. E gli spicchi di ciascuna delle bollicine di sudore che mi imperlavano il labbro mi replicavano l’immagine di quel bastardo in un effetto prisma che ha sancito in via definitiva il mio odio per questa persona. Tutto qui. Prendere atto di questa rinascita all’odio è stato questione di un minuto. Ho dato due colpetti con la mano per aggiustarmi i capelli e sono uscita dalle latrine rovistando nella borsa alla ricerca del cellulare. Le mie dita, come mosse da un estraneo, frugavano agitate tra uno specchietto sbeccato e il portamonete, restavano impigliate tra la pinzetta delle sopraciglia, il mazzo delle chiavi e la lima per le unghie. Il telefonino non lo trovavano mai. Ancora lì tra carta di caramelle, deodorante e borsellino portadocumenti, poi il caricatore del cellulare. infine il cellulare.
Decisi di tornarmene a casa. Composi il numero del mio capo e lo avvertii: mi sono sentita male per strada, non mi sono ancora ripresa, non posso venire al lavoro.
Grazie ad ALIAS del 6 dicembre scorso, uscito con una copertina su la Bibbia Gotica (Arcana, pp. 433, euro 19,50) di Nancy Kilpatrick, ho potuto rituffarmi nei miei sedici anni, età in cui esplorai i territori della new wave e la sottocultura dark. Decisi di essere della partita, un goth, di calcare quella scena lì e di diventare uno in nero. Ricordo che indossavo dei jeans elasticizzati neri, un po’ scaduti sul cavallo, visto che ero e sono tuttora un senza culo, nel senso che non ho chiappe. Non temevo il ridicolo e non mi fregava se mi ridevano dietro. Ancora oggi mi capita, anche sul lavoro, che mi domandino: “Nicola, e il culo? L’hai lasciato a casa?”. Ma tornando ai tempi, mi piace ripercorrere quel mondo di dark alle vongole. Ricordo anche che pensai di arrivare a spararmi della roba in vena per raggiungere un certo stato mentale e dell’anima, che forse mi mancava.
E se questo non successe qualcosa voleva pur dire. Vuol dire che alla fine della fiera era sempre meglio tornare la domenica a mangiare la lasagna della mamma. Il chiodo fisso della magrezza fino al sabato, ma la domenica è sempre domenica. Dovevo essere quello che la Kilaptrick definisce un poseur. Ci si fermava a qualche cannetta e neanche troppo spesso, ché a sedici anni con la paghetta settimanale di dieci mila lire dove potevi andare? Ci si imbucava nelle feste, ancora fatte in casa, a Modugno, Bitonto e Palo del Colle, dove si riusciva a forzarle a tal punto che un diciott’anni impostato sui trenini e pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe-pe poteva anche svoltare non dico sui Christian Death o Siouxsie and the Banshees ma sui Cure e i Depeche Mode, beh questo sì. Il concerto dei Depeche Mode a Pasadena era senza dubbio il momento che prediligevo e chi mi procurava deliquio. Il look prevedeva scarpe con punta metallica abbacinante, maglie e camicie larghe abbottonate bene fin sotto il mento e portate rigorosamente fuori dai pantaloni ma poi ognuno personalizzava come più gli garbava, con spilloni e impermeabili tenebrosi. Le zazzere sguinciate portavano poi gli adulti che ci osservavano a una pericolosa criminalizzazione dei nostri barbieri. Voglio però tornare su un punto: la magrezza come dogma di fede. Ma l’avete visto oggi Robert Smith?
Quando la nostra discussione, partendo da Il delitto dei giusti, è approdata al tema della giustizia mi sono chiesto ed ho chiesto a Giuseppe Giglio se questo totem, la giustizia appunto, potesse avere corso, e se non proprio un presidio costante, che almeno si lasciasse recuperare talvolta nella nostra disperante attualità almeno come memento, cioè come coscienza che non solo nello spazio (ci dovrà pur essere un giudice a Berlino) ma anche nel tempo avrà pure da venire l’ora in cui un congegno teso a ristabilire equilibrio tra individui offesi e oppressi fino a perdere ogni vestigio di dignità ed altri individui oppressori, ai quali la vita sembra aver dischiuso ogni possibilità fino ad apparire, la loro vita, come una perenne, beneaugurante aurora; avrà pure da venire, dicevo, l’ora in cui questo congegno di giustizia possa trovare concreta applicazione.
Da ciò è nato, a mio parere, quel che dovrebbe essere un vero e proprio dibattito: Ripristino di giustizia? Quale giustizia?
Io credo che, se è vero che esiste la sofferenza umana, se è vero che esiste un mondo chiuso e “serrato nel dolore” (Carlo Levi), giustizia sarebbe allora prevedere un ordinamento sociale che sappia farsene carico ed un orientamento culturale, sotteso al primo, che conosca la partecipazione al dolore degli ultimi.
Tutto questo oggi non c’è, o viene a mancare quel poco che se ne era faticosamente costruito, per varie ragioni. Queste le hanno bene illustrate i media con Nanni Moretti che dice: “questo paese non ha più il senso della legalità”; Marco Travaglio che scrive per meglio acconciare, e con maggior humour, il pensiero di Di Pietro; i magistrati che sono costretti in prima linea, ritengo non per protagonismo ma per riempire un vuoto normativo spesso figlio di un vuoto politico se non proprio di un vuoto di pensiero di chi certi problemi non sa neanche da che parte cominciare a gestirli, e gli scivolano dalle mani, gli sfuggono la complessità, le sfumature, i nessi più elementari di causa ed effetto. E poi c’è l’individualismo di tutti noi, l’indifferenzismo dilagante, la deriva morale, la mancanza di rispetto, il si salvi chi può, il suv in doppia fila, il cuba libre e il mojito, la legittima rincorsa al paradiso in terra e la meschina illusione secondo la quale ciascuno di noi, pur vivendo in un villaggio di poche anime, se c’è qualcuno che prepara cuba libre e mojito e te li vende a quindici euro l’uno, pensa di essere felicemente intruppato anche lui in una capitale dell’edonismo.
Se oggi fustighi codesti costumi ti appioppano un moralismo rozzo e da destra e da sinistra. Da destra lo sappiamo. Ma da sinistra, dai comunisti duri e puri, quelli che io credevo uomini dalle mani pulite, sentir strologare di regole, costituzione e diritto come sovrastrutture, come emanazione o riflesso del cerbero imperialista … mah, c’è francamente da trasecolare. Una concezione che non riesce a misurare l’abisso che ci separa dalla piena applicazione, per esempio, della carta costituzionale. Un approccio secondo il quale viene prima di tutto il migliore dei mondi possibili e dopo tutto il resto, e fino a quel momento il rispetto delle regole può anche andare a farsi benedire così come a cacare ci può andare l’avversione nei confronti di chi ci calpesta e ci devasta, noi poveri fessi che ancora crediamo che la cultura propizi la civiltà e esorcizzi la violazione dei diritti. Allo stesso modo fu fatta l’Italia: con gli italiani ancora da fare. E se gli italiani nel frattempo si sono fatti, che spettacolo, signori, questi italiani!
Con arroganza ripetete a memoria / quel che non sapete / idee-spray schiuma /di vecchie e nuove idee / (più vecchie che nuove) /che le vostre / labbra squagliano e sbavano / come appena ieri in braccio alla mamma / -La mamma la mamma- / il gelato di crema. E colano / dalle vostre barbe di protomartiri / coltivata impostura / finzione di una maturità che vi faccia / uguali al padre e idonei dunque all’incesto. / la mamma / tutto qui il problema / la donna che sta nel letto di vostro padre / e voi annunciate il suo regno / e sotto la barba avete facce / di sanluigi del neo-capitalismo / tutte le tare dei Gonzaga in quel volto affilato / tutte le tare della borghesia nel vostro / lui cresciuto tra i nani e i buffoni / tra i gobbi e gli impotenti / distillato dal malfrancese / e fu santo perché mai guardò in faccia sua madre / che era donna / e voi la guardate in faccia e pensate / che è una troia se sta nel letto di vostro padre / perché siete più santi di lui anche se non lo sapete / e siete cresciuti anche voi / tra buffoni nani e impotenti / tra l’oro e la luce / la barba dunque a rendere tenebrose / le facce di magnaccia delicati / di invertiti / pervertiti / e Robespierre che non aveva barba / ride di voi della vostra rivoluzione / il suo teschio ride / la sua polvere / la sua estrema omeomeria che più vale / di tutta la vostra vita / cioè del fatto che siete vivi e lui morto / e anche Marx che aveva la barba ride / Ride in ogni pelo della sua barba / ride dei gusci vuoti che vi ha lasciato / sonagliere che tintinnano / del seme essiccato del seme spento / e voi ve ne parate come muli da fiera / le scuote nell’ozio nell’insoddisfazione nel disgusto / (il seme vivo di Marx è in coloro che soffrono / che pensano / che non hanno bandiere) / ridono Robespierre e Marx / ma forse anche piangono / dell’uomo non più umano che in voi si realizza / del pensiero che non pensa / dell’amore che non ama / del perpetuo fiasco del sesso e della mente / con cui annunciate il regno delle madri / e that is not what I meant at all / that is not it, at all / non questo non questo / e nemmeno noi volevamo questo / noi buffoni / viziosi / corrotti / noi padri / nemmeno noi / poiché prostituivamo la vita ma intendevamo l’amore / prostituivamo la mente ma intendevamo il pensiero / la ragione / il sesso / l’uomo e la donna / il maschio e la femmina / il dolore / la morte. / Diceva Talleyrand che la dolcezza del vivere / conoscevano solo quelli che come lui / avevano vissuto prima della rivoluzione / ma dopo di voi (non dopo la vostra rivoluzione / ché non la farete) non ci sarà più / reliquia riflesso eco / della dolcezza del vivere / né di voi resterà storia / se non negli archivi del federal narcotic bureau. / l’uomo umano ha avuto la sua luna / umana dea / quieto lume d’amore / voi avete la vostra / grigia pomice vaiolosa / deserto degno delle vostre ossa non più umane / natura morta con le morte ampolle del senno / ma già non sapete niente / dell’ariostesca fiaba di Orlando / del suo senno recuperato da Astolfo / in un viaggio lunare / del senno sigillato in un fiasco / come il vostro (ma irrecuperabile / è il vostro). Il fiasco natura morta / il fiasco cilecca dell’eros / come Stendhal diceva / in italiano nel testo / Stendhal che voi non conoscete / Stendhal che parla / la lingua della passione cui siete morti.